La dimensione performativa della parole, nell’oggi

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Il brano seguente è tratto da un articolo apparso sul numero 2/2019 di Dialoghi

Riflettere sulla dimensione performativa della parola implica necessariamente prendere in considerazione le profonde trasformazioni che i meccanismi della comunicazione stanno attraversando nella società del presente, tali da alterare profondamente le coordinate tradizionali in cui siamo abituati a collocare l’idea stessa dell’interazione tra i soggetti, individuali o collettivi, mediata dall’atto linguistico. Anche per questo aspetto, ritengo si possa parlare di «cambiamento d’epoca», non solo di «epoca di cambiamento», per riprendere la felice espressione di papa Francesco. All’origine stessa della tradizione occidentale di cui viviamo ancora l’eredità e al tempo stesso il suo consumarsi si colloca la duplice funzione assegnata alla parola pronunciata: da un lato, la funzione fondativa della società e della convivenza umana; dall’altro, l’efficacia nell’intervenire sulla realtà per modificarla. Nella riflessione filosofica greca, in specie stoica, l’atto di nascita dell’umanità distinta dalle altre forme di vita animata si caratterizza per l’intuizione e l’azione di un mitico progenitore, che per primo riesce a indirizzare, grazie all’invenzione del linguaggio condiviso, la vita del gruppo, che da quel momento cessa di essere branco e diviene comunità, in quanto capace di condividere non solo pensieri, ma anche emozioni ad un livello di articolazione superiore. È la Bibbia, invece, a porre in primo piano l’efficacia pragmatica della parola, assegnando nelle prime frasi della Genesi alla voce del comando di Dio la capacità di ordinare il caos, a differenza delle altre cosmogenesi mitiche del vicino Oriente che vedevano nell’incerto esito di un inevitabile conflitto la sola condizione possibile per generare o ristabilire l’ordine mondano e cosmico.

[…] A cavallo di queste due dimensioni si colloca l’ampio spazio assegnato nel corso della storia occidentale alla funzione psicagogica della parola, che ha trovato nella teoria retorica e nella pratica dell’eloquenza la sua massima espressione. La contemporanea manipolazione della dimensione razionale e di quella emotiva attraverso l’uso della comunicazione verbale ha rappresentato per lungo tempo una delle risorse principali, accanto all’uso della legge e della forza, per la gestione e la conservazione del potere politico, sociale e religioso. […] Già alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso Joseph Schumpeter osservava, in relazione ai comportamenti in ambito economico: «Anche nelle circostanze più banali della vita quotidiana, i consumatori non rispondono all’immagine che i testi di economia solevano darne [cioè di soggetti che agiscono su basi esclusivamente razionali per massimizzare il proprio vantaggio]. Da un lato, i loro bisogni sono tutt’altro che definiti, e le azioni che ne derivano tutt’altro che pronte e razionali; dall’altro, sono talmente esposti all’influenza della pubblicità e di altri metodi di convinzione, che spesso i produttori sembrano dettar loro legge invece di lasciarsene dirigere. Più di un argomento razionale contano un’affermazione più volte ripetuta o l’appello diretto al subconscio nella forma di tentativi di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli di natura completamente extra-razionale».

[…] Schumpeter sembra inconsapevolmente anticipare l’esito contemporaneo di questo processo, quando afferma che la percezione, piacevole o sgradevole, prevale sulla realtà dei fenomeni razionalmente argomentata o addirittura numericamente dimostrabile. È questo probabilmente il punto più delicato che coinvolge le potenzialità performative della parola, in quanto non più soltanto manipolatrice della realtà, bensì anche creatrice di una sua rappresentazione alternativa che esiste e si nutre esclusivamente nei circuiti della comunicazione amplificata dall’iterazione del messaggio. […]

Al carattere ordinatorio della parola creatrice e legislatrice si è sempre fecondamente contrapposta la dimensione dialogica della parola che genera socialità e comunione, non solo comunicazione, dal progenitore mitico degli stoici al predicatore ecclesiastico tardoantico e medievale che nell’atto pubblico del sermone, liturgico o paraliturgico, piegava i suoi ascoltatori non alla iterazione e all’amplificazione del messaggio, bensì alla sua appropriazione per generare scelte consapevoli. Nella tradizione ecclesiale razionalità ed emozione, insegnamento e pathos si sono sempre uniti nella parola predicata, per una psicagogia consapevolmente assunta e vissuta tanto da chi proferiva la parola, quanto da chi la riceveva. In questo senso, ricreare parole e ambiti di comunione reale e non solo virtuale è la sfida che si pone oggi a chi ritiene che la reale efficacia performativa della parola non consista nella sua mera ripetizione, bensì nella sua consapevole appropriazione e condivisione. Indubbiamente gli strumenti per raggiungere un simile risultato sono profondamente mutati, ma riscoprire le infinite dimensioni e sfumature della parola nella sua complessità e vitalità, scritta o orale, al di fuori dei format in cui è ora codificata e ristretta, può essere un primo passo per riappropriarsi della sua dimensione originariamente fondativa della convivenza umana. Un’ambizione che si deve necessariamente misurare sulla scala di spazi ridotti, quasi minimali, rispetto ai grandi flussi comunicativi che sono ora veicolati e manipolati dai nuovi media, risultando così perdente almeno di primo acchito. In questo, però, vale la parola e la promessa di chi ha detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).