Giorgio La Pira: il "santo" del compromesso costituzionale

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L’apporto di Giorgio La Pira (1904-1977) al processo costituzionale è stato nodale nella definizione di quelli che sarebbero divenuti nel testo finale della Costituzione gli articoli 2 e 3, che esprimono il fondamento personalistico della comunità, il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il compito imprescindibile dello Stato di rimuovere le disuguaglianze.
 

In ogni vicenda biografica, le coordinate spaziali e temporali dentro cui si snoda risultano determinanti. Se questa sorta di «regola d’oro» si ripete per ogni esistenza umana, nondimeno, per alcuni profili, diviene evidentemente tangibile anche solo a una ricostruzione in superficie della parabola, come nel caso di Giorgio La Pira.

Nato il 9 gennaio 1904 a Pozzallo, il ragazzo frequentò le scuole elementari nella città direttamente affacciata sul Mediterraneo, per poi passare all’età di dieci anni a Messina, presso la famiglia dello zio materno, il quale era di orientamento anticlericale. Nel centro, dove non erano ancora state suturate le ferite del terribile terremoto del 1908, il giovane, durante il periodo degli studi, si infervorò, nel clima culturale anticonformistico che si respirava, per le pulsioni del futurismo e del socialismo anarcoide, stringendo un profondo rapporto di amicizia con Salvatore Quasimodo e Salvatore Pugliatti. Dopo aver conseguito il diploma all’Istituto tecnico commerciale, La Pira, seguendo le aspirazioni letterarie, ottenne anche la maturità classica al Liceo «Umberto I» di Palermo, per poi iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Messina.

Nel 1924, dopo essere entrato in contatto con monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, fratello del suo insegnate tormentata, maturò la conversione religiosa, che lo spinse, soprattutto a contatto con il misticismo medievale, a contemperare i richiami alla vita contemplativa e le attese della «città dell’uomo».

Mentre frequentava il locale circolo fucino, La Pira intraprese un brillante itinerario accademico, che lo portò alla discussione della tesi su La successione ereditaria intestata e contro il testamento neldiritto romano all’Università di Firenze con il professor Emilio Betti, che lo aveva chiamato dopo il suo trasferimento nell’ateneo della ex capitale del Regno.

Attraverso borse di studio, perfezionò in Austria e in Germania la cultura giuridica, fino ad ottenere nel 1930 la libera docenza in Diritto romano, che gli aprì la strada all’insegnamento universitario a Firenze, città eletta a «patria del suo spirito» con cui instaurò un legame simbiotico inossidabile, risiedendo inizialmente in una cella del convento di San Marco come terziario domenicano con il nome di fra’ Raimondo. Lo studio specialistico si abbinò all’approfondimento del pensiero di Tommaso d’Aquino, in una miscela che indusse il giurista a ricercare – come confidò in una lettera a Pugliatti – le «bellezze geometriche del diritto» tramite lo «sguardo» alle «linee architettoniche» che conducevano a un «afflato di bellezza che solleva[va] dalla tecnica pura alla visione di un panorama unitario». Questa tensione, che lo spingeva a riversare nell’insegnamento «una funzione educativa di grande importanza», fu all’origine della concezione dell’«architettura dello Stato», un tema centrale nell’elaborazione giuridica e politica lapiriana. Dopo una serie di incarichi di docenza, nel 1935 fu chiamato a ricoprire come ordinario la cattedra di Diritto romano all’ateneo fiorentino.

 

Il Giurista

Parallelamente, in un intreccio inestricabile, se è lecito ricorrere a una metafora insostenibile proprio sul piano geometrico, La Pira fu sempre più coinvolto nell’associazionismo ecclesiale fiorentino, dapprima nell’Azione cattolica, poi nel neonato Movimento laureati, il ramo intellettuale dell’associazione. All’interno dell’ordito delle relazioni con il mondo cattolico della città del Giglio, un filo resistente si dipanò con don Giulio Facibeni, fondatore dell’Opera della divina provvidenza «Madonnina del Grappa», il quale promosse un’audace esperienza pastorale nella parrocchia della zona operaia di Rifredi. Non meno intenso fu il rapporto con don Raffaele Bensi, assistente diocesano della Gioventù cattolica, destinato a diventare suo assistente spirituale, che aveva conosciuto tramite Giovanni Battista Montini, figura alla quale sarebbe sempre rimasto legato. A suggello del vincolo con la Chiesa locale, La Pira strinse un significativo scambio anche amicale con il cardinal Elia Dalla Costa, intessuto di una frequentazione abituale, che si cementava nei momenti delle scelte portanti della vita.

Nel 1934, nel pieno della depressione causata dalla «grande crisi», l’intellettuale di origine siciliana iniziò l’animazione della «messa del povero», dapprima nel contesto di San Procolo, poi alla Badia Fiorentina, che consisteva nel coinvolgimento dei fedeli, sostenuti anche da un’omiletica “laica”, nel vissuto condiviso della carità cristiana, superando le logiche della beneficenza assistenziale: «Una caratteristica di questa repubblica [...] è un ponte di carità fra i ricchi e i poveri: vorremmo farne una comunità cristiana di amore: qualcosa come il primitivo cristianesimo dove tutto eramesso in comune». In successione, recuperando l’esperienza maturata nei movimenti intellettuali dell’Azione cattolica, il giovane ormai adottivo di Firenze dette vita alla Conferenza di San Vincenzo «Beato Angelico», nella quale coinvolse un nutrito gruppo di professionisti locali, che si ritrovava presso la Lef, la Libreria editrice fiorentina, che stava assumendo un ruolo sempre più propulsivo di promozione culturale, destinato a dilatarsi con la pubblicazione degli scritti dei protagonisti del cattolicesimo fiorentino, non ultimo lo stesso La Pira.

Attingendo alla «letteratura della crisi», il docente dell’Università di Firenze, in particolare dopo la promulgazione delle leggi razziali, prese decisamente le distanze dal regime fascista. Dopo l’uscita nel 1938 dell’articolo dall’emblematico titolo di Architettura delcorpo sociale su «Il Frontespizio», che provocò una replica nemmeno velata di Giovanni Papini, La Pira lanciò «Principi», come supplemento di «Vita cristiana», il foglio promosso dalla comunità domenicana di San Marco, per riaffermare l’insopprimibile uguaglianza del genere umano. Aggirando la censura attraverso il sistematico ricorso al pensiero dei padri della Chiesa, la rivista demistificava i valori spuri sui quali si reggeva il regime dittatoriale.

In questo senso, l’editoriale intitolato Valore della persona umana restituiva incisivamente la traiettoria percorsa dal periodico.Il numero dedicato al tema della libertà, dopo lo scoppio della IIGuerra mondiale, causò l’interruzione delle uscite.

Tra il 1940 e il 1943, pur con la prudenza che rimandava alla virtù cristiana, La Pira svolse le proprie riflessioni pubbliche sulle principali testate cattoliche, offrendo indirettamente risonanza pubblica al confronto maturato negli incontri a Milano, in casa Padovani, nel gruppo dei «professorini», dove cementò il rapporto che lo univa a Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati e Amintore Fanfani fin dall’adesione all’Istituto secolare dei missionari della regalità di Cristo, fondato da padre Agostino Gemelli. Le prospettive per il «nuovo ordine» del dopoguerra trovarono un’ulteriore dilatazione nel cosiddetto «Codice di Camaldoli», elaborato alla vigilia della caduta del fascismo da un drappello di intellettuali cattolici, per porre le fondamenta dei rapporti che avrebbero dovuto informare lo Stato e la persona umana.

In seguito all’armistizio, indotto da una perquisizione andata a vuoto al convento dove risiedeva, si nascose nel Senese, presso la villa dell’amico Jacopo Mazzei, per poi riparare a Roma a causa di un mandato di cattura pendente nei suoi confronti. Durante il forzato soggiorno, il «professorino» tenne anche dei corsi all’Università Lateranense, che confluirono dopo la guerra nel volume La nostra vocazione sociale, edito dall’Ave, nel quale tratteggiava le basi di un rinnovato impegno dei credenti.

 

Il Costituente

Dopo la liberazione di Firenze, nel 1944 La Pira tornò nella città d’adozione, assumendo la presidenza dell’Ente comunale di assistenza, che guidò secondo criteri di «giustizia sociale». La prima carica di rilievo politico costituì l’anticamera per l’impegno profuso nell’Assemblea costituente. La Pira ebbe un banco di prova nella Settimana sociale dei cattolici italiani, che, riprendendo la tradizione arrestata durante il fascismo, si tenne proprio a Firenze nell’ottobre del 1945 su Costituzionee Costituente. Preparandosi all’importante appuntamento, non mancò di palesare a Vittorino Veronese l’approccio che il mondo cattolico avrebbe dovuto maturare: «Lavorare alla costituzione di un ordine sociale cristiano non è lavorare per qualcosa di fantastico: è lavorare per l’unico obiettivo concreto verso il quale necessariamente si volgerà l’attenzione degli uomini pensosi davvero del bene comune». L’esponente di origine siciliana, il quale aveva sollecitato la presenza di Jacques Maritain, arrivò a definire il quadro di riferimento della concezione personalistica, che il gruppo democristiano avrebbe assunto durante i lavori. In quest’ottica, rappresentando l’Esame di coscienza di fronte alla Costituente, La Pira affermò che una «Costituzionecristianamente ispirata» non si sarebbe manifestataper le concessioni alla religione cattolica, ma si sarebbe basatasul presupposto della «persona umana quale il cattolicesimo la defini[va]», caratterizzandosi per un «ordinamento economico,politico, familiare, culturale, religioso [...] conformi allanatura ed alla dignità della persona umana».

La Pira fece parte nella «Commissione dei 75», dove fu relatore nella prima sottocommissione sui «Diritti e doveri dei cittadini». In questa sede, la sua relazione sul progetto si ricollegò ai moderni modelli costituzionali, riecheggiando, peraltro, indirettamente una proposta lanciata da Emmanuel Mounier su una carta dei diritti a livello europeo. L’apporto lapiriano, dopo un confronto serrato non privo di asprezza, si rivelò nodale nella definizione di quelli che sarebbero divenuti nel testo finale gli articoli 2 e 3, esprimendo il fondamento personalistico della comunità, il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il compito imprescindibile dello Stato di rimuovere le disuguaglianze.

Su queste premesse irrinunciabili, si costruì l’impalcatura del «compromesso costituzionale» raggiunto tra i partiti di massa nel mettere a punto l’Architettura di uno Stato democratico, volendo riprendere proprio il titolo di un saggio a caldo di La Pira del 1948. Il giurista, peraltro, non si sottrasse a commenti simpatetici sui risultati conseguiti, individuando nell’articolo 2 il «principio basilare che da[va] fondamento a tutta la Costituzione», al quale, del resto, aveva offerto un contributo prezioso.

Nel 1948, l’esponente di origine siciliana fu eletto alla Camera dei deputati nella lista democristiana, venendo nominato sottosegretario al ministero del Lavoro nel V Governo De Gasperi, che rimase in carica fino al 1950. La Pira, contribuendo fattivamente all’implementazione del piano Ina-Case con l’amico Fanfani, accordò al problema dell’occupazione la priorità dell’intervento statale, secondo la tensione riflessa nel «Rapporto Beverdige», dal quale era scaturito il moderno welfare state. La mediazione della teoria keynesiana sulla base del Vangelo trovò, peraltro, una cassa di risonanza in una serie di articoli pubblicati su «Cronache sociali», espressione del «gruppo dossettiano», che fece da «pungolo» alla politica dell’esecutivo. Lo scritto più acuto prese forma nel 1950 con L’attesa della povera gente, che sollevò una polemica a tratti violenta in vari settori anche del mondo cattolico. Nella replica, significativamente intitolata La difesa della povera gente, nella quale il «professorino» precisò: «La radice del contrasto che questa polemica così viva ha messo in luce è tutta qui: è un contrasto di fondo; rivela due concezioni diverse delle ripercussioni sociali del cristianesimo, due modi diversi di concepire la finalità dell’economia, della finanza e della politica. Non è un dissenso di dettaglio, non si può dire che, in fine, le due parti sono d’accordo: no, non sono d’accordo, perché il loro disaccordo tocca le idee di base e di orientamento».

 

Il Sindaco

Affondano in questa visione le radici del dissidio che portò in forme diverse i dossettiani all’allontanamento dal partito. Nel 1951, La Pira fu eletto in Consiglio comunale a Firenze, accettando la candidatura a sindaco caldeggiata dallo stesso Dalla Costa. Non è possibile, per ragioni di spazio, approfondire, anche solo sommariamente, l’attività amministrativa del «sindaco santo», che si protrasse per tre mandati, seppure con interruzioni dovute a contrasti interni, dal 1951 al 1965. In questa sede, preme rimarcare la linea di continuità espressa nell’orientamento di fondo con l’esperienza governativa. In tale senso, si palesò l’intervento per il salvataggio della fabbrica della Pignone o la requisizione della fonderia Le Cure, per alleviare la piaga della disoccupazione, sollevando un vespaio di reazioni polemiche anche scomposte. Il sindaco affrontò audacemente il piano della ricostruzione della città, progettando, nel tempo, l’insediamento del quartiere dell’Isolotto, l’edificazione di nuove unità abitative, la vasta opera di infrastrutturazione del tessuto urbano, la messa a punto del piano urbanistico. Non meno incisivi si rivelarono la ridefinizione del sistema socio-assistenziale, il rilancio delle proposte di attività culturali, l’attenzione al settore dell’educazione. In quest’ottica, si può ricorrere alla chiave interpretativa dell’attuazione della Costituzione materiale per inquadrare lo slancio lapiriano a favore dello sviluppo di Firenze.

Fin dal primo mandato, La Pira si prodigò per trasformare la città – «ponte tra Oriente e Occidente» – in un centro del dialogo interreligioso, aperto alla ricerca della pace. Su questa direttrice di marcia, il sindaco toscano promosse i Convegni per la pace e la civiltà cristiana, che furono avviati nel 1952. Dopo aver delineato Il valore della città in un’assise internazionale del 1954, a partire dal 1955 lanciò il Convegno dei sindaci delle del mondo con la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni locali divisi dalla «cortina di ferro», che firmarono congiuntamente una petizione d’interdizione della guerra nucleare. La Pira attivò una sorta di diplomazia aperta, che si tradusse in iniziative non solo simboliche, come i gemellaggi con altre città, i «pellegrinaggi della pace», gli scambi a distanza con i «grandi della terra». Coniugando la ricerca della pace con l’attenzione alle tematiche dello sviluppo, il padre costituente intraprese l’anno successivo alla crisi del 1956, dopo essersi recato in Marocco e Siria, un viaggio in Egitto e Israele per incontrare Nasser e Ben Gurion. Lo scenario del Medio-Oriente costituì la trama dei quattro Colloqui mediterranei, tenutisi tra il 1958 e il 1964, nei quali fu affrontata anche la sfida della decolonizzazione, agitata, in particolare, dalla situazione in Algeria. Nel 1959, l’allora deputato si recò clamorosamente in Unione Sovietica, intervenendo al Soviet supremo per perorare la causa della pace, ma anche per sollecitare l’abbandono dell’ateismo di Stato. Alimentando, per così dire, il vento del Concilio, di cui fu un entusiasta traduttore, come attesta il messaggio dell’Africa Nera lanciato attraverso il presidente del Senegal, Léopold Sédar Senghor, da Palazzo Vecchio ai «popoli della terra», La Pira attuò quella che arrivò a definire la «germinazione fiorentina», rendendo Firenze un «laboratorio» di pace, attraverso la sensibilità verso l’obiezione di coscienza e il disarmo multilaterale, di fronte al «crinale apocalittico» della storia.

Anche dopo la sofferta chiusura dell’esperienza amministrativa, l’esponente di origine siciliana non rinunciò alla tessitura del dialogo su scala globale, mobilitandosi per la pace in Vietnam. Il

viaggio ad Hanoi, dove nel 1965 incontrò Ho Chi Minh, si concluse con la disponibilità a concessioni della componente comunista, che furono trasmesse a Fanfani, all’epoca presidente di turno dell’Assemblea dell’Onu, il quale aprì senza successo un canale negoziale con l’amministrazione statunitense. Di fatto, l’accordo siglato a Parigi dieci anni dopo, segnati da una tragica scia di sangue, ricalcò le risultanze della «missione» lapiriana. L’aspirazione alla pace trovò nuove ricadute con il viaggio in Medio Oriente per trovare una mediazione dopo la IV Guerra arabo-israeliana e il coinvolgimento nella preparazione della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa.

La linea di continuità della sua vita pubblica è rintracciabile nel suo profilo spirituale “privato”, come emerge nitidamente dalle Lettere alle claustrali o dall’intenso scambio epistolare con i pontefici che si succedettero sulla cattedra di Pietro. Nel 1976, dopo essersi speso per il «sì» all’abrogazione della legge sul divorzio nel referendum celebrato due anni prima, La Pira, il quale dava credito al nuovo corso della segreteria democristiana di Benigno Zaccagnini, fu eletto per la terza volta alla Camera, ma il precipitare delle condizioni di salute lo costrinse al rientro a Firenze, dove, dopo alcuni mesi di malattia, morì il 5 novembre 1977. Il funerale, per l’intensa partecipazione, divenne il simbolo tangibile del contributo instancabile offerto per la costruzione della «casa comune», come egli amava definire la Carta costituzionale.

 

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Antologia

 

Esame di coscienza di fronte alla Costituente1

Una costituzione [...] può essere definita come è definito lo Stato (la costituzione è, come abbiamo detto, lo Stato in potenza, e lo Stato è la costituzione in atto): cioè come l’organizzazione giuridicadella società. Quando una costituzione è «buona»? La risposta è evidente: quando l’organizzazione giuridica (la costituzione) è proporzionata alla società cui si riferisce: quando, cioè, è osservatoil principio di proporzionalità che governa il rapporto societàcostituzione(o che è lo stesso) società e Stato.

Un vestito è «buono» quando è tagliato su misura: è «buona» una cosa quando è costruita in modo conforme all’uso cui è destinata: è «buona» una costituzione che si attaglia al corpo sociale che essa organizza. Ma sorge il problema: quando si può dire che questa proporzionalità sussista? Per rispondere a questa domanda bisogna porre a confronto i due termini del rapporto: società e costituzione (o Stato): la proporzionalità sussiste quando la struttura dell’organizzazione giuridica rispecchia in sé quella del corpo sociale e, quando, sovratutto il fine dell’organizzazione giuridica coincide con quello del corpo sociale. Il corpo sociale, infatti, esiste col suo fine e con la sua struttura anteriormente alla organizzazione giuridica positiva.

Orbene; per sapere come deve essere costruito l’organismo costituzionale affinché sia proporzionato a quello sociale, bisogna sapere qual è il fine e quale è la struttura del corpo sociale.

Ed a questo punto la ricerca si complica. Perché non basta osservare l’esperienza storica per sapere qual è la vera struttura della società ed il suo vero fine. La società, anche se fondata nella natura dell’uomo, è tuttavia, in tanta parte, frutto della libertà dell’uomo; da qui scarti e deviazioni di ampia portata. Ci vuole, quindi, un canone, superiore all’esperienza storica, per interpretare tale esperienza: la realtà storica e sociale non può non essere vista attraverso una «lente metafisica» (cioè attraverso un principio teoretico che la illumina): se questa lente è buona, l’interpretazione sarà esatta; se questa lente è cattiva l’interpretazione sarà errata. [...]

La persona trascende la società perché la società, in ultima analisi, è mezzo e l’uomo è fine [...].

La crisi esiste. Quale tipo di costituzione è in crisi? La risposta di cattolici, socialisti e comunisti è identica: è in crisi lo Stato «borghese capitalista»: cioè quel tipo di Stato che ha una costituzione ispirata al principio della libertà individuale quale fu elaborato dalla dottrina illuminista inglese e francese e quale fu trascritto nel contratto sociale di Rousseau e nella costituzione francese del 1791 (e nelle costituzioni analoghe che ne derivarono).

Perché è in crisi? In che cosa consiste la crisi? La risposta per noi è evidente: se c’è – come c’è – una crisi costituzionale vuol dire che la costituzione ha gravemente violato il principio di proporzionalità a cui essa deve obbedire se vuol essere «buona»: vuol dire che c’è disformità fra il fine e la struttura della costituzione ed il fine e la struttura del corpo sociale cui essa si riferisce.

E questa disformità – di cui cattolici, socialisti e comunisti constatano unanimemente le conseguenze gravi – è per i cattolici di palmare evidenza [...].

La risposta è precisa: fine di quella costituzione è la libertà individuale intesa come autonomia assoluta la quale non incontra altro limite fuori di quello che è costituito dall’autonomia e dalla libertà altrui. Una libertà non «orientata» da principi superiori di etica: non ancorata a norme inviolabili di socialità e di giustizia.

Ora un fine così fatto è disforme dal vero fine dell’uomo e della società: perché la libertà umana – alla tutela della quale l’ordine giuridico deve mirare – non consiste in una autonomia assoluta: essa è ancorata ad una legge che è intrinseca all’uomo – legge naturale – e che non deve essere violata.

La libertà vera consiste in una adesione a questa legge naturale, rifrazione nell’uomo della legge eterna: la violazione di tal legge non è esercizio di libertà: è, anzi, carenza e difetto di libertà [...].

Per eliminare, quanto è possibile, tutte le sproporzioni generate dalla costituzione c.d. «liberale-borghese-capitalista» bisogna rivedere alla luce di questo principio associativo tutti i piani dell’edificio sociale, dal famigliare al religioso.

Famiglia, associazione di lavoro, azienda, fattoria, sindacato, comune, associazioni di cultura, Chiesa; tutti organismi sociali nei quali gli uomini si ritrovano uniti per una esigenza di espansione della loro personalità: tali organismi sociali vanno rispecchiati in una costituzione e di essi va tenuto il debito conto per la costruzione delle strutture politiche dello Stato [...].

Che significa, dunque, una costituzione cristianamente ispirata?

Cosa è uno Stato cristianamente ispirato? Ormai la risposta è chiara: questa ispirazione cristiana non consiste nel fatto che lo Stato affermi nell’articolo della sua costituzione di riconoscere la religione cattolica come religione dello Stato. Questa affermazione ci vuole: ma l’ispirazione cristiana della costituzione non dipende essenzialmente da essa. L’ispirazione cristiana dipende essenzialmente da questo fatto: che l’«oggetto» della costituzione, il suo fine, sia la persona umana quale il cattolicesimo la definisce e la mostra.

E dipende di conseguenza dall’altro fatto che tutte le strutture dell’edificio costituzionale siano ordinate a questo fine. Da qui un ordinamento economico, politico, familiare, culturale, religioso e così via conformi alla natura ed alla dignità della persona umana. Solo di una costituzione così fatta si può dire davvero che è cristianamente ispirata: perché l’ispirazione cristiana è incorporata nei suoi istituti, ravviva e finalizza le sue norme, circola nelle sue strutture: in questo caso soltanto l’esplicito riconoscimento della fonte di questa ispirazione verrebbe a costituire il degno coronamento e come la naturale volta dell’edificio costituzionale dello Stato [...].

Solo una costituzione cristianamente ispirata che abbia come fine la persona umana – quale il cristianesimo la rivela – e che ordini a tale fine le sue strutture può ridare stabilità all’edificio dello Stato. Sono questi i punti che hanno formato oggetto di questo «esame di coscienza». La conclusione che se ne trae è la seguente: il problema costituzionale contemporaneo è, anzitutto, un problema «metafisico»; quale è l’uomo che la costituente presuppone, tale è la costituzione che sarà elaborata [...].

Orbene: rifare cristiana la costituzione degli Stati è un’esigenza ineliminabile dell’apostolato cristiano: una civiltà non può dirsi cristiana se le strutture sociali e civili di cui essa consta non siano sottoposte all’azione orientatrice dell’Evangelo.

Questa presenza visibile dell’Evangelo nella vita civile è ciò che viene oggi urgentemente reclamato: perché si tratta di documentare in questo modo la presenza invisibile della grazia di Cristo nel cuore e nella mente degli uomini.