Il viaggio di Francesco in Iraq

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Se Francesco avesse dato retta ai saggi che misurano ogni cosa con il metro del “buon senso” non sarebbe mai partito alla volta dell’Iraq. E il mondo avrebbe perso l’occasione per vedere che il bene, alla fine, ha la meglio sul male. Sì, perché questa grande nazione, culla delle più antiche civiltà, è divenuta suo malgrado il simbolo dell’odio, del terrorismo, della barbarie. Le due guerre del Golfo se hanno spazzato via il dittatore Saddam, hanno anche rotto tutti i fragili equilibri su cui si basava la convivenza tra gli iracheni. Il fondo è stato toccato con la nascita del sedicente Stato islamico, che ha provocato tante macerie, materiali e morali. I suoi propagandisti promettevano che l’Isis avrebbe piantato la bandiera nera in cima alla cupola di San Pietro. Invece, è stato il successore del primo tra gli apostoli a far volare la colomba della pace a Mosul, che è stata per tre anni – dal 2014 al 2017 – la capitale dell’autoproclamato “califfato”.
Il papa si è presentato in umiltà: «Vengo come penitente che chiede perdono al Cielo e ai fratelli per tante distruzioni e crudeltà, come pellegrino di pace, in nome di Cristo, Principe della Pace». Nessuno può considerarsi migliore dell’altro. Questa è la prospettiva da cui parte Francesco. E forse è proprio ciò che gli ha permesso di vincere la scommessa irachena. I tre giorni intensi che ha trascorso in Iraq segnano una svolta positiva, e si spera determinante, per l’intera regione. Francesco ha condannato ogni forma di violenza, specie quella che si basa su motivazioni religiose. È blasfemo pensare che si possa odiare in nome di Dio. Ma soprattutto da Bergoglio è venuto l’invito a guardare avanti, a usare la medicina del perdono. Adesso è il momento di ricostruire e di ricominciare, ha detto. Le differenze, anche fra credenti, anziché generare conflitti devono creare armonia. Di qui il richiamo al rispetto per le minoranze. Per i cristiani, certo, ma anche per gli yazidi, citati per primi nel discorso alle autorità.
C’è una strategia del dialogo da contrapporre alla logica dei conflitti: è la fratellanza universale, cammino iniziato ad Abu Dhabi nel febbraio di due anni fa, con la solenne firma del documento insieme ai sunniti. In Iraq Francesco ha allargato il cerchio, facendo breccia nel mondo sciita. A Najaf, ha incontrato l’ayatollah al-Sistani, figura chiave, esponente della corrente quietista dello sciismo, che riconosce differenti competenze tra politico e religione. Un moderato che potrebbe rivelarsi decisivo per il dialogo interreligioso e anche tra i musulmani.
Quello del papa è stato e un ritorno alle radici della fede e dell’umanità, una sorta di viaggio a ritroso nella storia. A Ur del Caldei, patria di Abramo (prototipo dell’uomo “in uscita” tanto caro a Bergoglio), si è svolta la preghiera comune con le varie componenti islamiche presenti in Iraq. Il primo ministro Al-Kadhimi ha proclamato il 6 marzo – data dell’evento – giorno della tolleranza e della convivenza nazionale.
Il momento più commovente è stato quello della preghiera di Fracesco tra le macerie di Mosul, che era divenuta suo malgrado “capitale” dell’Isis. Il papa ha cancellato lo stigma, come fece Giona a Ninive, città antenata di Mosul. Anche Francesco, però, come il profeta dell’antico testamento, ha chiesto la conversione dei cuori: «Se Dio è il Dio della vita – e lo è –, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome».
La messa finale allo stadio di Erbil, davanti a migliaia di fedeli euforici, è stata una festa che nessuno avrebbe immaginato alla vigilia. Dopo tanto buio l’Iraq ha assaporato il gusto della serenità e della gioia.