di
Il testo seguente è tratto da un articolo del volume 1/2015 della rivista “Dialoghi”
L’uomo è morto, ma non è tempo di tristezza, né di funerali. Come la metamorfosi del bruco dischiude la possibilità al volo della farfalla, così il congedo dall’umano apre all’evento affascinante e grandioso del postumano. Le tribolazioni del tempo presente, con le sue promesse e le sue angosce, sono dunque espressione di un travaglio verso il meglio; una stagione potenzialmente rischiosa, come tutte le fasi di passaggio, ma più ancora una sfida affascinante che richiede d’essere affrontata con speranza e ottimismo. Questo, in estrema sintesi, è il credo del movimento postumanista; un arcipelago variegato di sigle e di autori accomunati dalla fiducia nel valore emancipatorio della tecnica e nella possibilità, grazie ad essa, di poter superare i limiti della condizione umana, per incamminarsi verso una stagione nuova, nella quale la libertà, l’intelligenza e la creatività potranno dispiegarsi illimitatamente.
[…] Oggi il panorama scientifico-culturale è caratterizzato da un marcato naturalismo filosofico, termine, quest’ultimo, che rimanda all’idea secondo la quale non esista null’altro che non sia riconducibile alla natura fisica, con le sue forze e le sue leggi. Tale persuasione di fondo impatta sul modo con cui l’uomo pensa se stesso: non tanto, come ovvio, perché lo considera parte di quella natura in cui è immerso, ma perché lo riduce a null’altro che natura. Da questo punto di vista, infatti, reale è solo ciò che è riconducibile alla dimensione empirica e descrivibile attraverso le scienze della natura. Tutto il resto, tutto ciò che rivendica un’esistenza sovra-naturale – un tempo avremmo detto trascendente – è, per definizione, irreale. Pertanto, tutto ciò che, almeno in linea di principio, non è riconducibile (riducibile) alla dimensione fisica dovrebbe venir bandito dal novero delle cose reali. E questo è certamente un credo assai diffuso oggigiorno. […] Ad essere eliminate dal linguaggio scientificamente fondato sarebbero nozioni quali «anima», «coscienza», «spirito» e, finanche, «persona». Tirando le fila di queste prime considerazioni possiamo dunque rilevare come la filosofia naturalistica sia, in radice, una filosofia materialistica (nella misura in cui considera reale solo ciò che è misurabile e quantificabile), monistica (poiché non accetta che vi sia una dimensione spirituale radicalmente “altra” rispetto alla dimensione empirica) e tendenzialmente meccanicistica (in quanto ritiene che ogni fatto d’esperienza debba essere ricondotto all’azione delle sue cause antecedenti). Poiché l’evoluzione continua delle forme rappresenta la legge fondamentale dei viventi, anche l’uomo non può fare eccezione e il suo essere natura si traduce nel suo essere in costante divenire. Quando si parla di «morte dell’uomo», in fondo, si intende proprio questo: la fine di una concezione statica dell’umano, secondo la quale ciò che noi chiamiamo «uomo» sarebbe qualcosa di essenzialmente immutabile.
[…] Dopo esserci posti oltre l’uomo, la seconda coordinata del nostro ragionamento ci conduce ora oltre l’umanesimo, ovvero al di là di un certo modo di considerare il rapporto con la dimensione valoriale e politica. L’uomo è cultura, oltre che natura, e sotto questo secondo profilo, secondo i fautori della prospettiva postumanistica, l’umanesimo esprime il corrispettivo culturale di quanto l’uomo rappresenta sotto il profilo naturalistico: una indebita fissazione di ciò che, in verità, è mutevole e cangiante; un irrigidimento del medesimo che nega e impoverisce la ricchezza delle differenze. Da questo punto di vista, l’umanesimo prima e l’illuminismo poi esprimono l’imporsi di un universale astratto sul particolare reale; la dittatura dell’identico sulla varietà vitale dei molteplici. Un atteggiamento che, secondo la filosofa Rosi Braidotti, in politica si traduce nel comportamento violento e intollerante che ispira le ambizioni di quanti, con la forza, impongono i propri criteri e le proprie norme. […] Siamo di fronte a una richiesta di libertà che ricorda da vicino l’esistenzialismo sartriano e il suo slogan secondo il quale «l’esistenza precede l’essenza». La vita, la libertà, la possibilità di scelta precede infatti, secondo i fautori del postumano, ogni presunta universalità – del diritto, della morale – percepita al pari di una camicia di forza entro la quale si costringe e si violenta tutto ciò che fuoriesce dai canoni di quanto ritenuto «giusto» e «corretto».
[…] Naturalismo e postumanesimo concorrono, intrecciandosi, a disegnare uno scenario nel quale la speciale libertà d’azione di cui l’uomo sembra godere scaturisce proprio dal regno della necessità naturale. Senza che si debba fuoriuscire dall’orizzonte della realtà fisica (empirica) – e senza dover ricorrere a nozioni quali quelle di spirito, anima, realtà soprasensibile – il naturalismo filosofico spiega infatti la libertà umana come un felice «fatto di natura», che dischiude all’uomo la possibilità di farsi autore del proprio destino6 . Questo perché riconoscersi come il frutto, provvisorio e mutevole, dell’evoluzione biologica, da un lato pacifica l’uomo con la natura di cui è parte e, dall’altro, lo rende co-protagonista di quel processo; libero di dire la sua rispetto alla direzione di marcia. Libertà, responsabilità rispetto all’uso di quest’ultima, solidarietà con tutti i viventi, difesa delle differenze e delle minoranze, fiducia nel valore emancipatorio della conoscenza tecno-scientifica, ottimismo nei confronti del progresso tecnologico, rappresentano dunque le coordinate essenziali di questo movimento. Coordinate, mi permetto di aggiungere, in sé positive e condivisibili. Coordinate, tuttavia, che richiedono di essere ben calibrate per evitare il rischio di finire “fuori rotta”.
Il postumanesimo, come accennato, è un movimento filosoficoculturale assai eterogeneo. Al suo interno vi sono, come ovvio, sensibilità diverse: da chi, come il teologo Andrea Vaccaro7 , interpreta il superamento dell’attuale condizione umana come un contributo attivo alla creazione divina e chi, come Roberto Marchesini8 , spiega la necessità di superamento dell’umanesimo antropocentrico a partire da una valorizzazione dei processi di ibridazione tra uomo e animale. Tuttavia la maggior parte degli autori riconducibili a questa etichetta – e a maggior ragione quelli che si definiscono transumanisti9 – ritiene che sia la fusione con la tecnica il veicolo attraverso il quale l’uomo potrà prendere le redini del suo destino. La tecnica, infatti, consente non tanto di fuoriuscire dal processo evolutivo, quanto di modificarne la logica di sviluppo: non più evoluzione casuale ed eterodiretta, bensì progettazione autonoma e volontaria di un’umanità nuova e plurale. Non essendoci più un’essenza che dica, in modo vincolante e unitario, ciò che rende l’uomo uomo – questo il senso della «morte dell’uomo» – il desiderio individuale è libero di trovare nella tecnica i mezzi per realizzarsi.
[…] Il movimento postumanista si presenta dunque come il paladino dell’umanità plurale, libera e padrona di sé e del suo destino, di contro ad ogni idea fissa e statica di uomo dietro a cui si celerebbe, come detto, la volontà egemonica di una parte (dell’uomo sulla natura; dell’europeo sulle culture “altre”; del bianco, cattolico, eterosessuale sulle molteplici differenze che non si riconoscono in quel cliché e che per questo sono oggetto di discriminazione e di violenza). Nel far questo il movimento postumanista scommette su ciò che è maggiormente tipico dell’umano: la sua familiarità con la tecnica, la sua “naturale” predisposizione a fare di essa il veicolo evolutivo per eccellenza. Ora, che la tecnica possieda un incredibile potenziale emancipatorio è fuori discussione. Basti pensare al contributo offerto alla liberazione dalla fatica del lavoro manuale o alla lotta contro la sofferenza e la malattia. Oppure si pensi all’effetto positivo sulla vita dell’uomo dischiuso dalla scrittura o, ancora, ai mille doni della tecnologia in termini di sicurezza, mobilità, comunicazione. Tuttavia, pur senza disconoscere tutto ciò, e pur senza voler negare il molto e il buono che la tecnologia ci porta in dote, mi permetto di evidenziare un rischio dal quale è bene guardarsi: il rischio di concentrarsi sull’essenza della tecnica più che sul suo senso,
[…] Questo il rischio ch’io riscontro in molti dei fautori del postumanesimo: il rischio di sposare la tecnica più che l’uomo, non trovando un punto d’equilibrio tra l’incessante desiderio dell’essere umano di superare i propri limiti naturali e la necessità di accettarsi per quello che è, comprese le proprie fragilità. Così facendo, il limite e la fragilità perdono ogni significato e il ricorso alla tecnica si configura come una fuga da sé, dal proprio presente, dal proprio essere. Questo si traduce, inevitabilmente, nel disagio di non essere ciò che si vorrebbe, di non vivere ancora il futuro a cui si anela. Smarrire il senso umano della tecnica (e del limite!) conduce cioè all’incapacità, per l’uomo, di vivere in modo pacificato ed equilibrato il rapporto con sé, con gli altri, col proprio tempo. […] Come dire: il senso dell’umano richiede, in qualche modo, che la libertà del farsi e dello scegliersi si accompagni al riconoscimento di ciò che è dato e indeciso. Voltare le spalle al discorso sul senso in nome di una libertà ancora più ampia è certo possibile (e Sartre l’ha dimostrato); è bene, però, che si sia consapevoli del prezzo che tale scelta comporta. Ciò detto non mi sembra fuori luogo porsi la domanda se sia poi vero che l’uomo sarebbe più libero qualora la sua vita fosse priva di una qualche direzione di marcia; se possa dirsi davvero più felice ritrovandosi orfano del significato ultimo del suo stare al mondo. Sarebbe come dire che la morte del padre rappresenta una benedizione perché dischiude le porte all’autonomia del figlio o che, per fare un altro esempio, il libero vagare in un labirinto senza uscita sia preferibile a seguire una traccia, per quanto a tratti difficile da scorgere, lungo un sentiero segnato. E, in fondo, gli stessi fautori del postumano sono persuasi che una direzione di marcia sia migliore rispetto ad un’altra, e che alcuni valori (libertà, tolleranza, accoglienza, ecc.) siano preferibili ai loro contrari.