Il testo che segue è un estratto dell’articolo dal titolo omonimo pubblicato sul numero 2/2017 di Dialoghi
Del male, come dell’essere, si può parlare in molti modi. La modernità è per convenzione il momento storico nel quale, almeno in Europa, la pluralità delle convinzioni religiose e filosofiche si è affermata ed è quindi naturale che quando si parla del male nella modernità si debba tenere conto di visioni diverse e, almeno fino ad un certo grado, tra di loro irriducibili. […] Uno degli aspetti più evidenti del discorso moderno sul male è la progressiva emancipazione dalla dimensione teologica e religiosa, cioè la sua “secolarizzazione”. Questo termine, nella sua accezione più ampia, denota un fenomeno complesso, di lunga durata, dagli esiti non sempre chiari, che comunque dice di una progressiva perdita di significato e rilevanza sociale della religione; qui, riferito al nostro tema, esso indica soltanto che per molti autori moderni il fenomeno del male non trova più nella teologia e nella religione cristiane un modello esplicativo. In questa concezione pensatori diversamente orientati come Descartes e Pascal si sono trovati stranamente uniti: i primi per recidere il cordone ombelicale tra Dio e il mondo e garantire l’autonomia della scienza moderna dalla metafisica e della religione, i secondi per salvaguardare la differenza qualitativa tra il «Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe» e il «Dio dei filosofi».
Le origini della crisi della cosiddetta «teodicea» (un termine coniato all’inizio del XVIII secolo da Leibniz) si trovano in questo assunto: se Dio abita in una dimensione del tutto inaccessibile per l’esperienza umana, il male, cioè le molteplici forme del male morale, quello di cui l’uomo è responsabile, e del male fisico, quello che è presente in natura, non può essere spiegato teologicamente o comunque non può esserlo nel quadro della teologia cristiana. Da qui a passare a ipotesi esplicative diverse il passo è breve: si può supporre che questo Dio lasci il mondo in balìa di qualche divinità minore negligente o cattiva (secondo la tesi del dualismo), che si allontani dal mondo rendendo inesorabile la validità delle leggi naturali (secondo la tesi del deismo) oppure semplicemente che il male sia un enigma a cui non è possibile dare una risposta (secondo la tesi dell’agnosticismo). D’altronde, se cerchiamo di spiegare il male ricorrendo a Dio non incappiamo in difficoltà insormontabili? Perché Dio permette che avvengano terremoti disastrosi (come quello famoso di Lisbona del 1755)? Forse per punire le colpe di quelli che ne sono vittime? Ma tutte le vittime sono ugualmente colpevoli e meritevoli di questa punizione?
La secolarizzazione moderna del male ha quindi significato la rimozione della domanda sull’origine ultima dei mali nel mondo. Se si verifica un terremoto è meglio comprendere le cause geologiche del suo verificarsi (come Kant suggerisce in un suo scritto proprio dopo il terremoto di Lisbona) piuttosto che considerarlo il frutto di una punizione divina. Questo ci servirà, se non altro, a costruire edifici più resistenti alla prossima scossa. Se gli uomini continuano a fare il male, è inutile ricercare una causa metafisica di questo: si può soltanto prendere atto di questa tendenza e cercare, per quanto possibile, di diminuirne gli effetti negativi.
[…] La secolarizzazione moderna del male ha promosso, tra l’altro, la naturalizzazione del male, cioè la spiegazione di esso attraverso l’esclusivo ricorso alle sue cause naturali. La riflessione di Nietzsche è andata decisamente in questa direzione. […] La prospettiva di Nietzsche ha fatto scuola; oggi abbondano le ricostruzioni in chiave naturalistica della morale che con maggiore disponibilità di dati empirici, ma con minore forza di pensiero, arrivano alle sue medesime conclusioni: la morale è essenzialmente una forma di disciplinamento delle relazioni all’interno di un gruppo sociale mediante l’istituzione di determinate gerarchie fra i suoi membri, cioè di forme di dominio di alcuni su altri, e il bene e il male sono rispettivamente ciò che è funzionale e ciò che non lo è a questo disciplinamento. In questo quadro le tradizionali nozioni di libertà e responsabilità, che sono servite in passato per definire il problema del male morale, appaiono superate e divengono inservibili. Qualcosa di simile vale anche per i cosiddetti mali naturali: in un’ottica naturalistica nessuno di questi eventi è senza una causa naturale, anche se non tutte le cause sono per noi conoscibili al momento e anche se il nesso tra causa ed effetto non è sempre possibile stabilirlo in modo deterministico. Al contrario, istituire un nesso tra un evento naturale e una presunta causalità soprannaturale è qualcosa che per definizione è escluso dal naturalismo. […] In ogni caso, la naturalizzazione del male si risolve in una banalizzazione del male: la descrizione nel linguaggio scientifico di eventi catastrofici per la collettività o per la singola persona, come un terremoto o l’insorgere di una grave malattia, tende a neutralizzare il significato morale di quell’evento e di fatto lo fa, a meno che non siamo direttamente coinvolti in essi. La fortunata (e abusata) formula della «banalità del male» che la Arendt ha applicato al caso Eichmann è indicativa di questa tendenza anche per il male commesso dagli uomini: potrebbe essere che, in fondo, non esiste alcun mistero in una volontà che si decide per azioni malvagie, ma soltanto condizionamenti occasionali che agiscono sulla sua maggiore o minore debolezza La banalizzazione del male sembra però soltanto una tappa intermedia verso l’anestetizzazione del male. La modernità all’inizio ha pensato che il male dovesse essere vinto, e quindi aveva ancora una visione drammatica e perfino eroica della lotta contro il male, ma se alla fine lo ha banalizzato, la lotta diviene priva di senso. In un mondo dove la quantità di male non accenna a diminuire, e anzi dà l’impressione di aumentare, meglio allora limitarsi a neutralizzare il suo correlato soggettivo, la sofferenza, cioè le sensazioni spiacevoli che il male induce in noi. […] Può darsi che sotto questo punto di vista noi non viviamo nell’epoca postmoderna, ma in quella ultramoderna, cioè in quell’epoca con in cui le tendenze della modernità raggiungono finalmente il loro compimento.