L'eterno confine tra verità e tecnica

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Il testo seguente è tratto da un articolo più ampio pubblicato su Dialoghi 4/2018 

Max Scheler, nella sua Prefazione all’opera antropologica più importante del suo percorso speculativo, rilevava, con una certa soddisfazione, che il dibattito sui temi antropologici cominciava ad occupare uno spazio di tutto rispetto nella Germania degli anni Trenta. Eppure, nonostante una temperie di studi e di ricerche provenienti dai diversi ambiti: biologico, medico, psicologico e sociologico, la definizione dell’essere umano rimaneva qualcosa di profondamente ambigua ed enigmatica. Da qui nasce, nel filosofo tedesco, il desiderio di approfondire e inaugurare una visione dell’uomo, in grado di offrire uno sguardo unitario e coerente, nel quale possano saldarsi, in una armoniosa prospettiva, tanto la ricerca proveniente dalla dimensione spirituale, quanto un approccio capace di valorizzare differenze e peculiarità dell’umano, non solo sul piano speculativo, ma anche biologico e comportamentale.
 
L’incertezza nel pervenire ad una definizione unitaria di uomo, che metta d’accordo le istanze della metafisica classica con quelle della ricerca biologica, apre anche un altro versante dell’indagine, a partire dal quale Scheler si preoccupa di precisare, muovendo essenzialmente dalle caratteristiche anatomiche dell’essere umano, la funzione esercitata dal cervello. In questa analisi sull’essenza dell’uomo, Scheler ha rivolto uno sguardo critico e provocatorio proprio nei confronti della pretesa autonomia della scienza naturale, la quale pecca di una sostanziale indifferenza verso la dimensione spirituale, che pure ha costituito e costituisce un punto insuperabile per tutto l’orientamento riflessivo di carattere antropologico. Nel cercare di delineare i tratti caratterizzanti il formarsi dell’uomo in vista della piena realizzazione di sé, del suo essere e del conoscere, Scheler ci invita a considerare la polarità umana, infatti «l’uomo, come essere vitale, è certamente un vicolo cieco della natura, la sua fine e la sua suprema concentrazione, ma, come possibile essenza spirituale, come possibile automanifestazione dello spirito divino, come che, nel compiere l’atto spirituale del fondamento del mondo, può deificare se stessa, non è affatto un vicolo cieco: è, anzi, la via d’uscita luminosa ed eccellente da questo vicolo cieco [...]. L’uomo è quindi insieme due cose: un vicolo cieco e una via d’uscita!», scrive il filosofo tedesco.
 
Ora, pensare l’uomo come una realtà con i suoi meccanismi ripetibili e quantificabili, significa ridurlo ad una cosa, fermarsi alla superficie del suo essere, vedere nell’uomo poco più che un fantoccio ridicolo che si trova, in alcune circostanze, di fronte alla propria incapacità di risollevarsi. […] Le nostre vite, per dirlo con le parole di Henri Bergson, sono un che di unico e irripetibile che sfuggono a qualsivoglia criterio di quantificazione. La vita osserva il filosofo francese «si presenta a noi come una evoluzione nel tempo e come una complicazione nello spazio. Considerata nel tempo, essa è il progresso continuo d’un essere che invecchia sempre: cioè a dire che essa non ritorna mai indietro e non si ripete mai. Guardata nello spazio, essa ci mostra elementi coesistenti così intimamente uniti fra loro, così esclusivamente fatti gli uni per gli altri che nessuno di essi potrebbe appartenere nello stesso tempo a due organismi diversi: ciascun essere vivente è un sistema chiuso di fenomeni, incapace di interferire con altri sistemi». Uniche e in continuo divenire, le nostre vite sono irripetibili e in trasformazione e, proprio per questo, non sono programmabili e sfuggono, in condizioni normali, ai meccanismi di manipolazione. 
 
Ma l’astuzia della tecnica, della quale parla un altro filosofo tedesco, Arnold Gehlen, rivela, in maniera sempre più pressante, il suo carattere seduttivo dal momento che riesce nel suo intento di attrarre verso sé milioni di esseri umani che vivono costantemente connessi ad una rete di rapporti virtuali, ma spesso disconnessi rispetto alle loro stesse vite reali. Edgar Morin ha ben interpretato questo rischio, nella misura in cui avverte che «gli umani sono sempre di più al servizio dello sviluppo tecnico, più di quanto questo non sia al servizio degli umani», insomma rischiamo un po’ tutti di trasformarci in una sorta di burattini inermi, che si illudono di essere liberi, ma che, in realtà, sono diretti da fili invisibili e invadenti che ci rendono sempre più dipendenti da un materiale inorganico, non del tutto neutrale, ma programmato e funzionale ad un sistema di interessi economici, che ci sovrasta tutti. Ci verrebbe da chiedere in cosa è consistito il guadagno prodotto dalla modernità che, liberandosi da quello che considerava un peso opprimente, Dio, ha condotto noi esseri umani ad essere intrappolati nelle maglie di una rete di circuiti e di interessi economici che, ad arte, si dispiegano nello spazio virtuale e che ci rendono sempre più dipendenti e incapaci di percepire e riconoscere l’unicità, l’irripetibilità e insostituibilità dell’innocenza di uno sguardo bambino che ci interpella nell’evento inaugurale di una nascita recante in sé l’impronta di un mistero che si rivela e ci chiede di essere accolto, accudito, ascoltato, amato? Ci rendiamo conto di non poter offrire risposte, ma non vogliamo rinunciare a porre domande, affinché continui a sgorgare, come auspicava lo stesso Scheler, «quel fiume vivo di fede e di amore che scorre misteriosamente nella chiesa cristiana, in un mondo che ha bisogno di questa fede e di questo amore».