Il Natale che non c'è

di 

In un'atmosfera culturale che sponsorizza una vaga religiosità naturale e opta per una divinità senza volto, malleabile alle ragioni dei mercanti, il Natale ci fa contemplare il Dio che si fa carne 

Da tempo, ormai, le strategie di marketing sono cambiate: dopo una concentrazione ossessiva sulle qualità – spesso indifendibili – di un prodotto, si è capito che è più facile vendere sogni che cose. È cominciata così una operazione commerciale in grande stile, che ha messo le mani anche sull’immaginario collettivo del Natale, trasformandolo da una festa in una nuvola, che avvolge gli ultimi due mesi dell’anno dispensando astutamente sensazioni impalpabili e spinte gentili al consumo, magari accompagnate da subliminali sensi di colpa per i più recalcitranti. Per vendere bene il Natale, basta trasformarlo in un’atmosfera. La razionalità calcolante gestisce meglio dietro le quinte i suoi giganteschi volumi di affari, generando un mondo artificiale, più entusiasmante e meno prosaico di quello vero. Nell’epoca del disincanto non è male reincantare alcune isole emozionali, fatte di spazi e di tempi sospesi, capaci di rianimare un immaginario simbolico ormai prosciugato.
 
Resistere a questa Opa ostile lanciata dal mercato sul Natale, e prima ancora sul tempo liturgico dell’Avvento, è comunque difficile, ma diventa un’impresa disperata se la stessa comunità cristiana è la prima a svendere il mistero inaudito dell’Incarnazione, di cui deve essere custode responsabile e testimone generosa. Una complicità involontaria che non è nuova nella storia del cristianesimo: si è già manifestata nel cuore nella modernità, tra Seicento e Settecento, con una riformulazione deista della Rivelazione. Alla fede in un Dio personale e trascendente, che si rivela e interviene nella storia, il deismo preferisce un vago senso di religiosità naturale, sfrondata da apparati dogmatici e alleggerita in forme di culto ridotte a banali simbolismi estetici. In un orizzonte religioso liberato da verità di fede imperscrutabili, la ragione tende a occupare tutto lo spazio della Grazia: la felicità che Dio ci avrebbe destinato è interamente presa in carico da sentimenti naturali, gli unici capaci di dispensare brividi gratificanti.
 
Mimetizzandosi negli interstizi di un pervasivo utilitarismo, la religiosità deista è accolta senza problemi nel salotto buono del pensiero unico: non attacca frontalmente la cultura dominante, sorvola sullo scandalo del male, non disturba con invocazioni assillanti a una salvezza trascendente, non attende con ansia alcun giudizio escatologico oltre la storia. Ma la contraffazione più insidiosa del Cristianesimo è quella più familiare e che si mimetizza meglio: il deismo promette di addomesticare lo spirituale, trasformandolo in un principio cosmico di armonia, con il quale sintonizzarsi è solo questione di feeling. Questo spiritualismo volatile e inconsistente colpisce al cuore il mistero cristiano dell’Incarnazione: semplicemente non riesce più a credere che nella carne di quel Bambino – anche se venuto alla luce come milioni di neonati, respinti da tutti e partoriti tra lacrime e sangue – Dio in persona si è fatto davvero un uomo in carne ed ossa, e da allora niente è più come prima.
 
Mentre il capitalismo globalizzato sta nebulizzando il Natale in una nuvola di borotalco, non è il caso di corrergli incontro festeggiando una natività disincarnata. Il politicamente corretto non ha mai salvato nessuno. Senza dimenticare che storicamente il deismo è stata sempre una parentesi seducente ed effimera, che ha spesso spianato la strada alle forme peggiori del materialismo più ottuso.
 
Buon Natale