La guerra delle informazioni: che fare?

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È successo con la pandemia. Ed è successo con la guerra in Ucraina. All’inizio, disorientati e impauriti, ci siamo fiondati nei programmi televisivi come nei siti web dei giornali, nei canali di Telegram come nei profili di persone che si proclamavano esperte a caccia di notizie, per cercare di capire.

Il risultato, durante la pandemia come ora, è stato lo stesso: le nostre vite sono state sommerse da milioni di contenuti. Secondo uno studio di Story Lab, nel solo primo mese di guerra in Ucraina sono stati pubblicati 8.67 milioni di contenuti sul tema da parte di 401.500 soggetti.

Più i giorni passavano e più siamo stati colpiti da una sorta di rifiuto. C’è chi ha iniziato a fare finta che la guerra non esista, chi ha cominciato ad avere seri dubbi sulle ragioni (e i torti) degli uni o degli altri, chi ha iniziato a sfogarsi sui social. Se prima eravamo tutti virologi, stavolta ci siamo scoperti tutti (o quasi) esperti di geopolitica e di strategie militari. E più i contenuti aumentavano, e più i commenti aumentavano e più aumentava la disinformazione. Col risultato di generare nella maggior parte di noi una discreta confusione che ha portato alcuni ad avere dubbi su tutto. Persino sui reportage e sui video dalle zone di guerra.

Ancora una volta, abbiamo scoperto sulla nostra pelle quanto sia facile creare fake news. Se per noi in Occidente il problema principale è quello di una sovra produzione di notizie (la chiamano infodemia), chi abita in Russia vive il problema opposto: il governo di Putin ha silenziato i social stranieri come Twitter, Facebook e Instagram e dalla televisione (che continua a restare il principale mezzo di informazione delle persone) è sparita la parola guerra. Così, la maggior parte dei russi non sa ancora oggi che è in atto da oltre 60 giorni un conflitto con migliaia di morti da entrambe le parti, non conosce le sconfitte dell’esercito russo e - grazie a dei filmati con i cittadini in coda davanti ai supermercati, girati quando eravamo in lockdown - crede che la Russia con le sue sanzioni abbia messo in ginocchio l’Europa.

La colpa non è dei russi che credono a queste bugie. Tutto questo accade perché nessun essere umano si salva da quelli che gli scienziati chiamano i bias cognitivi.  

Per dirla in modo semplice, sono dei malfunzionamenti cerebrali con i quali il nostro cervello (quello di nessuno escluso) distorce la realtà. Ognuno di noi, per esempio, tende a dare grandissima importanza a ogni informazione che conferma un nostro pregiudizio e a non vedere qualunque informazione lo metta in crisi. Così ci chiudiamo nelle nostre bolle. Decidiamo aprioristicamente chi ha ragione e chi ha torto, se perseguire con ogni mezzo la pace sia un’utopia o l’unica azione sensata possibile e ci convinciamo di essere gli unici che hanno capito davvero come stanno le cose e quindi che tutti quelli che non la pensano come noi sono nel torto. 

Pensiamo anche che dovrebbe esserci un sistema in grado di fare pulizia di tutto ciò che non ci piace, di quelle che definiamo fake news anche quando non lo sono e ovviamente di tutti i pareri con i quali non siamo d’accordo.

Sarebbe bellissimo un mondo senza fake news. E magari un giorno lo avremo. Nel frattempo dobbiamo fare i conti col fatto che la prima fake news risale a quasi 1000 anni fa e che da allora ne sono state create tantissime. Solo che prima ci fidavamo dei giornali e dei programmi televisivi che sceglievamo, mentre oggi la fiducia nei media è sempre più bassa. Secondo qualcuno sono i giornali e giornalisti ad essere peggiorati, secondo altri invece è peggiorata la nostra dieta mediatica. Avendo a disposizione migliaia e migliaia di fonti alle quali attingere finiamo o col credere a tutto o (più spesso) a non credere più a niente o alle tesi più assurde.

C’è un modo per salvarsi da tutto questo? Sì, ma per onestà devo dirvi che è molto faticoso. Per prima cosa non dobbiamo intossicarci di informazioni ma scegliere poche e significative fonti alle quali informarci. E poi dobbiamo fare forza su di noi per combattere i nostri bias cognitivi, ascoltando anche chi ha idee che non collimano con i nostri pregiudizi e fuggendo da quell’emotività tipica dei social dove tutto si deve risolvere per forza in fretta, dove ognuno ha una soluzione semplice a problemi complessissimi e dove tutto è sempre più spesso emotività e non ragionamento.