Crea molto disagio osservare iniziative e contrapposizioni, talvolta radicalizzate, che in questi ultimi tempi caratterizzano il dibattito pubblico - e anche il confronto parlamentare - sul tema delle misure più appropriate per combattere i fenomeni, purtroppo ricorrenti, di omotransfobia o comunque di atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone a motivo del loro orientamento sessuale o condizione di genere. Rispetto ad un obiettivo che dovrebbe accomunare tutti coloro che si riconoscono nei principi e valori fondamentali sanciti in Costituzione a tutela dei diritti inviolabili della persona umana e della pari dignità sociale, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, sembra stiano prevalendo spinte volte o ad approvare il Ddl Zan senza prendere in considerazione possibili proposte migliorative di un testo oggettivamente poco chiaro o discutibile in alcune formulazioni oppure, all’opposto, a dilazioni sine die, se non ad un suo affossamento.
A fronte di questi due rischi, ambedue da evitare, appare opportuno sottolineare alcune riflessioni, soprattutto di metodo. Fermo restando il ruolo sovrano del Parlamento, espressione rappresentativa primaria di uno Stato laico, è essenziale che le scelte legislative siano il più possibile chiare e univoche, tanto più dato il rilievo penale che avrebbero le sanzioni prospettate per discriminazioni concernenti le condizioni e gli orientamenti sessuali delle persone. Di qui la necessità di evitare sia formulazioni ambigue o suscettibili di interpretazioni plurime, se non fuorvianti, sia espressioni che riflettano visioni antropologiche o filosofiche divisive. È invece indispensabile una riflessione pacata che miri - senza intenti dilatori - a non perdere di vista l’obiettivo essenziale, ossia l’integrazione della legge Mancino del 1993, con ipotesi ulteriori di discriminazioni da sanzionare: il che richiederebbe la più larga condivisione, proprio per essere efficace nel combattere fenomeni latenti socialmente assai pericolosi. In sostanza, si dovrebbe mirare a valorizzare una cultura ispirata alla pacifica convivenza nel rispetto di diversità e di minoranze, in un orizzonte di bene comune fraterno e, insieme, di tutela dei diritti di libertà. Ossia in una prospettiva di accoglienza, solidarietà e inclusione, combattendo prevaricazioni, emarginazioni, violenze, soprusi e derive bullistiche.
In tal senso può certo essere molto utile, se non talora decisivo, anche il ruolo formativo della scuola, tanto più tenendo conto della recente scelta di potenziamento dell’educazione civica, intesa come base culturale di una vita comunitaria che deve poter coinvolgere e impegnare tutti coloro che ne fanno parte, senza discriminazioni di sorta. Naturalmente un ruolo formativo in cui vanno salvaguardate le libertà e le differenti prospettive educative, evitate impostazioni di parte, con insegnanti e docenti rispettosi delle finalità complessive del sistema pubblico di istruzione, in funzione di una cultura dell’inclusione, sempre improntata alla non discriminazione e alla pari dignità sociale.