L’escalation militare in Ucraina ci ha portato sulla soglia di un conflitto planetario, con l’uso di ordigni atomici e conseguenze catastrofiche per tutti. Il sabotaggio del gasdotto NordStream nel mare al largo della Danimarca dà la misura del pericolo che si sta correndo e di come sia facile che si allarghino gli effetti di una crisi che nasce da lontano. A partire dalle tensioni nel Donbass, che la comunità internazionale ha finto di ignorare nonostante abbiano causato in otto anni circa tredicimila vittime. È stata semplice ignavia oppure gli Stati Uniti e l’Occidente speravano che in tal modo si indebolisse la Russia? E se c’era timore per una Russia neo-zarista perché l’Europa ha continuato gli affari con Putin e i suoi oligarchi, perché ha affidato quasi in toto il soddisfacimento del fabbisogno energetico al gas russo?
Bisogna dire che per l’energia non c’è una soluzione semplice. Serve una transizione ecologica, il passaggio a nuove fonti e l’implementazione della produzione nazionale. Ma occorre tempo e non mancano le divergenze, a cominciare dal tema del ritorno al nucleare. La problematicità dei paesi fornitori non riguarda solo la Russia. L’Algeria, divenuto il nostro primo fornitore di gas, ha decretato dal primo ottobre la chiusura della Caritas nazionale, che dava aiuto ai migranti dell’Africa sub-sahariana, in gran maggioranza musulmani. Evidentemente non basta un gasdotto per legare una nazione all’Europa e ai suoi valori. Ciò vale anche per la Turchia, che approfitta delle divisioni nella Ue per proporsi come mediatrice e allargare le ambizioni di potenza regionale.
Sarà interessante vedere che ruolo si ritaglierà il nuovo governo italiano, in bilico tra la dichiarata fedeltà all’alleanza atlantica e qualche ricorrente nostalgia del putinismo. Intanto è aperto il dibattito sulla scelta di sostenere una nazione amica invasa da un vicino molto più grande e potente di lei. C’è chi ritiene moralmente inaccettabile l’invio di armamenti e chi sottolinea il diritto sacrosanto alla difesa. C’è poi una terza parte che più cinicamente pensa che dovremmo farci i fatti nostri e ridurre così gli effetti della crisi economica. Dalla discussione non è esente il mondo cattolico, che si presenta diviso alla chiamata a scendere in piazza per prender parte alle manifestazioni pacifiste.
Importante, in ogni caso, è ricordare che la precarietà del quadro internazionale va ben oltre i confini orientali europei. Dove porterà il neonazionalismo della Cina, che ha incoronato Xi Jinping quale nuovo “imperatore”? Taiwan sarà una nuova Ucraina? Intanto Pechino ha allungato la sua ombra sul Myanmar, coprendo il golpe della giunta dei militari, che hanno ributtato in carcere la leader democratica Aung San Suu Kyi.
Rimangono poi gli eterni focolai di tensione dell’Afghanistan, ripiombato nel terrore dei talebani dopo vent’anni di pressocché inutile occupazione occidentale, e del Medio Oriente. L’instabilità di Iraq e Siria ha contagiato anche il Libano, esempio unico di stato multietnico e multireligioso, ma oggi sull’orlo del precipizio. È l’effetto a lunga gittata delle guerre intestine al mondo arabo. Il terrorismo islamista, qui messo alle corde, ha trovato terreno fertile in Africa, come si vede dal Nord del Mozambico al Mali.
Detto questo, vanno colti anche i segnali di speranza. Ne citiamo due. Il primo: nella recente Assemblea delle Nazioni Unite il premier israeliano Lapid ha proposto la soluzione “due popoli, due stati”, che era stata la base per le trattative (purtroppo sempre fallite) coi palestinesi, fin dai tempi di Camp David del 1978. Il secondo segnale, pur drammatico, viene dall’Iran. Le veementi proteste e il sacrificio di tante giovanissime donne contro l’ottuso fondamentalismo religioso degli ayatollah ci fanno comprendere che la libertà non può essere soffocata per sempre.
Scenari geopolitici: tante nubi e qualche luce
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