Fu motivo di sorpresa per molti padri conciliari, all’inizio della seconda sessione del Vaticano II (1963), la notizia che John Courtney Murray, docente al Woodstock College nel Maryland, il più antico collegio dei gesuiti negli Stati Uniti, fosse stato chiamato a prendere parte ai lavori, in qualità di perito1. Gli si chiedeva di contribuire, con le sue competenze, alla stesura di un documento, una dichiarazione ufficiale sulla libertà religiosa, che aveva già avuto ed ebbe in seguito un percorso accidentato e che, al momento del suo varo, ricevette in aula una percentuale di voti contrari più alta rispetto ad altri testi. Eppure quel documento era stato lungamente atteso dall’opinione pubblica, non solo cattolica. In ambito ecumenico poi, tramite il Consiglio ecumenico delle Chiese, erano venute numerose sollecitazioni al pieno riconoscimento di questo diritto. Un primo testo, elaborato dal Segretariato per l’unità dei cristiani presieduto dal cardinale Bea, era pervenuto per una valutazione alla Commissione centrale preparatoria nel giugno del 1962. All’interno di questa e poi in assemblea, si sviluppò un dibattito tormentato che fece temere persino della possibilità di arrivare a formulare un documento che incontrasse il favore della larghissima maggioranza dei vescovi presenti al Concilio. L’ostacolo maggiore veniva dal fatto che la libertà religiosa come principio essenziale dell’ordinamento civile e internazionale pareva non trovare riscontro nell’interpretazione del magistero dei papi nel secolo XIX; anzi, l’impianto che aveva sorretto le argomentazioni a favore di una certa soluzione dei rapporti tra Chiesa e Stato, resisteva ad una ripresa interpretativa che aiutasse una reimpostazione complessiva di tutta la questione. Come notarono qualificati studiosi, quando ancora
si stava discutendo della prima bozza presentata in assemblea dal vescovo belga Emiel-Joseph De Smedt, il contenuto sembrava «superare la precedente dottrina della Chiesa cattolica, non in maniera graduale, ma nettamente in linea di principio». L’arrivo imprevisto in Concilio di John Courtney Murray stava a significare che i vescovi americani, e in primis il cardinal Francis Spellman, pur sapendo che il gesuita era stato bersaglio del Sant’Uffizio per le sue posizioni, contavano sulla sua preparazione di studioso delle questioni riguardanti il rapporto Chiesa- Stato e libertà religiosa, per venire a capo della questione che stava a loro molto a cuore: il riconoscimento che i cattolici erano a tutti gli effetti cittadini degli Stati Uniti e che la loro lealtà alle istituzioni era indiscutibile. Nel 1954, infatti, pur non essendo state rese pubbliche le motivazioni, erano state dichiarate erronee quattro proposizioni che contenevano le tesi di Murray: che lo Stato confessionale non era un ideale universale; che la libertà religiosa era una prospettiva politica pienamente valida nelle democrazie; che la libertà della Chiesa era sufficientemente garantita dalla libertà religiosa generale; infine, che gli insegnamenti di Leone XIII non erano applicabili negli Stati democratici moderni e andavano pertanto storicizzati. A Murray venne in seguito vietato dai superiori dell’ordine di esporsi pubblicamente su questi temi. Nel 1958, sempre da parte del Sant’Uffizio, era stato redatto un documento in cui, oltre alle tesi di Murray, erano colpite quelle, analoghe, di
Jacques Maritain e di altri autori. Come scrive Joseph A. Komonchak, uno dei suoi biografi: «Solo la morte di Pio XII, sembra, impedì la pubblicazione di questo decreto. Il sospetto nei confronti di Murray rimase forte a sufficienza per far sì che il teologo statunitense non fosse invitato ad assistere né alle commissioni preparatorie al Vaticano II, né alla prima sessione del Concilio»2.
Visioni a confronto
Nella navata di San Pietro si confrontarono sin dall’inizio due visioni, scaturite in due contesti socioculturali diversi, quello europeo e quello degli Stati Uniti. Da una parte, si sosteneva che lo Stato avesse l’obbligo di riconoscere e di promuovere la vera religione e di difenderne in modo esclusivo diritti e libertà. Nessun diritto veniva pertanto riconosciuto alla libertà delle altre religioni. Al massimo si poteva ammettere una tolleranza nei loro confronti, facendo giocare la distinzione classica tra tesi e ipotesi. L’ideale (la tesi) era che il riconoscimento andasse alla sola religione cattolica, anche con un appoggio giuridico e finanziario (cosa che era avvenuta in società dove il cattolicesimo era la religione dominante); mentre nei paesi in cui si era realizzato un accentuato pluralismo religioso (ipotesi), si poteva tollerare l’esistenza e le attività di «false religioni» allo scopo di evitare un danno sociale più grave. Il diritto alla libertà religiosa era dunque solo dei cattolici, giacché non era ammissibile mettere sullo stesso piano la verità e l’errore. C’era un diritto della verità che non poteva essere messo in discussione. Diversa appariva la situazione degli Stati Uniti in cui non solo il pluralismo religioso era un dato di fatto, ma la stessa Costituzione, nata dalla ribellione di tredici colonie contro la madrepatria, non ammetteva una religione di Stato ma riconosceva eguale dignità a tutte le religioni, perché ritenute idonee a rendere la vita sociale più ricca di valori e di significati. Sin dagli anni della seconda guerra mondiale Murray, quando nel 1941 era stato chiamato a dirigere “Theological Studies”, una delle riviste culturali più influenti degli Stati Uniti, si era mosso nella direzione di una cooperazione interreligiosa che aiutasse a superare la «gravissima crisi spirituale dell’ordine temporale» - di cui il sanguinoso conflitto era eclatante manifestazione - sulla base della tradizione del diritto naturale. Trovando immediate difficoltà sia da parte cattolica, che lo accusava di fomentare forme di indifferentismo religioso, sia da parte protestante e da parte ebraica, che temevano che il cattolicesimo, in un momento di grande crescita numerica, una volta divenuto maggioritario, potesse agire secondo la tesi consolidata, irrispettosa della libertà religiosa dei non cattolici. L’opposizione aveva spinto Murray a cercare di ridefinire la posizione cattolica, motivando l’intransigenza di Leone XIII con il fatto che il liberalismo del tempo, caratterizzato da particolare aggressività e dalla volontà di laicizzare le istituzioni e le coscienze, considerava la religione al massimo una faccenda puramente privata, assegnando allo Stato un potere di intervento inconcepibile negli Stati Uniti, dove l’ambito spirituale era considerato distinto, ma non contrapposto a quello temporale.
Il primo emendamento della Costituzione aveva reso la separazione una chiave di volta della repubblica statunitense, dichiarando solennemente che era garantita la libertà di culto, di parola, di stampa e il diritto di riunirsi pacificamente e, insieme, stabilendo «la proibizione al Congresso di fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione». Per preservare e potenziare il carattere neutrale, ma non ostile alla religione da parte dello Stato e degli Stati democratici moderni, Murray aveva elaborato un sistema di principi derivati dal diritto naturale che, a suo parere, potevano tenere insieme il pluralismo religioso, animandolo dall’interno: una filosofia pubblica,
come amava chiamarla, che intendeva distinguere i vari ambiti dell’esistenza collettiva (quello religioso, quello giuridico e quello morale), evitando, tra l’altro, che la democrazia fosse consegnata alle élite tecnocratiche, non interessate alla coesistenza delle differenze, capaci semmai di manipolare il consenso e potenzialmente totalitarie. Di qui l’urgenza che i cattolici fossero presenti nel dibattito pubblico con punti di vista espressi da laici culturalmente attrezzati sulle principali questioni sensibili delle democrazie avanzate3. Per dirla con Maritain, i cui testi erano da Murray ben conosciuti assieme a quelli del futuro cardinale Journet e ai saggi sulla tolleranza di Jean Lecler, «la guerra è stata un tragico risveglio per gli uomini: se le democrazie vinceranno la pace dopo aver vinto la guerra, sarà soltanto a condizione che l’ispirazione cristiana e l’ispirazione democratica si riconoscano e si riconciliino»4, per dare un’anima alla stagione nuova che si stava aprendo.
Il lavoro del perito
Da perito del Concilio5 all’interno della Commissione teologica, Murray si trovò subito a confrontarsi con avversari agguerriti e irriducibili. Introdotto dal cardinal Léger,presentò lo schema del Segretariato alla presenza del pro-prefetto del Sant’Uffizio, il cardinal Ottaviani, e del professor Joseph Fenton della Catholic University of America, direttore della “American Ecclesiastical Review”, che era stato suo contraddittore in patria per tutto il periodo precedente la convocazione del Concilio. Le posizioni erano rimaste divaricate anche in aula dove agiva un organizzato gruppo di vescovi intransigenti, ma Murray, tenendo conto del dibattito in corso, poteva esprimere più liberamente le sue idee. Sulla rivista “America” pubblicò un articolo, The problem of Religious Freedom (Il problema della libertà religiosa), che ebbe larga eco. In esso venivano messe in discussione le posizioni consolidate, che ritenevano il progresso della dottrina, entro i limiti della tradizione, terminato con Leone XIII e con la sistematizzazione della sua dottrina da parte dei canonisti a lui successivi, unanimi anche nella difesa della consolidata nozione giuspubblicistica dello Stato: lo Stato quale perno della realizzazione di un ordine etico nella società, nonché della tradizionale giustapposizione di tesi e ipotesi. All’origine di questa teoria stava il concetto astratto dei diritti esclusivi della verità, mentre per Murray si sarebbe dovuti partire dall’esperienza storica contemporanea, dall’accresciuta consapevolezza personale e politica dei contemporanei e della stessa rinnovata autocomprensione della Chiesa, che si era espressa nell’elaborazione dei principali documenti del Concilio. Distinguendosi anche da coloro che consideravano necessario dichiarare la libertà religiosa come un concetto appartenente all’ordine teologico-morale che, come tale, aveva conseguenze giuridiche nell’ordine delle Costituzioni, Murray faceva valere l’opinione che la libertà religiosa fosse un concetto formalmente giuridico e costituzionale, fondato sulla filosofia del diritto e la giurisprudenza, oltre che sulla teologia e sulla morale. Com’è noto, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae ebbe un tormentato itinerario prima di arrivare alle votazioni finali. Il testo andò in aula il 17 novembre 1964, senza che venisse discusso; dal 15 al 20 settembre del 1965 il documento passò attraverso il vaglio di una prima discussione generale e una votazione di massima. Dopo varie integrazioni fu oggetto di un nuovo dibattito e votato il 25 ottobre del 1965, per venire poi ulteriormente limato, approvato e promulgato nella sua forma definitiva il 7 dicembre 1965 (il Concilio si chiuse il giorno seguente). In queste fasi Murray si mostrò molto attivo nel consigliare integrazioni e nel redigere note esplicative, trovando ampie convergenze con Pietro Pavan, il filosofo-teologo dell’Università Lateranense, che aveva contribuito all’elaborazione e alla stesura dell’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII (era uscita l’11 novembre del 1963). Di essa Murray si faceva forte per avvalorare l’impostazione che il documento sulla libertà religiosa andava lentamente assumendo. L’enciclica giovannea aveva, infatti, riconosciuto (e accolto) i segni dei tempi nell’accresciuta consapevolezza personale e politica dell’uomo contemporaneo, nella necessità di ricondurre la libertà religiosa all’istituto giuridico e civile; tema che risuonava sin dall’incipit solenne della Dignitatis humanae: «Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della dignità della persona umana e cresce il numero di coloro che esigono di agire di propria iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive. Parimenti postulano una giuridica delimitazione del potere delle autorità pubbliche, affinché non siano troppo circoscritti i confini alla onesta libertà, tanto delle singole persone quanto delle associazioni».
La dignità umana e la libertà religiosa
Il diritto alla libertà religiosa veniva, dunque, fondato sulla dignità della persona; per la quale era condizione essenziale la libertà da ogni costrizione e impedimento di natura legale o extralegale, circa la fede, il culto, la testimonianza e la pratica, sia privata che pubblica della religione. Delineata la struttura dell’argomentazione, venivano poi esposte le norme che legittimavano i limiti dell’esercizio della religione stessa, affermando nel contempo il dovere dei governi di proteggerne e di promuoverne l’esplicarsi. Sin qui il documento si muoveva nella linea di un testo-base (discusso con il vescovo De Smedt e con Johannes Willebrands), elaborato da Murray che non poté però partecipare alle vicende conclusive del documento a causa di gravi problemi di salute. La Dichiarazione, in una seconda sezione, conterrà la considerazione del diritto umano alla libertà religiosa alla luce della rivelazione, mostrando che esiste una convergenza tra la libertà religiosa, presa in senso giuridico sociale, e la libertà cristiana nei vari sensi in cui essa si ritrova nella Scrittura e nella dottrina della Chiesa. Come notava più tardi lo stesso Murray: «La dichiarazione si limitava a suggerire l’esistenza del rapporto tra due tipi di libertà, senza preoccuparsi di scendere a precisazioni sulla natura di tale rapporto e si chiudeva con un’esortazione pastorale ai fedeli e un rispettoso appello alla coscienza dell’umanità, insistendo sul valore della libertà religiosa e della religione nel mondo di oggi»6. Nello stesso giorno dell’approvazione, Paolo VI ne sottolineava il valore e la portata: «In questa dichiarazione, che resterà senza dubbio, anch’essa, come uno dei grandi documenti di questo Concilio, la Chiesa fa sua l’aspirazione, così universalmente sentita oggi, alla libertà civile e sociale in materia religiosa. Che nessuno sia costretto a credere, ma che a nessuno, parimenti, sia impedito di credere e di professare la sua fede, diritto fondamentale della persona umana, riconosciuto d’altronde oggi, almeno in teoria se non in pratica, dalla grande maggioranza delle legislazioni». Non è qui il caso di delineare una “storia degli effetti” di questo documento, ma è certo che esso ha modificato l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della democrazia, degli Stati liberali, dunque della laicità e della stessa modernità, oltre che rendere sempre più necessari il dialogo con le altre religioni e la difesa intransigente della dignità della persona umana in tutti i contesti in cui essa viene minacciata o negata. Terminato il Concilio, Murray tornò ad insegnare Teologia trinitaria al Woodstock College, a scrivere su “Theological Studies” e su “America”. Prese parte attiva ai dibattiti con atei e marxisti, lavorò in commissioni ufficiali sui temi caldi del razzismo e della obiezione di coscienza selettiva. Un argomento, questo, che rappresentava un’applicazione delle idee che aveva sempre difeso: quando scatta un conflitto tra il dovere di rispettare le leggi (è un pilastro della convivenza civile) e il diritto di seguire la propria coscienza su temi fondamentali come la pace tra i popoli o la salvaguardia della vita, l’obiezione di coscienza del credente è selettiva, indirizzata cioè ad una precisa norma, ed è trasparente, fatta in modo pubblico e accettandone le conseguenze, senza per questo mettere in discussione l’ordinamento giuridico complessivo dello Stato. Per la riconosciuta autorevolezza fu designato direttore del «John Lafarge Institut», un centro di discussione tra gli intellettuali americani su problemi di cultura religiosa e sociale, e prestò la sua opera come consultore di un Comitato della Chiesa episcopaliana su problemi teologici di attualità. A chi gli domandava se fosse progressista o conservatore rispondeva argutamente che la sua posizione era «all’estremità del centro». Sin dai primi anni Cinquanta Murray aveva sofferto di ricorrenti crisi cardiache; l’impegno assillante nel Concilio e nel dopo Concilio aveva aggravato la situazione: un infarto mortale lo colpì il 16 agosto 1967 mentre si trovava in un taxi a New York City, il luogo dov’era nato sessantatré anni prima.
***
Antologia
[...] Ad ogni modo l’insegnamento di Leone XIII aprì la via ad ulteriori progressi nella comprensione della giusta secolarità dello Stato e della società, in quanto opposta alle precedenti concezioni religiose. Questo progresso raggiunge la sua conclusione inevitabile nella Dichiarazione sulla libertà religiosa. La sacralità della società e dello Stato è ora lasciata da parte come superata. Il governo non è defensor fidei. Non ha né il dovere né il diritto a ciò che è stata per molto tempo chiamata cura religionis: un intervento diretto a favore della religione stessa e dell’unità della Chiesa all’interno della cristianità o della nazione. La funzione del governo è secolare, limitata cioè a realizzare le condizioni per il libero esercizio della religione nella società. In pratica deve provvedere alla libertà della Chiesa e della persona umana nelle questioni religiose. Tale funzione è “secolare”, perché la libertà nella società, benché preziosissima per la religione e per la Chiesa, rimane uno di quei valori secolari che il governo può proteggere e promuovere per mezzo della legge. Inoltre, a tale concezione dello Stato secolare corrisponde quella della società stessa secolare. Questa non solo si distingue dalla Chiesa per la sua origine e la sua finalità, ma ne è anche indipendente nelle sue strutture e nei suoi processi. Ha perciò principi dinamici e strutturali particolarmente e autenticamente secolari: la vera concezione della persona umana con la giustizia ad essa dovuta, l’amore che la lega in maniera umana agli altri e, non ultima, la libertà che è il fondamento costitutivo e una vera esigenza della sua dignità. Tale è la concezione cristiana della società e dello Stato nella loro
genuina secolarità, che si trova nella Pacem in terris. La Dichiarazione sulla libertà religiosa apporta l’ultimo ritocco ad un dettaglio essenziale: la società e lo Stato secolari sono chiamati a proteggere e promuovere quale altissimo valore il diritto personale e sociale al libero esercizio della religione. La stessa funzione deve essere svolta dalla Chiesa e da qualsiasi altra comunità di culto, avvalendosi della loro libertà.
In tal modo la Dichiarazione acquista il suo significato teologico primario. Formalmente definisce soltanto l’elemento di minore importanza della libertà religiosa. In effetti fissa la visione fondamentale che la Chiesa ha oggi del mondo, della società umana, del suo ordinamento giuridico e delle funzioni dei poteri del tutto umani che lo governano. Quindi la dichiarazione, oltre a completare il decreto sull’ecumenismo, mette a fuoco l’interesse della Chiesa per il mondo e pone le basi dello schema XIII. L’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo non si dirige né mira nostalgicamente a restaurare l’antico carattere sacro dello Stato o a cercare invano nuove forme per sacralizzare le strutture e i processi dell’ordine terreno temporale, ma solo a purificarli e a dirigerli con sicurezza ai loro fini secolari. In un modo tutto proprio la Dichiarazione rappresenta l’atto finale del lungo processo conosciuto sotto il nome di consecratio mundi. Il documento chiarisce che il governo, riconoscendo la libertà religiosa quale diritto civile, in realtà dichiara di non avere diritto ad interferire nel libero esercizio della religione, a meno che non sorga la necessità di tutelare l’ordine pubblico. In tal caso lo Stato agisce solo nell’ordine secolare, non in quello religioso. D’altra parte, la ratifica della Dichiarazione da parte del Concilio Vaticano II, rappresenta evidentemente anche una rinuncia da parte della Chiesa stessa. Ponendo il problema solo in termini molto semplici e nella prospettiva storica, la Chiesa rinuncia in linea di principio al suo diritto storico, a lungo accarezzato, dell’aiuto dello Stato come braccio secolare. Il braccio secolare è soltanto tale e quindi incapace di promuovere le finalità del popolo di Dio. Più esattamente, la Chiesa non ha un braccio secolare. Nel ratificare il principio della libertà religiosa, la Chiesa accetta in pieno il peso della libertà, l’unica rivendicazione che essa può avanzare di fronte al mondo secolare. Così ha avuto termine un lungo, agitato e spesso tortuoso sviluppo dottrinale.
(J. C. Murray, La dichiarazione sulla libertà religiosa, in “Concilium” 3 (1966), pp. 42-45)
Note
1 John Courtney Murray (1905-1967) era nato a New York City ed era entrato nella Compagnia di Gesù a 16 anni. Dopo l’ordinazione sacerdotale nel 1933, studiò a Roma all’Università Gregoriana sino al conseguimento del dottorato in teologia. Fu poi nominato docente di teologia dogmatica al Woodstock College nel Maryland, dove rimase dal 1937 al 1967. Il volume che raccoglie i contributi più significativi su questioni di teologia fondamentale è tradotto in italiano con il titolo Il problema di Dio ieri e oggi, Morcelliana, Brescia 1970.
2 Cfr. J.A. Komonchack, John Courtney Murray, in S. Scatena, M. Ronconi (a cura di), Libertà religiosa e diritti dell’uomo, Periodici San Paolo 2010, pp. 109-121. Id., The Silencing of John Courtney Murray, in A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri, M. Toschi (a cura di), Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, il Mulino, Bologna 1996, pp. 657-703.
3 Gli interventi più significativi di Murray su tali questioni sono stati raccolti nel volume Noi crediamo in queste verità, Morcelliana, Brescia 1965.
4 J. Maritain, Cristianesimo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1950, p. 26.
5 Per seguire cronologicamente il lavoro svolto da Murray in Concilio è molto utile e documentata la ricerca di S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione“Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2003, passim.
6 Cfr. J. Coutney Murray, La dichiarazione sulla libertà religiosa, “Concilium” 3 (1966), p. 38.