Il grido dei poveri e il grido della terra

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Il testo è tratto da un articolo pubblicato sul numero 1/2021 di Dialoghi

«Una variegata delegazione francese è stata ricevuta in udienza dal vescovo di Roma il 3 settembre 2020. Il gruppo, costituito da eminenti personalità del mondo economico, culturale e artistico, era guidato dal presidente della Conferenza episcopale francese, monsignor Éric de Moulins-Beaufort. Un gruppo composito, eppure motivato dalla stessa passione per il futuro del pianeta. La sfida ecologica, la sua urgenza, la sua gravità, ci impongono ora di adottare un approccio trasversale, perché l’ecologia non può essere il territorio o la fazione di Paolo o di Apollo (1Cor 1,11- 13), né di un gruppo, anche se composto da militanti eroici, né di una formazione  politica isolata, ma deve diventare la preoccupazione e l’ispirazione di ciascuno di noi. E su questo cammino i cristiani, tra gli altri, hanno la loro voce in capitolo.

[…] Quando si considera la Terra come proprietà privata, il passo successivo è di ritenersi autorizzati a distruggerla. E prima o poi si finirà per considerare anche il prossimo come proprietà privata. Un secolo e mezzo dopo l’abolizione della schiavitù, l’uberizzazione del mercato del lavoro ci riporta indietro nel tempo, sostituendo le  relazioni salariali regolate da un secolo di lotte sociali con la solitudine degli autoimprenditori on line condannati alla povertà. Ma se si rompe la motosega (per fare un esempio caro al compianto David Graeber), se ne può sempre avere un’altra, non è così per la Terra: non abbiamo un secondo pianeta. Questa unicità della Terra su  cui viviamo rinvia a un’altra unicità, quella della mia vita e della vostra. È qui, al crocevia di queste due unicità, che la tradizione spirituale cristiana può intervenire nei dibattiti sulla questione ecologica. Ho una sola vita, insostituibile, e nessuno può viverla al mio posto; abbiamo un solo pianeta, non sostituibile, e nessuno può assumere il rapporto che abbiamo con esso al nostro posto. Mi sembra che sia stata l’acuta consapevolezza della natura infinitamente preziosa di queste due singolarità il lievito dell’amicizia nella nostra piccola delegazione francese. Se non siamo capaci, collettivamente, di prenderci cura della singolarità di ciascuna delle nostre  esistenze, come ci prenderemo cura del pianeta e viceversa?

[…] Su questo “fondamento”, la cui forza si è rivelata a poco a poco durante il nostro viaggio, siamo andati a “chiacchierare” con il Papa. Francesco aveva preparato per noi un discorso che, alla fine... non ha letto. Quel testo, tuttavia, merita di essere meditato, che si sia cristiani o meno, allo stesso modo dell’enciclica Laudato si’.  Ricordo in particolare questa frase: “Sono la stessa indifferenza, lo stesso egoismo, la stessa cupidigia, lo stesso orgoglio, la stessa pretesa di essere il padrone e il despota del mondo che portano gli esseri umani, da una parte, a distruggere le specie e saccheggiare le risorse naturali, dall’altra, a sfruttare la miseria, abusare del  lavoro delle donne e dei bambini, rovesciare le leggi della cellula familiare, non rispettare più il diritto alla vita umana dal concepimento fino al termine naturale”. La novità del discorso preparato da Francesco per la nostra delegazione è nel parallelo tra sfruttamento della terra e sfruttamento del lavoro femminile, che non si trovava in Laudato si’. In un paese come la Francia, dove un’indagine Ifop ci dice che una donna su dieci è violentata e un’altra muore ogni tre giorni, vittima del proprio partner, nello stesso paese dove, in media, le donne oggi sono più qualificate degli uomini, anche questo confronto dev’essere considerato. Credo sia in linea con l’intuizione  che sta alla base del testo di Francesco il profondo legame che Derrida rileva tra 1) il nostro attaccamento al consumo di carne e quindi il nostro violento trionfo in cima alla gerarchia trofica dei predatori; 2) il machismo che continua a imperversare anche in Francia; 3) il disprezzo occidentale per tutto ciò che non fa parte della  razionalità greca del Lógos e che sfocia rapidamente nel razzismo.

La ricostruzione ecologica della nostra società richiede la rinuncia a queste tre forme di hybris, accomunate da un rapporto violento con l’alterità. È da questa antropologia che, nel discorso improvvisato con noi, Francesco ci ha invitato a staccarci. Come? Incitandoci ad ascoltare le popolazioni indigene, quelle condannate a morte  dal fascismo ambientale e sociale di Jair Bolsonaro e dall’indifferenza della comunità internazionale, nel fatto stesso di abbandonare l’Amazzonia. Gli indiani delle foreste amazzoniche, dice Francesco, possono insegnarci ciò che nessun software di intelligenza artificiale sarà mai in grado di fare: la saggezza che mette in moto la  testa, il cuore e le mani, e che permette di essere toccati dalla tenerezza. Quale capo di Stato osa oggi fare l’apologia della tenerezza? La tenerezza non ha nulla a che fare con le svenevolezze adolescenziali: è il punto estremo del coraggio perché consiste, al contrario, nel lasciarsi toccare dalla gioia e dall’angoscia degli altri. Ed è  sempre politica.

Nessun dialogo, nessun compromesso politico, nessun contratto sociale, nessuna repubblica possono essere costruiti senza consentire al rischio di un universale che non si raggiunge con l’astrazione, ma con l’accettazione molto concreta di essere toccati e coinvolti hic et nunc. Il resto si riduce a una giustapposizione di monologhi  in cui non ci si ascolta, come accade troppo spesso nelle interminabili tavole rotonde che fungono da forum politico. E quando la razionalità strategica non riesce a convergere verso compromessi win-win, la «legge del più forte» riprende subito il sopravvento: in Francia lo testimoniano le mani strappate e i volti sfigurati dei nostri  gilets jaune. 
[…] Sarà molto difficile per noi oggi reinventare il contratto sociale ed ecologico senza passare in qualche modo attraverso questa esperienza di decentramento. Una fraternità che comprende sia lo straniero e la donna che il Frate Lupo di Francesco d’Assisi».