Mario Luzi. L’esserci del poeta

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Con la rinuncia al desiderio naturale di verità in favore dell’ideologia, l’uomo moderno può essere trascinato dovunque. Contro tale rischio, l’appello “civile” del poeta è a «sentirci ancora uomini pericolanti» ed agostinianamente rivolti «a cercare in noi o fuori di noi la verità delle cose». E in Italia, tornare a «lavorare per quella civiltà naturale per cui hanno lavorato variamente sparsi nei secoli i suoi maestri d’arte e di vita».
 

Desiderio di verità, 1945, dà titolo ad una iniziale incursione del Luzi “civile” nel primo dei due volumi che articolano la bipartita edizione annuale di «Istmi. Tracce di vita letteraria», meritoria rivista guidata da Eugenio De Signoribus. Nel centenario dalla nascita, «Istmi» spicca per presenza di suoi testi inediti o rari e per ricchezza di bilancio critico. Del 1945 è appunto l’interrogativo di noi superstiti «travolti, percossi e lacerati da questa guerra di smisurata violenza». Quale il nostro dovere? L’istanza etica, da sempre consustanziale in Mario Luzi (Castello, Firenze, 1914 – Firenze, 2005) si fa cogente nel qui e ora. Nella sua traversata lungo il Novecento, secolo consapevolmente deputato alla barbarie effettuale delle ideologie, Luzi persegue fin da allora lo smascheramento del potere. Sa subito di lucida ansia profetica la lista dei mali che potrebbero inquinare, da dentro, il futuro di un’Italia muta sulle proprie macerie, ancora incapace di ricostruirsi entro un’Europa ferita a morte. Ma colpa al fondo della guerra totale è stata un’abdicazione, rinuncia al desiderio naturale di verità in favore dell’ideologia. Fatta questa rinuncia, l’uomo moderno può essere trascinato dovunque. In ciò Luzi anticipa, con la mercuriale intuizione del poeta, la riflessione della Arendt sulla banalità del male. E persegue con la propria angustia la mutazione irrefutabile che investe scrittura ed arte dopo Hiroshima e Mauthausen.

Banalità del male

Il rischio illusorio per l’umanità postbellica è ancora quello di rifugiarsi sotto una bandiera di parte, intrinsecamente utilitaria, cui delegare il proprio criterio interiore. Per evitare il ripetersi di «una tragica fuga tra i rottami», l’appello è a «sentirci ancora uomini pericolanti» ed agostinianamente rivolti «a cercare in noi o fuori di noi la verità delle cose». E in Italia, tornare a «lavorare per quella civiltà naturale per cui hanno lavorato variamente sparsi nei secoli i suoi maestri d’arte e di vita». Naturalezza dunque, come rivolta contro vecchie e nuove paure e viatico alla maturità civile di un popolo. E civiltà italiana, che poggi sul sostrato unitario della lingua più tardi certificato dal Risorgimento. Ma senza un ritorno al consenso profondo con la natura, il contesto civile è votato al fallimento. Perciò il suo è l’appello contro la disumanizzazione della società, grazie ad una cultura resa più misericordiosa dalla natura. Giovane sospeso tra due passioni, filosofia e letteratura, matura più tardi una pubblicistica mossa da crescente ardore civile per le “scienze morali”, vestibolo letterario della sociologia e del costume politico. Vi innesta l’acume predittivo, dono della poesia, che è facoltà di sondare fin nell’oscuro gli antagonismi che dissipano l’immaginazione quando entra nei labirinti del potere. È un’operazione che escute, tra i precedenti più ficcanti, il Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, che travalica quel presente (1824) per bruciarlo nel nostro: nella fatale faziosità tendente alla frantumazione, nella derisione adottata dal cinismo populistico delle classi dirigenti, nell’indifferenza al futuro per eccesso di furberia e carenza di responsabilità, ecc. Per restituire salute a questa «coscienza artificiale e vacillante» (De Sanctis), l’appello leopardiano è ad «esplorare il proprio petto», dissotterrare dal profondo di sé i tesori di mai perduta umanità proprio nei frangenti più avversi. Così anche Luzi sembra vibrare sulla stessa corda. Come in Italia, non dimenticarti, 1993, steso in piena Tangentopoli, o come negli scritti del 1994 sulla fine «ignominiosa» della Prima Repubblica: gli antichi germi di settarismo riesplodono con virulenza producendo effetti di furore dissociativo e di corruzione non più latente. Resi infine più grevi dallo schiacciamento su un presente submoderno imposto alle coscienze dall’abuso dei mezzidi massa e sfociante in uno svuotamento della percezione del reale. Come Leopardi, egli riconosce nell’anomalia della storia italiana una fonte di endemica debolezza rispetto al processo di unificazione di altre nazioni europee, e tuttavia vuole intuirvi un filo del tutto originale di unità in moto, in fieri perenne, teso ad un’illusione feconda, ma ipotesi realizzabile ogni giorno. Idea inquieta e sconvolgente che non può nascondere un’affinità con l’intima dinamica della conversione religiosa. Alla ridda scomposta e divisiva egli oppone con foscoliana fierezza il ricorso unificante ai beni seminati dalla speciale vicenda storica d’Italia. Poiché essere è divenire non dimenticando, egli addita infinite testimonianze di pensiero e di arte che culminano nel potere salvifico della lingua, che si fa apostolato nella parola poetica come lettura altra del mondo. E dotare l’Europa, habitat naturale della generazione ermetica, dei «nostri migliori ingredienti» è da sempre disegno del francesista Luzi. Ma il secondo Novecento provoca una scossa più tragicamente necessitante nella successiva, la sua, chiamata ad interrogarsi sugli scempi inimmaginabili pianificati da ideologie opposte all’apparenza, ma egualmente vocate a frantumarsi perché anche «l’estrema delle ideologie porta implicita in sé la distruzione di tutte le ideologie». Luzi solca un’ansa del tempo in cui ravvisa una funesta brama autodistruttiva dell’umano, una furibonda disgregazione da arginare con la renitenza dell’artista, del musicista e del poeta non più vate seppur mai inerte, ma così inerme fino a disliricarsi.

Bussare alla porta della verità

Non pago dunque di quella voce che distilla distanze, se ne stacca per misurarsi Nel magma (1963) della storia. Traversare quel tempo induce ancora a bussare alla porta della verità, intuita come svelamento di un assoluto unitario, essenza fondativa ma vilipesa del mondo. «Dilaniato frammento» (P. Acquabona) il poeta entro il frantume della storia. Nel lessico luziano si oppongono «frammento» e «frantume», sottoposti Al fuoco della controversia(1978) accesa dalla modernità: «Frammento può esserattivo, significativo di un tutto che, per qualche complesso motivo, non è possibile tenere insieme. Frantume è qualcosa che ha perso questo potere. È un rottame andato in rovina. Frammento no, è un brano di un insieme, di un disegno unitario». Così Peril battesimo dei nostri frammenti (1985) è silloge che suggella ilbisogno di assiemare altre schegge di umanità in fuga dalla disperazione. La barca (1935) pilotata da Luzi lungo i meandri del secolo e scesa dai vertici iniziatici dell’io ermetico, incrocia l’affettivo tu femminile per toccar terra nell’amicale fraterno noi. Attratta da un convertirsi veritativo senza fine, essa approda alla dissolvenza del soggetto nel protagonismo di una parola rinnovata in linguaggio-cosa, che si fa evento nella storia. Prodigio luziano questo naturale incarnarsi della poesia nella storia che a sua volta si trasvaluta in poesia.

La poesia nella storia

Una mutazione agonica percorre la longeva scrittura del poeta. La svela con l’analisi dei titoli Stefano Verdino, lettore princeps e quasi vestale dell’intera sua opera, in un passo di «Istmi». Ne balza il virare da sostantivi frontali (La barca, Avvento notturno, Un brindisi, Quaderno gotico, Primizie del deserto, Onore del vero: dal 1935 al 1957, modalità cara ai poeti della prima metà del secolo) ad uno «spicco prepositivo» in cui l’autore si cala per internarsi nel, dal, su, al, per, sotto, come s’è visto, e che apre al «cambio di passo della poesia italiana tra un prima monodico e un dopo polifonico». Luzi segna la fine dell’autorevolezza dello scriptor per struggerla nell’humilitas dello scriba. È discesa dal limbo ermetico all’inferno fenomenico della storia che esige pietasnon distacco, condivisione non distinzione. Si fa docile amanuense in «fisica trascrizione e metafisico dono» del suo pensiero poetante (G. Rogante). La fedeltà del Luzi maturo a questa trascrizione è gesto integralmente poetico proprio perché esistenziale e perciò storico e civile. La modernità – tempo non solo nuovo ma crudamente diverso – impone di rovesciare da iniziale in finale l’entrata nella selva oscura del secolo dalle idee assassine. Perciò negli anni Novanta si snoda parallelo il suo accoramento civile sul mondo e sull’Italia, «luogo superiore della evoluzione culturale dell’umanità con una troppo piccola e squallida scena». Da questi scritti erompe uno sdegno che a tratti trasuda collera, tanto divaricano tra loro l’altezza del retaggio e «le scomposte e rissose diatribe» che investono il basso respiro dei tempi. Per lui civile e umano devono corrispondere sino a coincidere, ma la loro differente area d’intervento li confligge. Nel dissidio non esita ad esporsi, benché mite e discreto, in giudizi di tagliente fermezza, effetto civile dello scandaglio poetico, primum mobile delle sue ansie veritative. Ne è prova quel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini

(1994), coeva costruzione poetica, la più intrepida della sua immaginativa, metastoria del suo identificarsi nel trecentesco pittore senese in duplice peregrinazione, di andata e ritorno, tra obbligo e fascino del terrestre e necessità del celeste: dalla Toscana all’Occidente avignonese e di qui (dove il Simone storico era morto) di nuovo all’Oriente di Siena, patria intima di Mario. Parabola del ritorno alla sorgente è la carovana personale e familiare, civile e umana, che anela all’origine prima della luce finalmente acquisibile seppure mai acquisita. «Va/ lui, dimenticodella sua andatura,/ perduto nelle sue creature/ al cuore chiaro delsapere oscuro». Il gran poema, intriso di ascendenze dantesche, non può attingere alla visione del divino fino allo sguardo sul valore infinito. Non per affievolirsi di poesia, ma per impotenza di vincere la frammentazione che si è incistata in una modernità ormai incapace di costruire la «splendida architettura della Commedia, che trova un posto per tutti lacerti». A conferma che il viaggio della poesia nella modernità riporta a quello della parola postmoderna nella poesia. Sull’umanità contemporanea in ricerca di senso, condanna e grazia si addensano in ossimori interrogativi: «È forse il paradiso/ questo? oppure, luminosa insidia / un nostro oscuro/ ab origine, mai vinto sorriso?». Da sempre circonfuso nel paesaggio, Mario era solito aprire il mattino con lo sguardo al levante fiorentino: richiamo «di parsimoniosa bellezza rustica» al varco oltre Appennino orientato al Metauro dov’era nato il nonno Giuseppe Luzi, sua radice «austera ma premurosa e saggia», poi migrato in Maremma senese. E all’Urbino del perenne amico Carlo Bo. E fino all’Ascoli della moglie Elena e dei tanti amici piceni, artisti cordiali dell’età sua tarda, tra cui il poeta De Signoribus, riflesso della propria inguaribile timidezza e del leopardiano durare in un mondo irto di tragedie e di promesse. Tra borghi e campagne di Toscana celebrata e di Marche appartate, egli percepiva ancora la trama di una civiltà dell’Italia mediana mediata dalla lingua e dalla poesia fino alla scoperta del mare non più come idea, ma che «lì, nelle Marche, gli si rivelava come qualcosa di corporeo nella maniera più gentile, e l’acqua come elemento ed attrazione visiva del senso». Orientale epifania del mare. Segno di ritorno dall’inaridito Occidente al tremolare divino dell’Oriente che riapra «ali, vele, cuori» alla naturale dignità dell’uomo sulla tormentata bellezza del mondo.

Biografia di un poeta

Voce poetica vertiginosa e plurima del Novecento, intellettuale di viva passione etica e religiosa aperta all’impegno civile, Mario Luzi è nato a Castello (FI) il 20 ottobre 1914 da una famiglia di ascendenze marchigiane. Trascorre l’infanzia nelle case dei Luzi in Maremma. Ginnasio a Siena, città madre che lo apre all’arte e alla bellezza, liceo e università a Firenze (tesi su Mauriac, propiziata dall’amico Carlo Bo, 1936). Con Bo, Macrì, Traverso, Bigongiari instaura un rapporto amicale attorno al caffè delle Giubbe Rosse che permea le sue solitudini tra letture immense (Dante, Leopardi, Agostino, RilKe, Rimbaud, D. Thomas…), l’esordio in poesia con La barca, 1935, e la collaborazione a riviste: “Frontespizio”, “Letteratura”, “Campo di Marte”... In pieno clima ermetico conosce Montale ed intanto inizia l’insegnamento nei licei: Parma, San Miniato, Roma ove incontra Gadda e Caproni. Sposa l’ascolana Elena Monaci, 1942. Dal ’45 al ’63 insegna al “Leonardo” di Firenze. La lettura di Eliot lo allontana dalla tradizione ermetica e rinvigorisce il suo dantismo (il saggio L’inferno e il limbo è del ’49). L’alta sua parola poetica atterra Nelmagma (1963) e drammatica si esprime in testi per il teatro (da Ipazia, 1963 a Ceneri e ardori, 1997). Continua “una vita che è

insieme raccolta e di brigata” e che lo induce ad intrudersi ancor più nei mali della storia cui oppone il ricorso alla naturalezza. Ha offerte da università straniere, ma accoglie l’invito di Bo a Urbino (dal ’72 all’81) perché “uno come me non può pensare di vivere lontano da chi parla la sua lingua.” Ma, attratto dal mondo, resta affascinato dall’India. Nuove raccolte e il poema ispirato al viaggio orientale di Simone Martini (1994) gli valgono premi e fama crescente. Dal ’91 al ‘96 l’Accademia dei Lincei lo candida al Nobel. S’intensifica coraggiosa la sua prosa saggistica e civile ove conferma la sua ricerca della parola come servizio all’interrogazione veritativa. È nominato senatore a vita nel 2004. Muore a Firenze il 28 febbraio 2005.

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Antologia

Vola alta, parola, cresci in profondità

Vola alta, parola, cresci in profondità,

tocca nadir e zenith della tua significazione,

giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami

nel buio della mente –

però non separarti

da me, non arrivare,

ti prego, a quel celestiale appuntamento

da sola, senza il caldo di me

o almeno il mio ricordo, sii

luce, non disabitata trasparenza…

La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?

(Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, Milano 1985)

Bell’Italia, odiate sponde...

È l’ora di rimettersi al lavoro sui cocci e sulle macerie a cui sono ridotte le regole e le consuetudini che ci avevano sostenuto fin qui; e sui confusi progetti e sulle caotiche velleità che li hanno non dico prodotti ma certo propiziati quei cocci, quelle macerie. Ma prima di farlo, ecco è Pasqua, è pasquetta, è quel breve tempo di oziosi vagabondaggi che portano fuori dell’ordinario magone l’uggia e l’ira, i rovelli e le frustrazioni dei cittadini di ogni “corno d’Italia” che s’imborga a ogni latitudine del nostro territorio. E un’occasione che, se convenientemente colta e messa a profitto, potrebbe giovare alla distensione, sì, ma non solo a quella. L’ozio potrebbe essere proficuo quanto il negozio, lo svago quanto e più delle eccitate cogitazioni di questi mesi a rischiararsi le idee. Le sortite, a breve raggio, fuori porta, e le escursioni più ambiziose portano i gitanti in luoghi illustri o in angoli remoti, prediletti forse, desueti in ogni caso, gli uni e gli altri. Entrano così nei penetrali del nostro Paese, ritrovano la profondità di una storia, stupiscono della dovizia e della grandezza del retaggio; avuto e troppo spesso dimenticato, mal custodito, troppo poco considerato come realtà, come sostanza. È confortante avere per storia la civiltà stessa nei monumenti che la significano, anche se troppo spesso li lasciamo deperire. È una boccata di sicurezza che ingoiamo nel verificare, in ogni parte della penisola e delle isole la coincidenza di storia, di forme e di significazioni e sublimazioni umane e civili. Questa è l’Italia della cui realtà abbiamo spesso dubitato, avviliti dai bassi e dilettanteschi proponimenti di inventarla a capriccio o per manifesto egoismo, ascoltati e mal ruminati. Una realtà,

questa, profonda e inoppugnabile che ci rassicura almeno un po’ che non avesse ragione Metternich; e che Dante, Machiavelli, Alfieri, ecc. non si fossero tormentati invano. A questo riacquisto di consapevolezza sulla realtà e sulla straordinaria e originale unità – unità problematica – del Paese di cui siamo cittadini, le scomposte e rissose diatribe dei mesi scorsi credo possano ridimensionarsi; e pensieri più meditati prendere il loro posto. Un grande Paese, un luogo superiore della evoluzione culturale dell’umanità con una troppo piccola e troppo squallida scena dove si agitano gli addetti legittimi o presunti della sua gestione. Non dobbiamo perdere di vista questa antinomia. Essa ci accompagna da sempre e dobbiamo ritenerla uno speciale elemento di continuità che ci contraddistingue: una tradizione, dunque. Ma i momenti di questa tradizione sono variabili: il peggio è assumerla come fatalità e non come dinamica. Una grande patria o matria non deve mortificare con il suo passato splendore il nostro presente ma sostenere la convinzione degli sforzi richiesti per restare dignitosamente alla sua misura. Ora, al rientro delle scorribande di questa fredda primavera saremo più consci, più equanimi? È ciò di cui abbiamo bisogno.

«Il Secolo XIX», 8 aprile 1994, p. 1.

Da «Istmi», n.33, 2014, p. 28.