La liberazione che festeggiamo il 25 aprile è un processo che invita a rendere effettive, oggi, le condizioni per l’esercizio della libertà. La memoria di ciò che avvenne allora può indicare tre riflessioni per celebrare questa ricorrenza nel nostro tempo.
Non si può tacere di fronte ai tentativi – talvolta impudenti, talvolta superficiali – di revisione delle pagine buissime della nostra storia. Così gli esperimenti mal celati – soprattutto quelli che provengono da persone che ricoprono cariche istituzionali – di ridistribuire ed equilibrare le responsabilità durante il secondo conflitto mondiale non possono essere accettati. Ogni uccisione, ogni strage sono da condannare; le precise responsabilità storiche del nazi-fascismo non possono essere addomesticate e il tempo trascorso non può essere ragione di una contestualizzazione riabilitativa. I rigurgiti neofascisti, che talvolta possono sembrare di maniera, devono essere presi sul serio: le parole si stanno trasformando in azioni antisemite, in linguaggio violento, in aperti discorsi che nuovamente insistono sulla razza. Così, oggi, proprio a coloro che credono nella liberazione è chiesto nuovamente di scommettere sulla libertà e di contribuire perché tutti possano trasformarla in una responsabilità a impegnarsi su quei principi di dignità della persona umana, senza distinzione alcuna, e di pluralismo che la Costituzione indica.
Una seconda traccia di riflessione, che la liberazione ci invita a seguire, è rappresentata dalla pace e dalle modalità di perseguimento di tale obiettivo. Proprio sotto questo secondo versante, il rapporto tra liberazione e resistenza – anche armata – è inscindibile. Il tema è delicatissimo e, di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, è tornato di grande attualità: lungi da voler liquidare la questione in poche battute militanti, forse è però necessario guardare alla lotta per la liberazione per attingere a piste di problematizzazione della questione. Mi pare importante, infatti, riscoprire il grande travaglio che attraversò i partigiani, particolarmente quelli cattolici. Si pensi alla figura di Giuseppe Dossetti che, pur organizzando la resistenza in qualità di Presidente del Comitato di Liberazione di Reggio Emilia, non imbracciò le armi: egli fu pienamente “resistente” e non armato. In Assemblea Costituente giunse a proporre l’introduzione di un diritto alla resistenza mediante un articolo che non fu approvato: «la resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Dopo l’esperienza politica, dedicò la sua vita monacale a tentare di ricucire le laceranti ferite della guerra. Ancora oggi visitando il piccolo cimitero di Montesole, dove è sepolto Dossetti, si fa esperienza dell’annientamento della guerra e dell’estensione della preghiera – di fede e laica – che ricolma il vuoto lasciato dalla profondità del male che ha avvolto l’umanità. Si tratta di una testimonianza di vita che accomunò moltissimi partigiani e che, con il rispetto che a questi dobbiamo, dovremmo tornare a meditare.
Un’ultima traccia per celebrare questa ricorrenza attiene ai frutti della liberazione: la democrazia costituzionale. Il sistema democratico pensato dai costituenti è stato realmente il prodotto della resistenza e della necessità di addivenire a un nuovo modo di vivere insieme che impedisse il ripetersi di ciò che era accaduto durante il conflitto mondiale. I costituenti pensarono un ordinamento improntato alla democrazia sostanziale, proteso a rimuovere gli ostacoli che impediscono di sviluppare la personalità di ciascuno e a creare le condizioni di coesione sociale. La Costituzione ha tracciato una via continua di liberazione, nel solco dell’uguaglianza sostanziale e della solidarietà. Per questa stessa ragione i costituenti vollero, per la prima volta nella storia del costituzionalismo moderno, limitare la sovranità dello Stato per favorire istituzioni di amicizia tra i popoli. «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». L’articolo 11 della Costituzione rappresenta una consequenziale e chiara espressione della liberazione che oggi passa da una lettura unitaria di questa disposizione.
La liberazione come forma di resistenza contro l’oppressione totalitaria e la pace – nel suo significato pieno e sostanziale – sono rispettivamente il fondamento e il principio finalistico della genesi del nostro sistema costituzionale. Quella liberazione invita a sostare sul dramma della guerra, a meditare – senza semplificazioni – sull’uso delle armi, a perseguire concretamente la pace; inoltre a non lasciare che tutto ciò sia oggetto solamente del dibattito parlamentare – peraltro assai blando e “acquietato” –, ma che sia affidato a un rinnovato senso di partecipazione di tutti alla vita democratica e, particolarmente, di quelle organizzazioni sociali che ancora sono radicate nel Paese. Meditare e agire in profondità su queste questioni penso che possa rappresentare, oggi, il significato di una libertà che si fa concreto processo di liberazione e di pace.