Il 21 febbraio 2001 Giovanni Paolo II nominò cardinale il p. Roberto Tucci, gesuita, per molti anni direttore della rivista «La Civiltà Cattolica», poi della Radio Vaticana e infine organizzatore dei viaggi al di fuori dell’Italia di papa Wojtyła, quando p. Tucci sostituì mons. Marcinkus, non più presentabile in quegli anni. Ne ha organizzati 77. A questo ultimo ufficio (a cui però non corrispondeva una carica specifica nella Curia Romana) svolto al servizio diretto del Papa, deve il cardinalato, conferitogli quando mancavano pochi mesi al compimento degli 80 anni. Anche se Giovanni Paolo II lo ringraziò pubblicamente più di una volta anche per «il suo grande lavoro alla Radio Vaticana». Al sottoscritto che faceva presente la problematicità della porpora conferita a una persona certamente meritevole, ma che, data l’età, non avrebbe potuto essere vescovo diocesano né assumere incarichi ufficiali in Vaticano, un prelato della Segreteria di Stato rispose amabilmente e sorridendo: «Cosa vuole, padre, la teologia della gratitudine è molto coltivata in Polonia». Battute a parte, il card. Tucci è stato certamente un protagonista nella vita della Chiesa dell’ultimo cinquantennio, anche se forse non uno dei più noti.
Nato nel 1921, napoletano di nascita, con padre napoletano ma mamma inglese, venne battezzato nella Chiesa anglicana, a cui aderiva la mamma. A 14 anni venne ribattezzato nella Chiesa cattolica e l’anno seguente, cioè nel 1936, entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù, nella quale ha compiuto tutta la sua formazione, seguendo il normale curriculum di un gesuita di quel tempo. Particolare ed entusiasmante ricordo conservava degli studi teologici, compiuti per quattro anni a Lovanio, in Belgio, dove erano già vive e insegnate molte delle problematiche che sarebbero in seguito emerse nel Concilio Vaticano II. Gli anni di studio in Belgio, in ambiente francofono, lo aiutarono non poco più tardi ad essere accettato dai vescovi belgi e francesi che in qualche modo lo sentivano dei «loro». È noto del resto che la teologia che si impose nel Vaticano II fosse stata elaborata in buona parte dai teologi francesi e tedeschi. P. Tucci conosceva bene anche il tedesco e questo lo mise in grado di mediare bene anche tra l’ambiente italiano e quello mitteleuropeo. Passò poi all’Università Gregoriana sino al conseguimento del dottorato in teologia.
Per due anni insegnò alla Facoltà Teologica «San Luigi» di Napoli, ma nel 1956 venne chiamato a far parte della redazione de «La Civiltà Cattolica» di cui nel 1959 diventò direttore, a soli (almeno per i gesuiti!) 38 anni. Vi restò sino al 1973, quando cedette la direzione al p. Bartolomeo Sorge, per passare, come si è detto, alla Radio Vaticana. Come direttore della rivista ha vissuto perciò tutti gli anni sia di preparazione del Concilio, sia del suo svolgimento e quelli non meno difficili del postconcilio. Si può dire senz’altro che, pur non essendo stato un padre conciliare in senso stretto, è stato un protagonista di quell’evento, il più importante della vita della Chiesa negli ultimi 150 anni. Ha svolto un compito spesso poco conosciuto, non molto alla ribalta, ma molto significativo, non privo di influenza sull’elaborazione di alcuni documenti ma soprattutto sulla conoscenza del Concilio stesso da parte della Chiesa e del mondo.
Occorre dire anzitutto che l’allora padre Tucci godette sempre la piena fiducia dei papi Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, che egli servì fedelmente, nello spirito del voto di «speciale » obbedienza proprio della Compagnia di Gesù. Tucci ha scritto relativamente poco, se non nei primi anni passati alla facoltà di Napoli e alla rivista. Ma riuscì a formarsi un’équipe di redattori, tutti gesuiti e quasi coetanei, con i quali accompagnò da vicino i lavori conciliari e li divulgò efficacemente facendo conoscere il profondo e inedito sforzo di rinnovamento che la Chiesa cattolica stava compiendo. Facendo questo, trasformò anche la rivista, prima sempre battagliera e polemica, secondo lostile giornalistico dell’epoca (era nata per volere di Pio IX nel 1850 per difendere la Chiesa e il cristianesimo contro le idee della Rivoluzione francese e contro l’anticlericalismo ottocentesco). Di fatto il Concilio portò una ventata di aria fresca anche tra le austere mura di una rivista che per un secolo si era distinta per la sua linea intransigente di difesa della dottrina tradizionale. La rivista divenne così da allora una rivista di dialogo, sempre attenta alla difesa della verità, ma senza le aspre polemiche del passato e le battaglie (in genere perse, ma «perse con stile», come notò lo storico Gabriele De Rosa) contro l’Unità d’Italia (che significava la fine dell’ultramillenario Stato pontificio), contro la massoneria, il socialismo eversivo e massimalista di allora, più tardi contro il comunismo, contro gli ebrei e i cristiani non cattolici e così via. Del resto in Italia, in quel momento, nei primi anni Sessanta, erano vive anche le polemiche per la cosiddetta apertura a sinistra, e lo stesso annuncio del Concilio, a parte la sorpresa universale, non trovò certo entusiastica accoglienza in molti ambienti ecclesiastici, compresi quelli romani. Illuminanti sono a questo proposito i diari di p. Tucci, non ancora pubblicati (se non per stralci inseriti negli articoli dello storico de «La Civiltà Cattolica», p. Giovanni Sale S.I.), che riferiscono dei suoi dialoghi con i papi del Concilio, delle direttive ricevute e delle difficoltà che il cammino conciliare incontrava. Le difficoltà crebbero soprattutto a mano a mano che si manifestava la volontà della maggioranza dei padri conciliari (cioè dei vescovi che ne facevano parte) di procedere a un deciso «aggiornamento » della Chiesa in materia, ad esempio, di liturgia, di ecumenismo, di ecclesiologia, di libertà di coscienza, di uso della Sacra Scrittura e di apertura al mondo moderno. Quest’ultimo in particolare non veniva più visto come una costante minaccia per la fede e per la Chiesa, considerata una fortezza assediata, ma come una nuova sfida ai cristiani per proporre in nuovo modo l’immutabile annuncio del Vangelo in tempi decisamente cambiati e che richiedevano un linguaggio rinnovato.
Il Concilio, come è noto, ebbe una risonanza mondiale e i massmedia se ne occuparono in modo massiccio (in bene e in male, ma generalmente in bene). Nacque di fatto la sala stampa vaticana (che poi venne istituzionalizzata) e la figura del vaticanista Alcuni teologi vennero prescelti per spiegare i lavori conciliari ai giornalisti accreditati, nelle lingue principali. P. Tucci fu incaricato di farlo, riscuotendo molto successo, per la lingua italiana e divenne amico di molti giornalisti, non solo italiani. GiovanniXXIII chiese e ottenne che «La Civiltà Cattolica» desse ampio spazio all’evento, così come la rivista aveva fatto quasi cento anni prima per il Concilio Vaticano I. Nella sede de «La Civiltà Cattolica» poi si riunivano i gesuiti inviati dalle redazioni delle loro riviste (una ventina in Europa), alcuni dei quali vi trovarono anche alloggio, per confrontare le loro impressioni sul dibattito e sui documenti approvati. Il p. Giovanni Caprile, anch’egli napoletano, ne divenne il cronista ufficiale, sotto la guida di p. Tucci, e redigette molte cronache, ripetutamente apprezzate anche dai papi e riunite poi in sei corposi volumi, che costituiscono tuttora una documentazione fondamentale sui lavori conciliari. P. Tucci ricordava ancora anni dopo che, per ogni pubblicazione di p. Caprile sul Concilio, Paolo VI inviava all’autore un biglietto autografo di ringraziamento. Ma come direttore p. Tucci fornì informazioni e materiale a tutti gli altri scrittori della rivista. Egli aveva di fatto accesso a tutti i dibattiti e fu nominato prima membro della Commissione preparatoria del Concilio per l’Apostolato dei Laici. Nel 1962 venne scelto da Giovanni XXIII come perito conciliare e come tale collaborò alla redazione della Lumen gentium (per la sezione sui laici) e più tardi alla tormentata stesura del cosiddetto Schema XIII, che divenne poi la Costituzione pastorale Gaudium et spes, l’ultimo testo approvato dal Concilio e che fu poi oggetto di molte critiche perché giudicato troppo ottimista. A questo proposito p. Tucci, ormai già cardinale, intervistato da Filippo Rizzi dell’«Avvenire», dichiarò che se le critiche rivolte successivamente al testo dall’allora giovane teologo bavarese Joseph Ratzinger e da Karl Rahneravessero trovato spazio nel testo, questo ne sarebbe risultato molto migliorato, con un’adeguata considerazione della teologia della croce all’interno della costituzione pastorale. Non tutto però andava in modo così semplice. Vari gesuiti della «vecchia guardia» della redazione non erano affatto pronti ad accettare il nuovo corso e a cambiare l’atteggiamento al quale erano stati educati e per sostenere il quale avevano sino ad allora speso una vita, ed erano convinti che il Papa fosse «male informato». Non era del resto facile pretendere che gli eredi del Sillabodi Pio IX accettassero il principio della libertà di coscienza in materia di religione, dopo averlo condannato per una vita perché «la verità è una sola», oppure che gli ebrei, ritenuti deicidi e che avevano rifiutato di accogliere il Salvatore, diventassero adesso i «fratelli maggiori» nella fede, anche se i documenti conciliari (pur esprimendone la sostanza) non usano ancora questa espressione che Giovanni Paolo II rese celebre. Alle osservazioni di p. Tucci sulle tensioni interne alla rivista, il Vaticano dichiarò che cambiare la composizione della redazione della rivista (opera dei gesuiti, conresponsabilità propria, ma che lavora in sintonia con la Santa Sede) non ercompito del governo centrale della Chiesa. Al massimo, avrebbero «bocciato» gli articoli non in linea con il nuovo corso desiderato dal Papa. P. Tucci ottenne perciò dall’allora generale della Compagnia di Gesù, il p. Pedro Arrupe, una disposizione che escludeva dalle riunioni della redazione (nella quale si determinava la linea editoriale) i padri che avessero compiuto i 65 anni (più tardi si passò ai 75, norma che vale tuttora), cioè tutti gli anziani, che avrebbero però potuto continuare a scrivere. Questi ultimi, da buoni gesuiti, obbedirono, ma non furono momenti molto tranquilli. Non erano, come noto, problemi soltanto dei gesuiti della rivista. Paolo VI, per concludere il Concilio in modo che fosse un evento altamente positivo nella storia di tutta la Chiesa, dovette continuamente mediare tra la maggioranza, propensa all’innovazione, e la minoranza, che vedeva nelle novità, anche dottrinali, il pericolo di uno sbandamento capace di compromettere molti elementi essenziali della tradizione. Il risultato fu un’attenuazione di alcune delle dichiarazioni più innovative nei vari testi, ma anche l’approvazione alla quasi unanimità di tutti i documenti conciliari, anche da parte di alcuni vescovi, come mons. Lefebvre che, con poca coerenza, pochi anni dopo la chiusura delle assise conciliari contestò alcuni dei testi che anch’egli aveva firmato. Un articolo che il p. Tucci aveva richiesto al p. Agostino Bea, allora rettore dell’Istituto Biblico e di lì a poco cardinale, sulle questioni ebraico-cristiane e che affermava la non diretta responsabilità degli ebrei nell’uccisione di Gesù, venne bocciato dalla Segreteria di Stato (e dal card. Amleto Cicognani). L’autore accolse molto serenamente la bocciatura, comunicatagli personalmente dal p. Tucci, e lo fece pubblicare su una rivista dei gesuiti svizzeri. L’articolo non faceva altro che anticipare quanto venne poco tempo dopo approvato dal Vaticano II nella dichiarazione Nostra aetate e nel decreto De oecumenismo, anche grazie al contributo del card. Bea. Pure dopo la fine del Concilio p. Tucci continuò a impegnarsi per far conoscere il Concilio, che aveva vissuto così da vicino, facendosene propagandista e divulgatore, scrivendo articoli, partecipando a dibattiti, scrivendo prefazioni a testi di commento ai documenti del Vaticano II e così via. Un settore nel quale fu particolarmente attivo fu quello ecumenico, sia per l’esperienza della propria famiglia, sia per la conoscenza delle principali lingue moderne occidentali, sia per un’innata propensione al dialogo e al confronto. Fu il primo sacerdote cattolico ad essere invitato a tenere una relazione all’Assemblea generale del Consiglio mondiale delle Chiese, a Uppsala, in Svezia, nel luglio 1968, sul tema Mouvementoecuménique, Conseil oecuménique des Eglises et Église Catholique.La conferenza ebbe larga risonanza e fu pubblicata da molte riviste, protestanti e cattoliche. Ricevette, per un articolo su un tema analogo apparso sulla rivista dei gesuiti statunitensi America, anche il premio giornalistico 1969 «Journalism Award» della Catholic Press Association, per aver scritto «l’articolo che nel 1969 ha dato il maggior contributo all’ecumenismo». Nel 1975 venne invitato a partecipare, come ospite, alla V assemblea del Consiglio mondiale delle Chiese a Nairobi (Kenya). P. Tucci, prima di essere cardinale, ha svolto anche un intenso lavoro all’interno dell’Ordine a cui apparteneva, la Compagnia di Gesù, in particolare durante lo svolgimento di diverse congregazioni generali (quelle che gli altri ordini chiamano capitoli) nelle quali non mancarono le tensioni, segno di vitalità e di crescita. Nell’ordine però non ha mai avuto uffici di responsabilità. Non è mai stato cioè superiore. L’ufficio di direttore della rivista infatti non è una carica interna all’ordine. Ciò non toglie che sia stato un grande, caro e affettuoso confratello e un grande servitore della Chiesa in momenti storici significativi. In questo ha ben realizzato la sua vocazione di gesuita. Come dicevo all’inizio, il card. Tucci ha scritto relativamente poco sul Concilio e sul lavoro svolto in quel tempo. Di più, ma sempre in forma occasionale, ha parlato dei viaggi con Giovanni Paolo II, anche se, dopo che ricevette l’incarico di organizzatore dei viaggi, decise anche di non rilasciare mai interviste ai giornalisti su questo punto. Ma dagli interventi che faceva alla presentazione di libri e in simili occasioni, si capiva che sarebbe stato una miniera di informazioni sul periodo conciliare. Un cardinale che gli è particolarmente amico mi esortò, quando ero direttore della rivista, a convincere p. Tucci a scrivere sul Concilio, ma non ci riuscii. Era troppo preoccupato di sbagliare o di dire cose che non avrebbe potuto documentare adeguatamente, e non lo fece. Il mio timore è che, alla sua morte, il più tardi possibile, salirà al Cielo con lui tutta la sua biblioteca vivente.
Antologia
Roberto Tucci sj, La Chiesa e la pace, in «La Civiltà Cattolica» a. 114 vol. II, 4 maggio 1963, pp. 209-222
La missione della Chiesa, come quella del suo divin Fondatore, è essenzialmente missione di pace. Vero ed attuato in ogni tempo, questo suo carattere s’è imposto al nostro secolo, che ha avuto il triste privilegio d’assistere a due spaventose guerre mondiali e di vivere ancora sotto l’incubo d’una terza e ben più rovinosa conflagrazione. In queste circostanze, la Chiesa ha più che mai intensificato la sua opera di madre e di maestra, per placare gli animi e per additare le vie d’una pace vera e duratura. Non altro si proposero i numerosi interventi pontifici di quest’ultimo cinquantennio: dalla ben nota esortazione di Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti, all’angosciosa offerta della propria vita compiuta da Pio XI, all’instancabile azione diplomatica e caritativa di Pio XII, per impedire, prima, e per circoscrivere ed alleviare, poi, gli orrori della guerra. Questi Papi, nello stesso tempo, non cessarono di esporre ed inculcare i principi e le condizioni capaci di assicurare a tutti i popoli una pace giusta e stabile, feconda di benessere e di prosperità spirituale e materiale. I radiomessaggi di Pio XII restano, in questo campo, un insigne monumento di ansia pastorale non solo, ma anche di un superiore equilibrio umano e di rara saggezza politica: basti qui ricordare quello del 1941, su «alcuni presupposti essenziali di un ordine internazionale », e l’altro, del 1954, sulla «pacifica coesistenza dei popoli nel mondo», nel quale alla coesistenza nel timore e nell’errore si opponeva quella nella verità come superamento della cosiddetta «pace fredda».
L’opera di Giovanni XXIII per la pace
Giovanni XXIII si inserisce pienamente, anche se con un suo stile inconfondibile, nella scia tracciata dai suoi grandi predecessori. L’enciclica Pacem in terris, di cui intendiamo offrire una visione panoramica, non ha un carattere occasionale, quale potrebbe essere, per esempio, l’assegnazione del Premio Balzan per la pace, e tanto meno un’«improvvisata» di questo Papa che molti amano definire «imprevedibile», mentre la sua azione, aben considerarla, si svolge sempre coerentissima, unitaria e lineare, fin dagli anni lontani! Già all’inizio del suo pontificato, nell’enciclica programmatica Ad Petri Cathedram, egli indicava la verità, l’unità e la pace come tre beni inscindibili, da conseguire e promuovere secondo lo spirito della carità cristiana, ed affermava che la concordia tra i popoli e le nazioni presuppone l’armonia e la pace fra i vari ceti sociali ed in seno alla famiglia. Per fomentare questa «grande pace» a tutti i livelli, egli esortava a rilevare «non ciò che divide gli animi, ma ciò che li può unire nella mutua comprensione e reciproca stima». Era, questa, una direttiva da lui per primo costantemente attuata, e che, insieme con quello spirito di serena fiducia, di realistico ottimismo, di schiettezza, di semplicità, di umiltà sincera, sempre presente nei suoi contatti coi grandi e con gli umili, nei suoi discorsi abituali come nei documenti più significativi, faranno di Giovanni XXIII un uomo «pacifico» nel senso più genuino ed evangelico della parola e perciò, più di ogni altro, capace di preparare gli animi a quel disarmo degli spiriti che è presupposto di ogni vera pace. La Mater et Magistra verrà poi intesa come parte integrante di una vasta opera di pacificazione universale: vi si dichiarava, tra l’altro, che «la reciproca fiducia tra gli uomini e tra gli Stati non può nascere e rafforzarsi che nel riconoscimento e nel rispetto dell’ordine morale», il quale a sua volta «non si regge che in Dio: scisso da Dio si disintegra». La pace cristiana costituisce pure il fondo comune di molti importanti discorsi pontifici e specialmente di alcuni rilevanti radiomessaggi, a cominciare da quello del Natale 1959, fino all’altro del 25 ottobre scorso, in un momento in cui la tensione internazionale minacciava pericolosamente di esplodere. In questi documenti il Santo Padre non si stanca di richiamare, con apostolica fermezza e chiarezza, i reggitori dei popoli alle loro responsabilità dinanzi alla storia e, più ancora, dinanzi al tribunale di Dio; li ammonisce cortesemente e saggiamente a non cedere alla «suggestione» o al «mito della forza», bensì a fondare la propria azione sul «mutuo e vicendevole rispetto della dignità personale dell’uomo»; li esorta a «non restare insensibili» al «grido dell’umanità», a fare «tutto ciò che è in loro potere per salvarela pace», continuando a trattare, con «disposizione leale ed aperta», promovendo, favorendo, accettando ad ogni livello negoziati di pace. E, da padre, non manca di lodare amabilmente ogni barlume di buona volontà. Anche il Concilio Ecumenico viene considerato dal Papa come una grande opera di pace. Nel messaggio dell’11 settembre 1962 l’ha detto chiaramente: nel nome di Cristo la Chiesa, col Concilio, intende tra l’altro «guarire e sanare le cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di tutti i paesi», sollevare una volta ancora, a nome di tutti i padri e le madri di famiglia che detestano la guerra, «la conclamazione che sale dal fondo dei secoli e da Betlemme, e di là sul Calvario, per effondersi in supplichevole precetto di pace: pace che previene i conflitti delle armi: pace che nel cuore di ciascun uomo deve avere sue radici e sua garanzia». [...]