La notte di Natale del 1917, sul campo di battaglia di Verdun, i soldati francesi e quelli tedeschi erano schierati nelle rispettive trincee, in attesa di scannarsi con l’ennesimo assalto alla baionetta. Ma per qualche istante, in quelle ore che introducevano al 25 dicembre, la guerra si fermò e i nemici si riconobbero fratelli. Un cappellano francese si alzò dalla sua postazione e prese a cantare la Minuit, Chrétiens: «Cristiano, è mezzanotte! È l’ora solenne in cui il Dio uomo discende fino a noi... Il mondo intero sussulta di speranza… È Natale, ecco il Redentore!». Dall’altra parte un cappellano tedesco gli fece eco, intonando il cantico nella sua lingua. E man mano tutti, da entrambi i lati del fronte, si misero a cantare e a pregare insieme.
Il Natale ci mostra quel che di solito non riusciamo a vedere: che i conflitti si possono spegnere con la concordia, che più delle armi può il perdono, che il nodo dell’egoismo si scioglie con la gioia della solidarietà. Ecco perché dovremmo sempre avere gli occhi del Natale. Ci apparirebbe un mondo diverso, o meglio, lo inquadreremmo sotto una prospettiva nuova. Troveremmo magari la chiave per misurarci con la povertà, sia materiale che interiore. Basta una mangiatoia per nascere, una stalla per iniziare il grande progetto di salvezza dell’umanità. Tutto va condiviso, anche il mio niente. Abbiamo pensato, ad esempio, ai doni dei Magi? La Sacra Famiglia li portò con sé in Egitto? Se ne servì per pagare l’alloggio durante l’esilio? Li offrì a qualche mendicante incontrato per strada? I Vangeli non ne parlano. Sappiamo, però, che Giuseppe, Maria e Gesù tornarono in Galilea e condussero una vita modesta ma serena, fatta di lavoro, riempita dai semplici gesti quotidiani. Proprio in questa ordinarietà, forse, sta il segreto da cogliere. È nel lungo cammino da Betlemme a Nazareth, inaugurato col Natale, che possiamo trovare motivazioni e forza per l’annuncio della Buona Novella.
Nell’umiltà del Natale c’è la radice della nostra civiltà. Ci si continua a commuovere per la nascita di un bambinello, figlio di una semplice coppia di artigiani. Non è qualcosa di assolutamente sorprendente? Oltre duemila anni dopo! Gli uomini e le donne sentono di avere bisogno di questo miracolo, come l’albero necessità del suo frutto. Nella cura verso il più debole, il più indifeso, il più piccolo (l’immagine del presepe!) trova senso il vivere civile e si forma il bene comune. Per questo suscita un sorriso amaro la circolare europea che raccomanda di evitare gli auguri di “Buon Natale”, sostituendoli con un generico “Buone feste”. Non si tiene conto che la celebrazione del Dio-bambino è un’offerta gratuita di misericordia. Un dono, non una minaccia. Se il Natale fosse stato concepito come un’imposizione, Dio avrebbe preso le sembianze di Erode. E invece eccolo incarnarsi nel figlio di un falegname e di una ragazza di provincia, persone qualunque, alle prese con problemi più grandi di loro.
In Pilota di guerra, Antoine de Saint-Exupéry raccontò dei giovani piloti del suo gruppo di ricognizione aerea, che partivano volontari in missioni pericolosissime per contrastare l’avanzata dei nazisti. Perché accettavano di mettere in gioco la propria vita? Per salvare un certo gusto delle feste di Natale: il salvataggio di quel sapore sembrava giustificare il sacrificio estremo. «Se noi fossimo stati il Natale del mondo, il mondo si sarebbe salvato attraverso di noi». È il piano divino a cui ognuno può partecipare.