I dati sulla disoccupazione giovanile nel nostro paese vengono diffusi in modo martellante. Sono dati che colpiscono per la loro drammaticità e che, nella ripetizione con cui vengono comunicati, contribuiscono ad accrescere un senso di immobilità, se non di ripiegamento, non solo del mondo del lavoro, ma dell’intera società italiana. Il lavoro è centrale nella vita di una comunità civile perché è centrale nella vita delle persone. Il lavoro è centrale non solo con riferimento all’art. 1 della nostra Costituzione, perché è un elemento strutturale della nostra Repubblica, ma – ribaltando la prospettiva – è strutturale perché è centrale nello sviluppo personale dei singoli cittadini ed è centrale nello sviluppo dell’intera società. Il lavoro infatti rappresenta l’attesa del futuro, con la sua progettazione spinge a guardare più in là, ad immaginare una società più giusta, in cui per tutti ci sia da vivere in modo dignitoso, il lavoro è anche garanzia di libertà, è strumento attraverso cui diamo forma alla nostra vita e ne siamo più consapevolmente protagonisti.
Come sappiamo bene la crisi ha schiacciato finanza ed economia e quindi anche il lavoro, dei giovani e anche degli adulti. Le cronache ci restituiscono, spesso nelle loro pagine nere, storie di lavoro che non hanno differenze di età. Perché allora i dati della disoccupazione giovanile sono sempre così tanto oggetto di riflessione? Forse perché i giovani rappresentano, per età, per forza, per creatività la parte più ricca di capacità e vedere invece che sono i primi a non poter esprimere questa forza lascia disarmati.
Il lavoro, con le sue opportunità e con le sue fatiche, va certamente compreso in una prospettiva più ampia perché tocca una serie di snodi che sono sempre più correlati alla dimensione europea della nostra vita politica, civile e sociale, proprio perché – in quanto cittadini italiani – siamo anche contemporaneamente cittadini europei. L’Unione europea, le cui elezioni risalgono a pochi mesi fa, è la cornice nella quale ci muoviamo più o meno consapevolmente, ed è indubbio che in questi vent’anni Bruxelles ha assunto un peso sempre maggiore progressivamente per le politiche dei paesi membri.
Mentre il Dossier è in preparazione, nel dibattito politico italiano si sono aperti almeno due fuochi che intrecciano il lavoro con un’altra dimensione: la formazione. La riflessione sul rilancio del lavoro in Italia – nel contesto europeo di Youth Guarantee, di Horizon 2020 – si accompagna alla necessità di pensare e ripensare al nesso tra formazione e lavoro. In questa direzione si colloca la discussione sul cosiddetto Job Act e il documento La buona scuola che vuole rilanciare il dibattito sull’istruzione scolastica. In esso, ad esempio, si trova un capitolo dedicato in modo esplicito a un rilancio della connessione scuola-lavoro, il cui titolo è proprio «fondata sul lavoro». Vi si legge: «Dobbiamo rendere la scuola la più efficace politica strutturale a nostra disposizione contro la disoccupazione». In che modo? Le strade percorribili paiono due: «da una parte, raccordare più strettamente scopi e metodi della scuola con il mondo del lavoro e dell’impresa; dall’altra, affiancare al sapere il saper fare, partendo dai laboratori» rafforzando i progetti di alternanza scuola-lavoro, sostenendo progetti di «imprese formative strumentali», facilitando l’apprendistato, collaborando con le imprese. Ora, senza entrare nel merito delle proposte, questo documento è un importante riferimento per comprendere qual è la sensibilità presente nel dibattito politico: la disoccupazione si combatte con la formazione, non si possono pensare investimenti sul lavoro senza legarli strettamente alla scuola.
Questo contesto è quello che il presente Dossier vuole indagare.
L’articolo di Lorenzo Caselli, che apre la riflessione, coglie – già dal titolo – la connessione tra il lavoro dei giovani e il futuro, o meglio la percezione che senza il lavoro per i giovani e dei giovani il futuro non c’è, non solo per loro ma anche per la società e per il nostro paese. Ripercorrendo anche alcuni dati utili per comprendere lo scenario nel quale siamo immersi, Caselli sottolinea come lavoro, sviluppo, società richiedano di essere assunti contestualmente: il lavoro infatti non viene “dopo” lo sviluppo, anzi ne costituisce un elemento coessenziale al pari di altri fattori quali l’innovazione, la qualità, la creatività, che nelle persone e nella società trovano il loro radicamento e la piena esplicazione. L’articolo di Michele Colasanto riprende alcuni dati sulla situazione italiana e in modo lucido e documentato ne argomenta il carattere sottovalutativo. L’autore, nella conclusione, prova ad immaginare alcune strade percorribili a partire da una consapevolezza, che occorrerebbe condividere, che serve una concezione nuova del lavoro come biografia professionale, tra vita di lavoro e non; che coinvolge l’armonizzazione tra spazi esistenziali dedicati al lavoro stesso e quelli della cura di sé e della famiglia, in un rapporto paritario tra i generi; coinvolge altresì la capacità di partecipazione attiva alla propria crescita professionale e alle scelte sui luoghi di lavoro e nella comunità di appartenenza, per quanto provvisorie possano essere. La nuova geografia del lavoro lo rapporta con più intensità alle persone e alla loro consapevolezza delle trasformazioni in atto. Colasanto immagina, in questo senso, che si possa parlare di un nuovo umanesimo del lavoro, a patto di investire fortemente nelle capability per il lavoro (for work), per la partecipazione sociale (for voice) e per una formazione scelta (for education), legata alle proprie responsabilità e libertà.
Segue poi un intervento di Andrea Michieli il quale, tenendo strettamente ancorato lo sguardo alla dimensione europea, riflette più direttamente sul futuro occupazionale dei giovani, nella consapevolezza che questo significa riflettere del fondamento e della costruzione sociale che la crisi ha messo in evidenza. Elemento essenziale è, per l’autore, l’orientamento realizzabile attraverso un «decalogo della formazione» capace di produrre un cambiamento di mentalità. In continuità con la riflessione di Michieli si colloca l’articolo di Livio Pescia che, dopo aver ripercorso sinteticamente gli snodi storici del rapporto lavoro-formazione in Italia, e con una attenzione comparativa con sistemi di altri paesi europei, si concentra su tre questioni a loro modo centrali per sostenere il rapporto istruzionelavoro: apprendistato, master universitario, istituti per l’istruzione tecnica superiore non accademica, miglioramento della formazione e dell’organizzazione in ambito aziendale. Tutti questi strumenti hanno in comune l’obiettivo di identificare il bisogno di competenze e di ridurre la distanza tra la realtà e il progetto sia a livello settoriale che territoriale. Chiude il Dossier una intervista a due voci in cui, con Sandro Antoniazzi, impegnato per più di trent’anni nell’attività sindacale, e Simona Loperte, segretaria nazionale del Movimento Lavoratori dell’Azione cattolica italiana, si cerca di approfondire il ruolo di un soggetto importante nella dinamica lavoro-formazione per il nostro paese, che è costituito dai cosiddetti corpi intermedi. Insieme ai due interlocutori si analizzano i compiti nuovi che si aprono in questo contesto a sindacati e associazioni, le sfide e le esperienze possibili che già sono segno di quel fermento progettuale di cui il nostro paese ha bisogno.