Romano Guardini e l’ethos dell’Europa

di 
A cinquant’anni dalla morte del grande teologo italo-tedesco, uno dei “Padri della Chiesa del XX secolo”, rileggiamo il suo pensiero sull’Europa, vista come “un destino” da ricomporre ma anche come compito etico da consegnare al futuro dei popoli europei fuoriusciti dall’epoca tragica segnata dalle guerre, dai totalitarismi e dalla macchia indelebile della Shoà. Un esercizio su cui merita ritornare soprattutto oggi, con l’Europa che ricerca le ragioni della sua unità.
 
 

Romano Guardini nasce a Verona nel 1885 (morirà a Monaco nel 1968) e già l’anno successivo si trasferisce a Magonza con la famiglia. In quella città conseguirà la maturità ginnasiale. Si iscriverà poi alla facoltà di chimica a Tubinga per poi passare a quella di economia politica (1904) presso le Università di Monaco e di Berlino. La sua vocazione però lo conduce altrove e, nel 1905, studierà alla facoltà teologica di Tubinga e poi di Friburgo fino a ricevere, nel 1910, l’ordinazione sacerdotale. Una formazione culturale che avviene interamente in àmbito tedesco. Diversa era la situazione in famiglia dove si parlava in italiano e si tramandava in modo convinto la tradizione culturale italiana. Il padre Romano Tullo, nato a Verona (1857), importatore internazionale di pollame, è politicamente un appassionato sostenitore di Cavour e un cultore di Dante. La madre Paola Maria Bernardinelli è invece trentina, nativa di Pieve di Bono (1862) nelle valli Giudicarie, ovvero il territorio confinante con la Lombardia, studierà nell’istituto delle Dame inglesi a Merano e nella famiglia rappresenta, ancor più fortemente del marito, lo spirito italiano unito. Un irredentismo, quello materno, che generava un rifiuto non privo di risentimento per tutto ciò che è tedesco. Generò un vero e proprio sconcerto in famiglia il fatto che il primogenito Romano decidesse, nonostante l’opposizione dei genitori, di assumere nel 1911 la cittadinanza tedesca compiendo una sorta di “esodo” volontario dalla patria d’origine italiana. Lui solo oltretutto di tutta la famiglia (rientrata in Italia dopo l’improvvisa morte del padre avvenuta nel 1919) aveva optato in tal senso.

Con la scelta della cittadinanza Guardini divenne un pensatore espressivo della cultura tedesca, da lui assorbita in modo irreversibile. Nella casa paterna di Magonza egli aveva respirato la cultura italiana oltre ad averne appreso la lingua. Ma al di fuori, a scuola, tra gli amici, nella formazione spirituale, all’Università, lingua e cultura furono indelebilmente segnate dal mondo tedesco. Certo frequenti furono ancora i viaggi in Italia in visita alla madre che vivrà fino ai 95 anni, ai tre fratelli Gino Ferdinando, Mario e Aleardo, ai nipoti, con soste prolungate nella residenza materna inizialmente sul lago di Como e poi, soprattutto a partire dalla fine degli anni Venti, nella villa nobiliare di Isola Vicentina dove egli amava preparare le sue lezioni camminando tra gli adorati alberi, che contemplava senza stancarsi.

La relazione seppur intensa con l’Italia non cambierà mai la sua opzione culturale complessiva. Durante la prima guerra mondiale dovrà addirittura svolgere il servizio militare come infermiere in un ospedale militare indossando l’uniforme tedesca mentre due fratelli prestavano servizio nell’esercito italiano. Il conflitto latente tra le sue due identità non potrà che essere lacerante ed esplosivo. Alcuni anni dopo cercherà di mostrare come aveva vissuto questo singolare conflitto e, soprattutto, come aveva cercato di uscirne: il suo auto-identificarsi quale “cittadino europeo”.

Una “genesi” del “fatto-Europa”

I numerosi saggi europeistici di Romano Guardini ci restituiscono non solo la potenza dell’argomentare del pensatore italo-tedesco, ma anche un clima aurorale, una “genesi” del “fatto-Europa”. Elemento su cui merita ritornare soprattutto oggi in cui l’Europa vive una forte crisi d’identità.

Guardini sente gravare su di sé un destino di primo acchito incomponibile: l’appartenenza a due patrie, due mondi culturali e spirituali diversi e nella grande guerra civile del Novecento ora alleati ora in conflitto. Come uscirne? Le sue potenti meditazioni sull’Europa dicono che solo l’Europa poteva diventare non solo “un destino” di ricomposizione per la sua personale identità divisa, ma anche un compito etico da consegnare al futuro dei popoli europei fuoriusciti dall’epoca tragica segnata dalle guerre, dai totalitarismi e dalla macchia indelebile della Shoà.

Nella Pentecoste del 1923, in un intervento a un convegno della Jugendbewegung a Grüssau (Slesia), confessa in pubblico il suo tormento interiore relativo alla scelta del servizio militare con l’esercito tedesco: «Il suo essere spirituale si radica – egli sostenne – nella cultura tedesca. Ha militato nell’esercito come soldato e la guerra e la disfatta lo avevano posto di nuovo di fronte alla decisione di definire a quale popolo egli davvero appartenesse. Si è deciso per la Germania. [...] È intimo dovere morale stare dalla parte del proprio popolo e contribuire a sostenere la sua opera. [...] Questo dovere sussiste in periodi normali, più che mai in quelli straordinari, quando al popolo sopravviene una distretta; allora la fedeltà dev’essere doppiamente profonda e l’unità doppiamente grande». Chiarito il significato di “fedeltà”, in specie nel momento della disfatta, emerge però già in questo intervento di Guardini un primo spiraglio di carattere europeistico. La fedeltà al popolo e alla cultura tedesca non gli impediscono di guardare all’Europa come luogo deputato al superamento di ogni forma di sciovinismo, che scatena i bellicismi e che divide addirittura i fratelli tra di loro come era avvenuto proprio nella sua famiglia. Questa “novità di formulazione” colpì particolarmente gli ascoltatori, che sentirono Guardini articolare in modo raffinato una relazione dialettica tra fedeltà al proprio popolo e apertura a un contesto superiore: «Vi sono però persone che hanno un senso dei legami che superano quelli di un solo popolo. Noi vediamo l’Europa vivente, che è emersa, vive ed esercita il suo influsso in un certo numero di persone». E al movimento giovanile cattolico consegnava proprio questo impegno peculiare di riconoscere il «fatto spirituale dell’Europa» come proprio destino. Non si può vivere di risentimenti, afferma decisamente il pensatore. Noi dobbiamo deciderci se agire demagogicamente o se vedere le cose in un’ottica di carattere superiore e pensare e agire sulla base della responsabilità di fronte a questo nuovo sviluppo, ormai ineludibile, in direzione europea. Un monito che purtroppo rimarrà in larga parte inascoltato in quegli anni che porteranno di lì a poco ai totalitarismi e frantumeranno ogni ipotesi di costruzione europea. Guardini aveva dimostrato una singolare lucidità profetica. Profeta purtroppo inascoltato (con rare eccezioni come gli studenti della Rosa Bianca) poiché la Germania andrà incontro alla sua deriva totalitaria e sciovinista.

In questo tragico contesto, Guardini scrive il suo secondo testo, di certo il più drammatico. Lo scrive da professore senza cattedra (toltagli dai nazisti) e senza più magistero perché l’unica cattedra e l’unico magistero erano ormai quelli del “grande” Führer e insieme Verführer (seduttore). Nell’isolamento del suo pensionamento forzato e anticipato egli cerca di analizzare come tutto ciò sia potuto accadere e quale possa essere in futuro il fattore immunizzante. Rilegge il tutto cercando di saldare il discorso europeistico alla cristologia. Solo una prospettiva cristologica ed europeistica insieme, meglio le due realtà in inseparabile connessione, potrà eradicare la follia del Blut und Boden, un fantasma che può sempre risorgere. Sono pennellate efficaci, anche se stringate, sul rapporto vitale tra il tessuto profondo dell’anima europea e la cristologia. Guardini conclude che «l’Europa, ciò che è, lo è attraverso Cristo – una verità, che Novalis ha proclamato nel 1799 nel Frammento, sostenuto da forza profetica, La cristianità ovvero l’Europa. [...] Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo – allora, e nella misura in cui questo avvenisse, cesserebbe di essere».

Che l’Europa abbia una genesi essenzialmente cristologica, lo si può riconoscere proprio quando è avvenuta in larga parte l’apostasia dall’origine cristiana. L’età dei totalitarismi ha tentato di innalzare il nuovo mito soteriologico del “salvatore terreno”, che avrebbe dovuto eliminare Cristo e la sua redenzione e fissare l’uomo in questo mondo. Se essi avessero definitivamente trionfato, sarebbe stata la fine dell’Europa, non tanto sul piano economico-politico, ma su quello della “figura umano-politica”, che porta il nome Europa. Che cos’è allora, in ultima analisi, l’Europa? È una “figura spirituale operante” grazie a Cristo. Cristo è stato attivo per quasi due millenni nella più intima profondità dei popoli europei, ne ha plasmato una particolare sensibilità e finezza. L’essere di Cristo ha liberato il cuore all’uomo europeo, gli ha dato la capacità di vivere la storia e di esperire il destino, l’ha liberato dall’antico stato servile, prigioniero nella natura e nel mondo, e l’ha posto dinanzi a Dio nella sovrana libertà del redento. Una libertà e una conseguente responsabilità, che dovrebbero essere immunizzanti dinanzi alla possibile catastrofe generata dalle sue stesse opere.

L’Europa e le sue feconde opposizioni

Contro l’uomo europeo “cristiforme” si muoveva il mito e l’istinto nazionalsocialista, che mirava a distruggere la dimensione europea per ottenere una massa informe di cui avrebbe potuto disporre a piacimento. Di qui l’odio mortale contro Cristo e contro tutto ciò che viene da Lui. Il mito del sangue come nuovo Mito del XX secolo, titolo dell’inquietante opera di Alfred Rosenberg, ideologo del nazismo, l’annullamento di ogni dimensione spirituale come contrappeso alla semplice biologicità, conducono alla fine l’essenza europea. Il futuro dell’Europa è nella fedeltà a se stessa, nel suo essere non solo determinata nel profondo dalla figura di Cristo, ma – e ben più – nel suo essere come strutturata da tale figura cristologica, se vuol conseguire la propria forma per eccellenza ed unica.

Un Guardini ormai settantenne, nel 1955, rivolgendosi ai colleghi dell’Università di Monaco che lo festeggiano, propone invece un intervento, sorta di bilancio, che salda insieme il tema dell’Europa con quello della peculiarità del suo insegnamento di «visione cristiana del mondo» (Europa e Weltanschauung cristiana). In questo contributo, il pensatore mette a tema la logica delle polarità che sono tipiche del suo pensiero. L’Europa per lui è nata nella polarità virtuosa delle sue due anime e tale dovrà essere anche l’Europa del futuro, incrocio fecondo di opposti polari. L’unità necessaria per ricomporre il proprio “io” frantumato dal duplice destino biografico, Guardini la trovò nell’essere europeo. In una sorta di bilancio, egli ricorda la feconda e liberante scoperta di quella “unità” e, insieme, mette in guardia sul rischio permanente di un’incomprensione tra Italia e Germania. L’Europa vive dunque delle sue opposizioni polari, della sua dialettica Nord-Sud, Est-Ovest, della sua polarità geografica tra l’altezza delle Alpi e la pianura, del suo essere crocevia di diversità non incomponibili ma fecondamente intrecciabili.

L’ultimo contributo in ordine di tempo, il più ampio, raffinato e completo, è nato da una circostanza accidentale, ma insieme dice il riconoscimento della grande originalità della sapienza europeistica di Guardini: il conferimento, nel 1962, del Premio Erasmo a Bruxelles. Il testo (Europa. Realtà e compito) pone una domanda urgente all’Europa, assegna ad essa una nuova missione. Se, forse, la stagione fanatica dell’autoaffermazione senza limiti dell’imperium nazionale è alle spalle (oggi saremmo meno ottimisti di Guardini) e l’integrazione europea è ormai possibile, la nuova sfida è il dominio del nuovo imperium: quello della téchne. Se l’identità europea è nel suo radicamento cristiano, meglio ancora nel suo legarsi alla “figura Christi”, quale è dunque la missione dell’Europa, il suo compito specifico nel contesto mondiale? Sul piano numerico essa potrà non esser più competitiva né dal punto di vista demografico, né sul terreno economico o industriale o anche scientifico e artistico. C’è una particolare prestazione assegnata in modo speciale all’Europa e che potrebbe essere certamente compiuta anche da altre parti del mondo, ma non con una tale, diciamo intrinseca, competenza?

La tesi di Guardini è riassumibile in questo: missione dell’Europa è il “disciplinamento etico” della potenza tecnica. Senza giungere ai toni apocalittici di Martin Heidegger o di Günther Anders, Guardini vede in questo la sfida etica e spirituale del futuro. Una sfida che compete proprio alla “vecchia Europa” e solo a essa, perché la sua “anzianità” può essere l’antidoto a ogni acritica ebbrezza e passiva fascinazione per il novum, che può essere soltanto il veicolo di un inedito dominio. Utopia morale? Certo quest’Europa che può assumersi una tale impegnativa missione non è ancora all’orizzonte. Per essere tale non deve rimanere un semplice fatto economico o politico, ma deve diventare una “disposizione di spirito”, un comune sentire. Occorre fuoriuscire definitivamente dalla logica degli Stati nazionali chiusi su di sé. Il formarsi dell’Europa presuppone invece che tutte le nazioni che la compongono ripensino la loro storia e rileggano il loro passato in relazione al costituirsi di questa grande «forma vitale», che è appunto l’Europa. Occorre un’Europa compiutamente dialogica, che superi l’egoismo nazionalistico degli Stati membri. Ciò potrà avvenire con l’esercizio fecondo dello «specchio», ovvero col vedere davvero se stessi nell’unico modo possibile, vale a dire nel vedersi con gli occhi dell’«altro», conoscendo persone di altri paesi e nazionalità. Un Guardini che auspicava quello che sarà il “progetto degli scambi Erasmus”. Dalle nicchie autoreferenziali delle nazioni si esce solo costruendo «ponti», intessendo ovunque relazioni trasversali non solo di carattere organizzativo, come accordi commerciali o forme di influenza politica, ma anche di natura umana. La storia di queste relazioni costituirà in realtà un importante capitolo della storia della nostra civiltà e cultura europee.

“Destino” dunque l’Europa, situazione destinale dell’immediato e del futuro per gli uomini che abitano il continente e che hanno finalmente trovato ragioni per unirsi e per non sbranarsi, ma insieme “compito” che fa sì che questo “stare-insieme” non sia solo mercantile e monetario ma abbia un obiettivo più alto. La lezione di Guardini rimane un prezioso viatico in tale direzione.

Antologia

«Ancora una volta: che cos’è l’Europa? Non è un complesso puramente geografico, né soltanto un gruppo di popoli, ma un’entelechia vivente, una figura spirituale operante. Si è sviluppata in una storia, che passa per quattromila anni e a cui non si può finora paragonare nessun’altra in ricchezza di personalità e di forze, in audacia d’azioni come in profondi movimenti di destini sperimentati, in ricchezza di opere prodotte come in pienezza di significato immessa in ordini di vita creati. Essa si innalza sempre di nuovo dalla costruzione delle città e dalle forme dei Paesi. Agisce nelle lingue – e quali lingue! – dal discorso luminoso dei Greci e dal discorso dei Romani, col suo sovrano dominio della forma, fino agli idiomi carichi di storia dei moderni popoli europei. Determina il modo di pensare, il carattere del valutare, il modo di sentire e di vivere. È una realtà com’è una realtà la struttura essenziale del cristallo di rocca, della quercia, dell’aquila, del contadino o dell’artista, solo molto più ricca in forme e stratificazioni, in forze e tensioni – ma anche perciò molto più vulnerabile e minacciata da pericoli» (1) .

«Una cosa è però sicura: l’Europa diverrà cristiana, o non esisterà mai più. Può essere ricca o diventare povera; può avere un’industria altamente sviluppata o dover ritornare a livello rurale; può assumere questa o quella forma politica – in tutto ciò rimane se stessa, finché vive la sua forma fondamentale» (2) .

«Se quindi l’Europa deve esistere ancora in avvenire, se il mondo deve ancora aver bisogno dell’Europa, essa dovrà rimanere quella entità storica determinata dalla figura di Cristo, anzi, deve diventare, con una nuova serietà, ciò che essa è secondo la propria essenza. Se abbandona questo nucleo – ciò che ancora di essa rimane, non ha molto più da significare» (3).

«A questo punto mi è riuscita chiara per esserne personalmente impegnato quella realtà il cui nome è oggi sulla bocca di tutti, ma di cui allora quasi nessuno parlava: il fatto “Europa”. Lo riconobbi però, allora, come la base, unicamente sulla quale potessi esistere: familiarizzatomi intrinsecamente con la natura tedesca, ma attenendomi con fermezza fedele alla prima patria, ed entrambi gli atteggiamenti non come una mera giustapposizione, ma fusi come una cosa sola nella realtà “Europa”, che certo nasce da necessità storiche, ma anche dalla vita di coloro che ne fanno l’esperienza nella propria esistenza.

Ancora qualcosa d’altro mi riuscì chiaro. Tra la Francia da un lato e la Germania dall’altro, nonostante tutte le sventurate difficoltà politiche, l’“Europa” era da lungo tempo in via di realizzazione, seppure più dall’Est all’Ovest che nella direzione opposta. Tra l’Italia e la Germania tuttavia sembrava che le cose stessero in modo diverso. Certo da sempre l’aspirazione dei Tedeschi verso il Sud era stata operante; tuttavia per lo più in un modo estetico-lirico, peculiarmente irreale, che si manteneva nell’àmbito dell’arte e del paesaggio, e invece non prendeva molta cognizione della realtà storico-politica. Alla relazione del Nord verso il Sud non ne corrispondeva nemmeno una analoga in senso contrario» (4).

«Ancora sempre mi commuovo nel cuore – se mi permettono l’espressione un po’ sentimentale – quando sulla carta geografica vedo la sua immagine: la configurazione piccola e graziosa – non so più chi l’abbia detto – come fosse disposta dal cesello di un orafo tra i colossi Asia, America, Africa. La ricchezza delle sue forme, l’insinuarsi reciproco tra il mare e la terra, la molteplicità delle sue situazioni etniche dalle Alpi fino alla pianura più bassa – tutto questo appare come una preparazione al destarsi dello spirito più luminoso a opere grandi e audaci imprese» (5).

«Chi vuole liberarsi dall’irretimento del proprio carattere etnico che si chiama “nazionalismo” deve imparare a conoscere persone di altra nazionalità e poi, in un momento adatto, domandarsi: come potrà apparire la nostra natura, il nostro comportamento reciproco, il nostro stile di vita agli occhi di un francese, di un inglese, di un italiano? Nel caso in cui tale sguardo gli riesca, ciò che appare è inquietante, ma anche questa inquietudine è salutare. In questo modo la persona impara a sentire come una parola pronunciata da un tedesco possa suonare agli orecchi di un francese, che effetto faccia a un inglese ciò che il tedesco definisce bravura, che sensazioni possano determinare in Italia il modo di vestire e il comportamento dei turisti tedeschi. Per il processo, di cui tanto si parla, di formazione di un’Europa veramente unita sarebbe utile che davvero molti eseguissero questo esercizio» (6).

(Nota biografica) Silvano Zucal è docente all’Università degli Studi di Trento, dove insegna Filosofia teoretica e Filosofia della religione. È coordinatore scientifico dell’Opera omnia di Romano Guardini, sul quale ha tra l’altro scritto: Romano Guardini e la metamorfosi del “religioso” tra moderno e post-moderno. Un approccio ermeneutico a Hölderlin, Dostoevskij e Nietzsche, Quattroventi, Urbino 1990; Romano Guardini, filosofo del silenzio, Borla, Roma 1992. Tra le pubblicazioni più recenti: Filosofia della nascita, Morcelliana, Brescia 2017; Preghiera e filosofia dialogica, Morcelliana, Brescia 2014.

Note

(1) R. Guardini, Der Heilbringer in Mythos, Offenbarung und Politik. Eine theologisch-politische Besinnung, Deutsche Verlagsanstalt, Stuttgart 1946, tr. it. di O. Brino, Il Salvatore nel mito, nella rivelazione e nella politica. Una riflessione teologico-politica (1935–1946), in Id., Scritti politici a c. di M. Nicoletti, Opera Omnia VI, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 293–345, qui pp. 342-343.

(2) Ivi, p. 344.

(3) Ivi, p. 345.

(4) R. Guardini, Europa und christliche Weltanschauung, in Stationen und Rückblicke, Werkbund, Würzburg 1965, tr. it. di M. Paronetto Valier, “Europa” e “Weltanschauung” cristiana, in Id., Scritti politici a c. di M. Nicoletti, Opera Omnia VI, cit., pp. 487-494, qui pp. 489-490.

(5) Ivi, p. 490.

(6) R. Guardini, Ethik. Vorlesungen an der Universität München (1950-1962), Grünewald-Schöningh, Mainz Paderborn 1993, ed. it. a c. di M. Nicoletti, S. Zucal, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 261.