Diseguaglianze e bene comune

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Che tipo di mondo vogliamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai nostri figli, ai nostri nipoti? Un mondo lacerato, diviso, contrapposto? Oppure un mondo nel quale germinano segni di speranza, di fiducia, di misericordia? La questione, che sta al cuore dell’enciclica Laudato si’, non è né ideologica né meramente tecnica. Chiama direttamente in causa il senso del nostro vivere, del nostro abitare la terra, del nostro rapporto con gli altri, con il creato.

L’uomo d’oggi si presenta ricco di strumenti, ma tremendamente povero di finalità e di valori. In questa inversione tra mezzi e fini stanno le moderne forme di alienazione nell’ambito delle quali l’uomo si priva della propria umanità, della possibilità di una vita buona per tutti e per ciascuno. La consapevolezza di ciò costituisce un passo necessario, indispensabile.

La crisi ha lasciato e sta lasciando sul terreno «inequità» crescenti che minano la credibilità delle istituzioni democratiche, provocano fratture nel tessuto della società civile, bloccano le possibilità di ripresa, producono danni ambientali insanabili. Il divario tra chi ha e chi non ha (e talvolta è spogliato di ciò che ha) ha raggiunto livelli insopportabili sia nei rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri sia all’interno dei singoli paesi, non importa se ricchi o poveri.

L’esasperazione delle diseguaglianze genera aree crescenti di marginalizzazione, di discriminazione, di esclusione, di espulsione. A questo proposito papa Francesco parla di «cultura dello scarto» per cui milioni di persone sono messe fuori, sacrificate «agli idoli del profitto e del consumo». La guerra combattuta a pezzi, il fondamentalismo, il terrorismo rappresentano altrettanti detonatori di tutto ciò. I flussi migratori, inarrestabili, ne sono la drammatica evidenza. Quando il proprio territorio è devastato dalla guerra, ma anche da desertificazioni, inondazioni, espropriazioni terriere, non si aspira ad altro che conservare la propria vita. E per conservarla si deve pagare un prezzo non solo allo scafista, ma talvolta anche al paese che ti ospita e che ti espropria di quel poco che ti è rimasto. Le responsabilità di noi europei sono enormi, Marc Augé ci ricorda che «negare l’umanità ad alcuni significa ucciderla in tutti».

Diseguaglianze crescenti

Va detto con estrema chiarezza che le diverse diseguaglianze non sono fatti o situazioni a sé stanti, da trattare separatamente. Al contrario fanno sistema, si autoalimentano, si riproducono, si potenziano vicendevolmente in una sorta di sinergia negativa (Si veda S. Sassen, Espulsioni, Il Mulino, Bologna 2015). E in tutto ciò non c’è nulla di fatale e men che meno di dolorosamente necessario in vista di benefici futuri. Ci sono invece responsabilità e interessi ben precisi. Alcuni rapidi flash al riguardo. Saranno ripresi e sviluppati nel Dossier

Inequità economiche e finanziarie. L’1% più ricco della popolazione mondiale possiede il 50% della ricchezza complessiva. Secondo il recente rapporto Oxfam i sessantadue uomini più ricchi del mondo detengono la stessa ricchezza dei 3 miliardi più poveri.

Inequità nell’alimentazione. Nel mondo 800 milioni di persone soffrono la fame. Quelli che mangiano bene sprecano il 30% del cibo. Il che basterebbe tre volte a nutrire chi non ce l’ha.

Inequità nell’abitare. Negli Stati Uniti sono milioni le persone cacciate dalle proprie case perché non più in grado di pagare la rata del mutuo. E ciò nell’ambito del gioco perverso dei prestiti subprime, il cui scopo non era quello di venire incontro alle esigenze delle famiglie di censo modesto, ma di produrre profitto speculativo per l’alta finanza. Similmente nei paesi poveri dell’Africa subsahariana milioni di contadini sono espulsi dalle terre in cui vivono e dalle quali ricevono sostentamento perché queste terre sono vendute a governi e a multinazionali straniere (land grabbing).

Inequità nel lavoro. La crisi colpisce i più deboli, i meno dotati. Tra non lavoro e esclusione i confini diventano sempre più labili. Nel contempo, in molti casi, il lavoro remunerato – anche stabile – non è una sicura garanzia contro l’indigenza. Si parla tanto di centralità delle risorse umane, però numerose grandi imprese continuano a ristrutturarsi tagliando forza lavoro. La quarta rivoluzione industriale al momento sembra distruggere più posti di lavoro di quanti riesce a crearne.

Inequità nel poter vivere in buona salute. La speranza di vita in molti paesi poveri non raggiunge i cinquant’anni; supera gli ottanta nel mondo sviluppato. La ragione del divario sta essenzialmente nella mortalità infantile. A questo riguardo, l’accesso all’acqua potabile è fondamentale, ma ciò non vale per una larga fetta di popolazione mondiale.

Inequità nell’essere donna, bambino, disabile, anziano. Il 70% della popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno è donna; è donna il 60% dei non alfabetizzati. Nell’Unione europea la retribuzione della donna risulta mediamente inferiore del 17% rispetto a quella maschile. Il lavoro minorile riguarda 306 milioni di bambini, di questi almeno 8 milioni sono schiavi, soldati, lavoratori del sesso. Nei paesi in via di sviluppo l’80% dei disabili vive nella povertà più assoluta.

Inequità nell’apprendere, nel poter decidere della propria vita. L’ascensore sociale – salvo poche eccezioni – non funziona per chi si trova al piano terreno o peggio in cantina. La povertà, l’emarginazione, l’esclusione si autoalimentano, si riproducono.

L’elenco potrebbe ulteriormente continuare.

Non c’è nulla di inevitabile

Quanto sommariamente richiamato – lo ribadisco – non è affatto interpretabile nell’ottica della fatalità, della inevitabilità, della dura necessità. Non può neppure essere mascherato da false verità. A questo proposito, rinvio al libriccino di Bauman (edito da Laterza) il cui titolo è già di per sé significativo. La ricchezza di pochi avvantaggia tutti. Falso. Con altre parole, la ricchezza accumulata al vertice della società non filtra, non sgocciola verso il basso così da rendere tutti un pochino più ricchi, più felici, più fiduciosi. Del pari è falso che per creare, innovare, occorra necessariamente distruggere (comprese le persone) e che la lotta, la contrapposizione siano il solo modo per promuovere il progresso. Pertanto nulla di fatale, di inevitabile, di necessario in questo stato di cose, bensì precisi interessi e responsabilità. Vi sono cause profonde. Le stesse che la Laudato si’ pone a fondamento della crisi ecologica: da un lato il rapporto tra globalizzazione e potere tecnocratico ed economico; dall’altro le conseguenze dell’antropocentrismo moderno per cui tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati. Tutto diventa appunto «scarto». La ricerca del proprio tornaconto su orizzonti temporali sempre più brevi e una sorta di darwinismo sociale per cui i più forti vincono e prendono tutto – attraverso la mistificazione dell’efficienza a senso unico – costituiscono i fondamenti paradigmatici di quello che chiamiamo neoliberismo. La finanziarizzazione dell’economia ne costituisce l’aspetto emblematico. In questi anni abbiamo assistito e ancora assistiamo alla moltiplicazione artificiosa, attraverso il gioco speculativo, di una ricchezza che non cresce ma che con la sua tossicità destabilizza, avvelena la base reale dell’economia, fatta di produzione, investimenti, occupazione. Gli attivi finanziari a breve e brevissimo termine (futures, derivati) sono oggi pari a cinque volte il Pil mondiale!

Le multinazionali globali il cui potere di controllo si estende dalla finanza, alla produzione, alla conoscenza, ai mass media, alla tecnologia, condizionano pesantemente le politiche degli Stati nazionali di cui hanno acquisito settori e imprese vitali per l’economia del singolo paese. A ciò si aggiunga il ruolo sempre più pervasivo delle lobby. L’austerità significa deregolamentazione, privatizzazioni a scatola chiusa, taglio delle prestazioni sociali, disoccupazione, marginalizzazione delle organizzazioni sociali, sindacali. La medicina dell’austerità anziché guarire il malato rischia di ucciderlo.

Grandi contraddizioni connotano gli odierni processi di globalizzazione. Questi non avvengono secondo modalità lineari e inequivoche. Le loro velocità sono, a ben vedere, molto differenziate, più accentuate a livello finanziario-speculativo, rallentate a livello culturale e civile. La produzione di beni privati sopravanza la produzione di beni pubblici, con il conseguente fallimento nella distribuzione del reddito e delle chance di vita a scala mondiale.

Ricorrendo a una immagine figurata, potremmo osservare che sulle strade del mondo il profitto corre oggi più in fretta della solidarietà! Ne conseguono processi di integrazione asimmetrici, con marcati dislivelli nelle posizioni relative dei diversi soggetti coinvolti. Per alcuni la globalizzazione rappresenta una grande opportunità, per altri può costituire una minaccia cui rispondere attivando forme di difesa, richiedendo misure di salvaguardia e di protezione.

La miseria dei paesi poveri combinata con il consumo superfluo dei paesi ricchi genera pressioni insopportabili sull’ambiente. Per acquisire la valuta pregiata, necessaria per pagare il debito o le importazioni necessarie per sopravvivere, il rispetto dell’aria, dell’acqua, del verde, è l’ultima delle preoccupazioni di un paese affamato. Ha ragione U. Beck quando afferma che siamo entrati nell’era della globalizzazione prima di avere gli strumenti politici e culturali per governarla.

Un progetto di ecologia integrale

Le diseguaglianze economiche, sociali e ambientali sono tra di loro interconnesse, interdipendenti nel tempo e nello spazio, fanno – come già evidenziato – sistema. È pertanto in un’ottica sistemica che vanno aggredite mettendo a fattor comune obiettivi di sostenibilità, giustizia sociale, qualità di vita personale e famigliare per tutti. Sullo sfondo ci sta il concetto di «ecologia integrale» che papa Francesco pone al centro della sua enciclica.

Al riguardo sono indispensabili sia politiche correttive, avviabili in tempi rapidi facendo leva su strumentazioni fiscali, e di intervento a livello di welfare, specie nel nostro paese ove manca una rete adeguata di protezione sociale sia, soprattutto, politiche strutturali in grado di andare alla radice dei problemi, di incidere sulle cause delle diseguaglianze. Tra queste, a titolo di esempio, possiamo fare riferimento alle seguenti misure: a) Ridurre il grado di monopolio e i protezionismi corporativi in tutte le aree di attività economica; b) Regolare i mercati finanziari e i movimenti di capitale con l’introduzione della Tobin tax e la contestuale eliminazione dei paradisi fiscali. In un’ottica di solidarietà globale occorre altresì affrontare la questione della remissione del debito dei paesi in via di sviluppo; c) Rafforzare la democrazia, la democrazia economica, la partecipazione dei lavoratori al governo delle imprese; d) Rafforzare la soggettività della società civile, promuovere l’economia sociale e il terzo settore; e) Promuovere la parità economica e sociale delle donne, con particolare riferimento alla conciliazione tra lavoro e famiglia; f) Istituire una base minima di tutela sociale universale – tipo il reddito di inclusione sociale proposto dalle Acli – implementabile nel corso del tempo; g) Puntare a livello nazionale e soprattutto europeo a politiche economiche che assumano contestualmente crescita e sua equa redistribuzione, sviluppo e occupazione nel rispetto dell’ambiente. Responsabilizzare su questi obiettivi l’impresa incentivando la sua responsabilità sociale e ambientale.

L’Organizzazione internazionale del lavoro, in un suo recente documento, evidenzia la necessità di un patto globale per il lavoro (A Global Jobs Pact). Un patto che si proponga l’obiettivo di un lavoro decente e retribuito per tutti nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali. Un patto che preveda la generalizzazione della sicurezza, della protezione sociale e delle pari opportunità. Un patto capace di esprimersi attraverso la partecipazione e il dialogo sociale.

Il lavoro e, mediante esso, la riduzione delle disuguaglianze e della povertà, è la via obbligata per uscire dalla crisi e avviare una crescita sostenibile nel cui ambito la finanza si ponga al servizio dell’economia reale. Il patto globale per il lavoro può rappresentare il ponte tra i diritti delle persone a una vita dignitosa e le esigenze dello sviluppo economico e sociale nella prospettiva di una globalizzazione equa, solidale, sostenibile, imperniata su un sistema di beni pubblici destinati alla comunità di tutti gli uomini. Con un prodotto interno lordo globale che, nonostante la crisi, supera i 60.000 miliardi di dollari, il mondo dispone di mezzi economici, tecnologici, organizzativi che sarebbero largamente sufficienti per assicurare una vita decorosa all’intera sua popolazione.

La misericordia fondamento di nuovi paradigmi

Messo con le spalle al muro, l’uomo deve ricostruire se stesso. Il sentiero è stretto ma percorribile. Non mancano segni di inquietudine e anche di speranza. Sempre più ci si interroga sulla validità e sui rischi dei modi di agire a livello di produzione, consumo, utilizzo delle risorse ambientali. Si fa strada la consapevolezza della necessità di modelli plurali e interdipendenti di modernizzazione, in grado di sviluppare le capacità e le peculiarità delle persone secondo le loro specificità a partire dai più deboli. Ci si accorge che non si è soli e che si è responsabili verso gli altri che dipendono, per il bene e per il male, dalle nostre azioni. E la catena della responsabilità non ha confini né di spazio né di tempo. L’umanità, il calore umano, il senso di comunità possono far sì che qualsiasi luogo smetta di essere un inferno e diventi il contesto di una vita degna (Ls, 150-154).

Il sapere scientifico-tecnologico, la comunicazione, la rete, ma anche la paura di processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio, quasi per assurdo, unificano in comunità la globalità degli uomini con la loro storia, cultura, appartenenze. Lotta alla povertà e sviluppo sostenibile – come evidenzia la Laudato si’ – sono le due facce della stessa medaglia. L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme o si salvano insieme. Qui sta il punto di forza del quale ha bisogno la leva della razionalità, sia per capovolgere situazioni di ingiustizia e esclusione che non possono più essere accettate dalla comunità mondiale, sia per cogliere e valorizzare tutte le potenzialità del bene condiviso.

Non è la scarsità delle risorse che genera la contrapposizione e la lotta tra gli uomini. Piuttosto è vero il contrario: la contrapposizione e la lotta depotenziano le risorse, nel mentre la condivisione solidale e creativa le moltiplica. In questo quadro la questione dei beni comuni diventa cruciale. Occorre a scala globale costruire un ordinamento e una strategia di azione secondo cui i beni della terra (ambiente, clima, acqua, conoscenza) non appartengono a coloro che per primi se ne impossessano o li sfruttano, ma son destinati a tutti gli uomini.

In questa ottica si impongono grandi mutamenti culturali, l’assunzione di criteri di giudizio diversi da quelli consueti. Gli ultimi, i poveri, gli scarti diventano chiave interpretativa del vivere sociale e anche del nostro essere Chiesa. Gli ultimi hanno bisogno dei primi, i primi hanno bisogno degli ultimi. Gli ultimi hanno bisogno della imprenditoria, della competenza, della scienza, delle abilità dei primi. I primi a loro volta hanno bisogno degli ultimi per trovare un senso alle loro ricchezze materiali e immateriali: l’accumulo fine a se stesso non genera una nuova qualità della vita bensì una cultura di disperazione.

La solidarietà non è un vago sentimento buonista, compassionevole, una categoria residuale marginale. Sviluppo, inteso come avere in funzione dell’essere di ogni uomo e di ogni popolo e pace possono rappresentare la grande discriminante tra vecchie e nuove strategie politiche, economiche, sociali, ambientali. Per le prime i deboli, i poveri, gli scarti rappresentano un vincolo, un intralcio, un costo da sopportare e minimizzare secondo i dettami dall’austerità. Per le seconde questi possono diventare soggetti, persone. Occorre dunque allargare il campo, occorre ragionare per futuri possibili a partire dai pezzi di progetto che sono elaborabili dai vari protagonisti sociali. Vincoli e possibilità possono essere spostati in avanti, liberando nuove energie e nuove risorse. I fondamenti, i paradigmi della nostra scienza, della nostra economia, della nostra politica, in definitiva della nostra razionalità sono chiamati in causa. Dal Giubileo della Misericordia discendono tre grandi sfide. La sfida della gratuità come antidoto alla logica di egoismo e di sfruttamento che caratterizza il nostro tempo; la sfida della giustizia come antidoto alle diseguaglianze crescenti nella distribuzione delle risorse, dei diritti, delle possibilità di vita; la sfida del perdono richiesto come antidoto alla violenza, alla logica della forza che pretende di stabilire e imporre le regole del gioco. Portando avanti queste tre sfide, il Giubileo della Misericordia potrà continuare nel tempo e diventare, come sta scritto nella bolla di indizione, fonte di gioia, di serenità, di pace. Per tutti!

La ricchezza di questo Dossier

Ridurre le diseguaglianze: nuovi paradigmi per vivere insieme è stato il tema del XXXVII Convegno Bachelet. Mettendo a confronto un ampio ventaglio di competenze, esperienze, sensibilità, ci si è posto l’obiettivo di approfondire il perché delle «inequità», assunte nell’interdipendenza delle loro molteplici dimensioni economiche, politiche, ecologico-ambientali, sociali e quindi di prospettare la possibilità di strade alternative per costruire una società creativa, sostenibile, giusta, misericordiosa. In un mondo diseguale tutto diventa a rischio, occorre pertanto ripensare il bene comune nell’ottica di quella che papa Francesco chiama ecologia integrale. Questo è il filo conduttore delle relazioni che abbiamo scelto per questo Dossier.

Giuseppe Acocella, attraverso un sintetico ed efficace excursus del pensiero politico filosofico, si misura con la problematicità del rapporto tra democrazia e uguaglianza. E ciò muovendo dalla constatazione che le diseguaglianze costituiscono una caratteristica dei sistemi democratici contemporanei, nell’ambito dei quali l’obiettivo prioritario della libertà (ma la libertà di chi?) viene perseguito a scapito dell’uguaglianza. Nel nostro tempo, la politica, la finanza e talvolta lo stesso mondo del lavoro privato della sua matrice solidaristica, non generano più legami sociali, non producono coesione. Al contrario alimentano o quanto meno tollerano la crescita delle «inequità», l’emergere e il consolidarsi delle «periferie esistenziali», la pervasività della cultura dello scarto. Da qui una generalizzata sfiducia nei confronti della democrazia che le diseguaglianze trasformano in oligarchia, sempre più distante dai bisogni reali della gente. Il terreno risulta quanto mai fertile per gli odierni appelli qualunquisti e populisti che chiedono tutto per non cambiare niente, stando quindi al gioco di chi detiene il potere. Ogni sforzo deve essere dunque fatto in vista di una democrazia in grado di qualificarsi come inclusione progressiva nell’area delle libertà e dei diritti di fasce sempre più ampie di popolazione, ponendo al centro – così conclude Acocella – partecipazione sostanziale, questione sociale e welfare al di là della considerazione meramente contabile del suo costo.

Per Ignazio Musu il degrado ambientale nelle sue molteplici manifestazioni – cambiamento climatico, perdita della biodiversità, ciclo dell’azoto atmosferico – è fonte di crescenti diseguaglianze nell’ambito delle quali sono i poveri a pagare il prezzo più elevato; le diseguaglianze, a loro volta, alimentano il degrado ambientale secondo una circolarità viziosa che non è facile spezzare. La pressione dell’attività umana sull’ecologia continua ad aumentare e supera ampiamente la capacità di bioassorbimento. Tutto ciò non è casuale ma conseguenza di un modello di sviluppo caratterizzato da un uso distorto della tecnologia e del mercato. L’obiettivo della sostenibilità va dunque posto con determinazione all’ordine del giorno. Interventi semplicemente correttivi si rivelano del tutto inadeguati se non addirittura controproducenti. Occorrono cambiamenti radicali a livello sia dei paesi in via di sviluppo sia dei paesi sviluppati. Questi, anche per le loro responsabilità storiche, dovrebbero sentirsi obbligati a fare il primo passo. Con un’avvertenza, rimarcata da Musu. Gli accordi globali sono indispensabili, ma non bastano. Occorrono anche interventi a scala locale posti in essere da comunità radicate nel territorio per le quali l’obiettivo dell’ecologia integrale diventa stile di vita.

In oggi, quasi l’8% della popolazione italiana vive in una situazione di povertà assoluta ovvero senza la possibilità di accedere a quell’insieme di beni e servizi ritenuti essenziali affinché una famiglia possa conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Dall’inizio della crisi il numero dei poveri è aumentato e la loro condizione si è progressivamente aggravata. Per don Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana, la povertà costituisce la grande «inequità» e per affrontarla si fa ancora troppo poco. La sua denuncia è puntuale e inequivoca. L’Italia, insieme alla Grecia, manca di una misura nazionale mirata a sostenere l’intera popolazione in povertà assoluta; i provvedimenti adottati sono inadeguati nell’ammontare delle risorse e scoordinati nelle applicazioni e nella suddivisione tra centro e periferia. L’obiettivo dell’inclusione diventa dunque la grande priorità. In vista di ciò, Caritas italiana, insieme alle Acli, ha dato vita alla Alleanza contro la povertà in Italia, di cui fa parte anche l’Azione cattolica. La proposta che viene avanzata è quella del Reddito per l’inclusione sociale (Reis). Trattasi di una proposta realistica, che può essere attuata gradualmente da un governo che voglia affrontare con determinazione il dramma della povertà assoluta. In questa prospettiva un primo parziale risultato è già stato ottenuto con l’approvazione della delega contro la povertà. La strada resta ancora lunga: c’è un problema sia di reperimento di risorse finanziarie sia soprattutto di costruzione di percorsi di fuoriuscita dalla condizione di esclusione. Perché ciò avvenga occorre emancipare i poveri, realizzare giustizia, suscitare libertà, diffondere umanità, promuovere accoglienza, stimolare partecipazione. La lotta alla povertà, così conclude don Soddu, può dunque diventare un luogo teologico e sociale in cui sperimentare – in prosecuzione del Convegno di Firenze – un nuovo umanesimo civile ed ecclesiale. Giuseppe Notarstefano approfondisce specificatamente il tema delle diseguaglianze economiche, tema che si è riproposto all’attenzione degli studiosi. Si pensi in particolare ai contributi di Thomas Piketty, di Joseph Stiglitz, di Angus Deaton, recente premio Nobel per l’economia. La crisi finanziaria ha enfatizzato un processo che la globalizzazione aveva già messo in luce ovvero il fatto che la crescita della produzione e della ricchezza a livello mondiale va di pari passo con una crescente polarizzazione dei redditi e più in generale delle chance di vita. Il progresso economico non si traduce automaticamente in benessere per tutti. Ciò anche nei paesi più sviluppati ove i processi di ristrutturazione industriale stanno generando nuove forme di diseguaglianza attraverso la contrazione della domanda di lavoro e l’ampliamento delle aree di vulnerabilità sociale. Il tema delle diseguaglianze economiche, come ribadisce Notarstefano, assume di conseguenza valenze multidisciplinari e multidimensionali aprendo nuove strade anche alla ricerca di opportune e condivise misurazioni.

Per Antonio La Spina le diseguaglianze sociali vanno riferite sia ad aspetti hard quali il livello di reddito, le condizioni abitative, la sanità, l’istruzione, il lavoro, sia ad aspetti soft legati alle attese, alle percezioni dei diversi soggetti coinvolti. Non si può parlare di diseguaglianze prescindendo dal sistema di stratificazione sociale che caratterizza un determinato paese, dalle condizioni di mobilità che rendono la società più o meno fluida, dal ruolo e dall’impatto delle politiche di welfare, dalle aspettative soggettive circa il proprio futuro. Per quanto riguarda l’Italia, la situazione si presenta con molte contraddizioni. Accanto a condizioni vantaggiose, tendenzialmente egualitarie – La Spina fa l’esempio della speranza di vita tra le più alte nel mondo – si collocano squilibri e sperequazioni particolarmente evidenti nei rapporti tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Per aggredirli non ci si può limitare alla dimensione economica delle diseguaglianze, occorre offrire servizi di buona qualità, equamente distribuiti a livello territoriale e categoriale. Per quanto riguarda gli aspetti soft delle diseguaglianze, viene proposto un interrogativo di grande interesse. La trasformazione delle aspettative, indotta dal perdurare della crisi, deve essere letta nell’ottica del loro ridimensionamento quantitativo o invece nel senso di un mutamento qualitativo delle stesse? L’interrogativo assume una rilevanza particolare nei confronti delle giovani generazioni, dei millennial sempre meno ancorati a sollecitazioni consumistiche. Questi giovani sono forse le persone più adatte – così conclude La Spina – per costruire società più giuste ed egualitarie.

Roberto Rossini, presidente nazionale delle Acli, e Adriano Patti, magistrato presso la Corte di Cassazione, intervistati da Ilaria Vellani, chiudono il Dossier. La costruzione di un tessuto sociale è – a partire dal nostro paese – la strada obbligata per ridurre il peso delle diseguaglianze. Il che non è facile: la mobilità sociale è bloccata, la politica non riesce più a fare accordi virtuosi con la società, la crisi della legalità si rivela più grave e pervasiva della stessa crisi economica che, anzi, concorre ad alimentare. In particolare, a fronte della crescita della povertà educativa di tanti ragazzi, occorre puntare sull’istruzione, sull’apprendimento, sullo sviluppo delle capacità personali e sociali. In quest’ottica la formazione professionale, ripensata e valorizzata, diventa strumento di inclusione. La legalità – intesa non semplicemente come conformità alle leggi – si pone dentro questo discorso. Essa presuppone un patto di fiducia tra i cittadini, tra essi e le istituzioni, capace di cogliere i bisogni emergenti e le nuove opportunità di sviluppo nell’ambito di una coesistenza pacifica e solidale e quindi più giusta, con meno diseguaglianze. Su queste basi la politica, a sua volta, può trovare una nuova fonte di legittimazione, più autentica e genuina, espressione di un popolo che ha coscienza del suo destino, dei problemi e delle strade legittime per uscirne.