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Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis saranno canonizzati il prossimo anno. Due testimoni del Vangelo che parlano alle giovani generazioni
Quando penso alla santità non posso fare a meno di immaginare qualcosa di lontano e irraggiungibile, che si perde nel tempo e per cui si può sempre aspettare. Devo quindi fare un serio sforzo mentale (e forse è proprio qui la falla nel sistema) per non immaginare la santità come l’obiettivo di processo lento, che richiede anni di perfezionamento interiore: e così la santità diventa la fine del percorso, e non il percorso stesso. Credo di non essere la sola. Una certa narrazione dei santi, infatti, non ci ha aiutato e continua ancora oggi a confonderci: personaggi dagli atti eroici che hanno compiuto gesta straordinarie si affastellano nella nostra mente, suggerendoci che la via della santità passa attraverso la grandiosità di quello che facciamo. Ma quando pensiamo che per essere santi sia necessario “fare” cediamo inevitabilmente a un inganno. Nella nostra società performativa rischiamo di incasellare la nostra relazione con Dio in un fare per Lui o un ricevere da Lui, in una logica di credito e debito che poco ha a che fare con la gratuità dell’amore di Dio.
Conoscere, invece, le storie di Carlo Acutis e Piergiorgio Frassati rimette tutto nella giusta dimensione: due giovani che nella loro quotidianità hanno vissuto pienamente nell’amore di Cristo e si sono lasciati trasformare da Lui. L’inganno del fare improvvisamente scompare, perché è la dimensione dell’essere che prevale, e dell’essere amati su tutto il resto. È questo amore trasformativo che ha cambiato le vite di questi giovani, che li ha resi talmente liberi che il loro “fare” non è stato una costrizione, un atto dovuto, ma è diventato l’unico modo per non disperdere quell’amore traboccante che viene dalla relazione autentica con Gesù. Sono particolarmente affezionata a Piergiorgio Frassati, data la mia vicinanza all’Azione Cattolica, e sin da bambina ho avuto modo di conoscerne la storia: mi ha sempre affascinato la sua vita spesa per gli ultimi, l’assiduità ai sacramenti, la modestia che spesso negli uomini non è considerata una virtù. Tante sue celebri frasi mi sono rimaste impresse nella memoria, ma tra tutte questa è quella che mi interroga maggiormente: «Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la fede mi darà la forza sarò sempre allegro. Ogni cattolico non può non essere allegro; la tristezza deve essere bandita dagli animi dei cattolici». Dico che mi interroga perché siamo ormai abituati a una pornografia del dolore che travalica le notizie giornalistiche e sta lentamente facendosi spazio nel nostro cuore, diventando un habitus mentis che poco si confà alla nostra vocazione alla santità (e dunque alla felicità).
Più recente, ma non meno significativo, è stato il mio incontro con la figura di Carlo Acutis. Anche lui giovanissimo, allo stesso modo di Piergiorgio ha fatto della gioia il suo baluardo, tanto da affermare che «la tristezza è lo sguardo rivolto verso sé stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio». Una lucidità rara se consideriamo che si è spento a soli quindici anni. La loro testimonianza ci parla ancora oggi, alla vigilia della loro canonizzazione, e ci ricorda che la
santità è possibile, ma che è necessario che cominci adesso, che preveda l’imperfezione, che sia densa di quotidianità, che sia sempre rivolta all’altro e «verso l’alto», verso Dio. Senza questa consapevolezza, non possiamo cominciare oggi.