Sinodo e sinodalità

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La riflessione sulla sinodalità pare conoscere un fervore del tutto singolare in questi ultimi anni. A essa sta offrendo un contributo notevole Papa Francesco, che non tralascia occasione per richiamare la necessità di nuovi processi decisionali capaci di coinvolgere tutti i fedeli dotati nativamente del sensus fidei. Per quanto attiene alla Chiesa in Italia, non si può dimenticare lo stimolo venuto dalla conclusione del discorso di Papa Bergoglio al Convegno ecclesiale di Firenze il 10 novembre 2015: «In ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni Regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni». Incontrando i partecipanti al Convegno organizzato dall’Ufficio catechistico nazionale il 30 gennaio 2021 il Papa ribadiva la necessità di avviare un processo sinodale: «Dopo cinque anni la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare».

A partire da questi stimoli la Chiesa in Italia si è messa in movimento, benché pare che nelle diocesi questo sia più enunciato che attivato. Nessuna meraviglia: avviare processi di ascolto, come indicato dal Papa, richiede consapevolezza non solo teologica, ma pure giuridica. Con quali criteri si procede? Quali sono gli argomenti da trattare? Se l’obiettivo è quello indicato per il sinodo del 2023, che avrà per tema la sinodalità, si deve anzitutto precisare che cosa si intenda con questo termine: è uno stile generale per la vita ecclesiale? È un dinamismo per giungere a decisioni condivise? Che rapporto si deve stabilire tra sinodalità e sinodo? Appare chiaro che il secondo termine indica una delle forme di realizzazione della sinodalità, ma non la esaurisce. Il sinodo è un mezzo, non un fine, benché si debba riconoscere che il processo di preparazione e di attuazione di un sinodo forma alla sinodalità: non si raggiungono fini senza mezzi. Se però il sinodo costituisce una delle forme della sinodalità, come si dovranno scegliere le persone che parteciperanno all’assemblea chiamata a decidere? E l’assemblea che cosa dovrà decidere? Essa dovrà soltanto “consigliare” o potrà decidere? In questo secondo caso, si assumerà il criterio democratico tipico del parlamento? In tal caso che differenza ci sarebbe tra un’assemblea sinodale e un’assemblea legislativa?

Osservando le trasformazioni che il sinodo dei vescovi ha conosciuto dalla sua costituzione da parte di Paolo VI il 15 settembre 1965 alla forma delineata da Papa Francesco nella Costituzione Episcopalis communio (15 settembre 2018) e i dibattiti teologici che le hanno accompagnate, si può dire che, pur senza negare il valore della suprema autorità ecclesiale, il sinodo dei vescovi non si presenta più come organo consultivo del Papa, bensì come espressione della corresponsabilità di tutti i fedeli nell’orientare la vita della Chiesa.

La stessa notazione vale anche per i sinodi diocesani. Le forme assunte da questi in Italia negli ultimi decenni sono diverse sia per finalità sia per organizzazione: si va dalla indicazione di linee generali per la vita di una Chiesa alla scelta di un argomento particolare. Se si pensa a un sinodo della Chiesa in Italia che raccolga i risultati dei sinodi delle Chiese locali, chi stabilisce la forma che questi dovranno assumere? Come sarà costituita l’assemblea sinodale? Chi deciderà in riferimento a queste due questioni?

Questi interrogativi non sono finalizzati a svalutare i processi in atto, bensì a suggerire un’attenzione alle scelte che accompagnano i cammini ecclesiali.