Nel Discorso inaugurale della Seconda Conferenza UNESCO, tenuta a Città del Messico il 6 novembre 1947, Jacques Maritain tracciava una linea di sviluppo in vista della costruzione di un’età duratura di pace, contro “la fatalità della guerra”, il “suicidio collettivo” e gli orrori della Seconda guerra mondiale. In quei pensieri, ritroviamo una visione ampia e profetica, non separata dalla cognizione storico-politica, né dal peso dei problemi internazionali. Veniva indicato un percorso realistico di comprensione del pacifismo che potremmo riprendere per collegarci ai tragici fatti bellici che stanno attraversando l’Europa.
In quel discorso si ponevano alcune fondamentali condizioni per cooperare in vista della stabilità mondiale. Maritain parlava dell’importanza di organismi sovranazionali dei popoli, senza i quali ogni tentativo di pace sembrava impossibile. Tali organismi avrebbero dovuto svolgere il loro ruolo non solo nei momenti di crisi, ma soprattutto lavorando in modo progettuale per disinnescare le tensioni e le forze negative che conducono alla guerra. Addirittura pensava a una comunità sovra-nazionale fondata non sui trattati, basati sull’autorità degli Stati, ma su una sorta di Costituzione del mondo. Nonostante la forza utopica di queste intenzioni e il cammino fatto negli ultimi settant’anni, purtroppo vale ancora la tesi che “lo spirito è sempre in ritardo sulla materia e sugli eventi”. Siamo tragicamente in ritardo, interessi economici, militari ed identitari superano i pensieri di pace.
La realpolitik delle nazioni non pare interessata a comprendere fino in fondo la pazzia dei conflitti bellici. La guerra, lo sappiamo, lede nel profondo la dignità degli uomini, ne sfigura il volto, porta distruzione, morte e miseria, ipoteca il futuro delle nuove generazioni. Ci ha ricordato Papa Francesco che “la guerra non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. […]. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia” (Angelus, 27 marzo).
In quest’ora terribile della storia europea, bisogna che i tavoli diplomatici si attivino con più vigore e decisione e che l’intermediazione trovi le giuste modalità affinché l’ordine e i principi basilari del diritto internazionale vengano recuperati. Si trovi un accordo che metta fine al conflitto e all’inutile tragedia umana. Nello stesso tempo servono azioni umanitarie e di sostegno nei confronti del popolo ucraino in gravissima difficoltà.
Avere pensieri di pace significa adoperarsi per una configurazione del futuro dei popoli, non semplicemente confermare lo status quo internazionale, oltre il neutralismo accomodante, oltre la logica primordiale del più forte. La preoccupazione per una catastrofe planetaria dovrebbe spingerci senza alcuna esitazione verso una comprensione differente degli eventi. L’Europa sembra politicamente schiacciata, forse perché non ha ancora la statura per svolgere il ruolo a cui la tradizione la chiama, ponendosi come interlocutore autorevole in vista della pace. “Bisogna ad ogni costo salvare la speranza degli uomini in un ideale temporale, un ideale dinamico di pace sulla terra, nonostante sembri utopistico in partenza” (Maritain, Discorso, UNESCO 1966). Si tratta di un orizzonte che, in nome di un realismo dell’impegno e del prudente uso della forza, comporta sia il rifiuto del bellicismo, e le connesse logiche di riarmo che sembrano attraversare oggi lo spirito europeo, sia un astratto pacifismo dell’equidistanza che facilmente può trasformarsi in alienazione dal contesto. Questo momento è segnato da una tremenda alternativa che non avremmo mai voluto rievocare: costruire la pace attraverso la giustizia e il dialogo o rischiare la “distruzione totale”.