Incertezza che alimenta tensioni. E viceversa. Difficile comprendere quanto avviene al confine tra Russia e Ucraina, anche in ragione di informazioni insufficienti; impossibile immaginare le prossime mosse di Vladimir Putin; arduo prevedere le (possibili? eventuali?) reazioni di Kiev e dell’Occidente.
Quanto avviene nell’Europa centro-orientale resta un mistero, attraversato solo da qualche certezza.
La prima. La Russia di Putin è un pericolo per tutti. Per la democrazia interna, per gli oppositori al regime, per i cittadini e i media ridotti al silenzio; per la stabilità dell’area; per la sicurezza geopolitica del mondo intero. Inutile utilizzare mezze misure: oggi il presidente russo è il maggior fattore di rischio per la pace in Europa e in Asia, e – dunque – nel mondo.
La seconda certezza: l’Occidente preso nel suo insieme (Unione europea e suoi Stati membri, la Nato, gli Stati Uniti) non è in grado di rispondere con sufficiente fermezza alle intimidazioni, militari e politiche, provenienti da Mosca. Così come non è un fattore di stabilità e pace in Afghanistan, in Siria o in nord Africa… La democrazia, infatti, non si esporta con la forza e la pace non si impone con le armi. Vero, ma così facendo hanno buon gioco i globetrotter dei conflitti: la stessa Russia, la Turchia, oppure la Cina che gioca a Risiko a livello globale.
Un’ulteriore certezza riguarda il fatto che, proprio in questo mondo, attraversato dalla pandemia Covid-19 e segnato da altre vecchie, tragiche pandemie (povertà, migrazioni forzate, diritti umani mortificati, mancanza di istruzione, scontri religiosi, mutamento climatico), non possono venir meno le voci che richiamano il valore assoluto della pace. La quale è precondizione necessaria per lo sviluppo umano, per il consolidamento della democrazia, per relazioni virtuose tra i popoli, per una crescita economica sostenibile.
La Russia di oggi non nasconde una insistente volontà espansionistica – già impunemente realizzata in Crimea nel 2014 –, nella certezza che a qualche patto occorrerà giungere per salvare la faccia di tutti i leader e di tutte le cancellerie sulla scena: da Mosca a Kiev, da Bruxelles (Ue e Nato) a Washington, da Londra, fino a Parigi e Berlino. Roma resta ancora una volta nell’ombra, in relazione al modesto peso internazionale dell’Italia.
Due ultime osservazioni. A Strasburgo in queste ore si ribadisce il totale appoggio dell’Ue all’Ucraina: a parole, con aiuti economici, mediante possibili sanzioni contro la Russia. Benché il timore di restare senza il gas russo faccia tremare i polsi ai governi europei. Ma il vero passo che l’Europa potrebbe fare, sarebbe offrire a Kiev una porta d’ingresso – per quanto dilazionata nel tempo – proprio alla “casa comune”. Con un messaggio insito: l’Ucraina è storia, terra, popolo europei e, per questo, non si tocca. Così come si farebbe in caso di minaccia alla Polonia, ai Baltici o all’Ungheria. E sollecitando al contempo una più decisa presa di posizione degli Usa e della Nato, alla cui adesione l’Ucraina aspira giustamente.
Infine: le truppe russe ammassate attorno al Donbass e a Donetsk mettono in discussione i confini e il prestigio nazionale ucraino, la stabilità politica regionale, il valore della diplomazia rispetto al ricorso alla guerra. Ma, insieme a tutto ciò, negano il valore assoluto della pace e mettono a rischio migliaia e migliaia di vite umane. Come ha ben sintetizzato la Cei nel suo messaggio del 14 febbraio, “non c’è più posto per le armi nella storia”. Ogni iniziativa bellica dev’essere scoraggiata: la parola torni, sempre, alla politica. E al buon senso.