Tutti gli indicatori sono al rosso ormai da tempo. E l’emergenza si aggrava con il perdurare della pandemia. Inutile negarlo: la Chiesa cattolica vive nel mezzo di una tempesta perfetta. E non soltanto per il moltiplicarsi degli scandali, ma per l’inadeguatezza delle risposte finora emerse. Con la lucidità e la franchezza dei profeti, già nel 2014 Papa Francesco aveva indicato i mali di cui soffriva la curia romana, ma che, ahinoi, valgono anche per ogni cristiano: «la malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”, trascurando i necessari e abituali controlli» e rifiutando ogni autocritica; «la malattia del “martalismo” (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità: ossia di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte migliore”: il sedersi ai piedi di Gesù (cf. Lc 10,38-4)»; «la malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale»… E via proseguendo in un elenco di quindici mali dello spirito. Un catalogo che a molti parve allora impietoso, come se il Papa gesuita avesse indossato i panni di un redivivo Savonarola e non, come invece era, quelli del buon medico che sa quanto importanti siano l’anamnesi e la diagnosi per una cura efficace.
Sette anni dopo non sappiamo quali siano state le conseguenze di quel discorso. Non si può negare, però, che quei mali fossero strutturali, e non soltanto individuali. E che il deficit spirituale è allo stesso tempo causa e riflesso di un deficit strutturale. Peccato da cui non sono immuni le chiese locali: rigidità, formalismo, moralismo, lentezze… Ecco perché il percorso di riforma avviato dal Papa e acceleratosi con l’annuncio del Sinodo per la Chiesa universale è un segno di speranza. Certo, semper reformanda: così è la Chiesa, secondo l’antico adagio. La riforma non è dunque un cedimento allo spirito dei tempi, ma una necessità vitale.
Quale riforma, dunque? Una riforma prima di tutto interiore. E che ha per fondamento e criterio la misericordia (cf. J. Famerée-G. Routhier, Penser la réforme de l’Église, Parigi, 2021). Ma che non potrà rinunciare allo snellimento e alla ridefinizione dei dicasteri vaticani. Sono davvero necessarie strutture che non hanno alcuna giustificazione ecclesiologica, se solo si guarda alle antiche tradizioni della Chiesa d’Oriente, ma che si sono rivelate d’intralcio all’annuncio di fede? Non è forse il momento di attuare quanto Paolo VI profetizzava cinquantadue anni fa? «Avremo un periodo nella vita della Chiesa, e perciò in quella d’ogni suo figlio, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e di minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo; sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di quella libertà cristiana, che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando essa si seppe esonerata dall’osservanza della legge mosaica e delle sue complicate prescrizioni rituali (cf. Gal. 5, 1)» (Paolo VI, Udienza generale, 9 Luglio 1969). La via sinodale va in questa direzione. E sarebbe un peccato non seguirla. Perché, come il Papa ricorda spesso, questo non è tempo di gattopardismi. A patto di essere inventivi e di liberarsi della zavorra in ogni sua forma, la crisi potrà allora essere una chance: l’occasione propizia, il kairós per tornare a interrogarsi, secondo, il programma del sinodo, sul senso della missione, senza perdere di vista la comunione e la partecipazione. E senza scorciatoie, perché non può esserci conversione e rinascita senza un’analisi accurata di ciò che ha reso “inaudibile” o incomprensibile il messaggio cristiano.
Una riforma nel senso indicato da Francesco è nello stesso tempo ritorno e uscita. Ritorno in sé, perché «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo», dice Gesù nel primo annuncio pubblico (Mc 1,15). Uscita, fuori dal campo, verso i margini, le periferie geografiche ed esistenziali, l’altro, il povero, lo straniero, il rifugiato, in cui la fede viva, scriveva Michel de Certeau, riconosce colui che viene «come un ladro» (Ap 16,15), il Signore.