Famiglia nel tempo del distanziamento

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Dire “famiglia” è dire un’infinità di situazioni diverse, impossibili da riassumere in pochi tratti che le accomunino. Certo, se facessimo una piccola “teoria della famiglia” ce la faremmo anche, ma l’impressione che ho è che in questo modo si finirebbe per scivolare verso il “dover essere”, ed è un passaggio che forse non ci aiuta particolarmente. I modelli astratti, quando si parla delle relazioni, generano degli effetti paradossali: chi non si riconosce in quei tratti li percepisce come una accusa di fallimento o di devianza, oppure semplicemente li commenta in modo cinico e disincantato (“vabbeh, in teoria, ma poi…”); chi invece si riconosce nei tratti del modello rischia al contrario di sentirsi a posto, seduto o seduta sugli allori dei compiti ben fatti, senza stimoli di revisione. Non posso allora fare altro che declinare famiglia al singolare, con qualche scorcio sulla famiglia che siamo – Nicoletta, mia moglie, io e i nostri tre figli – traendone qualche spunto di riflessione sul tempo di distanziamento, nulla di più. Che poi se queste righe fossero scritte da una o uno degli altri protagonisti sarebbero ancora una volta diverse. È, insomma, una “soggettiva” come si direbbe in linguaggio cinematografico.

Il distanziamento, dunque. È innegabilmente faticoso e logorante se pensiamo ai nonni, ai parenti, agli amici che non incontriamo da tempo, ai luoghi che amiamo oltre i confini del Comune o della Regione. La prospettiva però cambia se lo sguardo si posa sulla famiglia, sul “nucleo” famigliare. Distanziamento non è una parola che si presta a descrivere quel che accade tra noi. Al contrario, questo tempo ci ha raccolti di più: si mangia sempre insieme a pranzo e a cena, si parla molto di quel che accade al di là degli schermi, nei mondi “remoti” da cui compaiono professori, colleghi, compagne e compagni di scuola; ci si stuzzica con qualche smorfia per provare a far ridere chi è impegnato/a con un certo sussiego in una tele-lezione – magari ci fosse qualcosa di “smart” nella scuola e nel lavoro a distanza… ne dobbiamo fare di strada! –; si protesta perché il cinema ha un'unica sala a disposizione e l’accordo degli spettatori sulla proiezione è un’alchimia difficile da raggiungere; con la primavera in lockdown sorgono poi accese e divertite discussioni sui turni per il proverbiale “posto al sole” sul terrazzo, mentre non sono cambiate quelle sull’ordinaria amministrazione: chi apparecchia la tavola, chi vuota la lavastoviglie, chi stende la biancheria… È insomma la vita ordinaria a rimanere in primo piano in modo costante: il presente è… più presente, mentre il futuro – che pure si popola di progetti e di desideri, anche quelli motivo di scambi e chiacchierate – è venato di speranze, più che di previsioni accurate. Un “si vedrà” rintuzza e lascia nel vago le progettazioni di lungo corso, ma questo non significa che la vita sia sospesa, in standby: prevale il qui ed ora e noi stessi è come se fossimo reciprocamente… più presenti.

Osservo con curiosità questa evoluzione nel nostro modo di vivere. Stiamo riscoprendo – e qui parlo più per noi adulti, che abbiamo decenni di abitudine al controllo sul futuro con cui confrontarci – che si può vivere bene anche più raccolti, ed è lo spazio ad insegnarcelo rispetto al tempo. Il distanziamento, in famiglia (e certo grazie alla numerosità e varietà dei componenti), è diventato un’opportunità di raccoglimento, occasione per sondare le profondità dell’ordinario, per avvertire meglio il gusto del vivere semplice. Mi chiedo se una maggiore attenzione alla cura di questa dimensione “ristretta” non possa essere una prospettiva di vita buona anche nel post-pandemia. Quando lo spazio si dilaterà nuovamente, forse, occorrerà non dimenticare questa piccola lezione su come poter vivere più saggiamente il tempo che ci sarà dato.