Fuoco, acqua, luce. La divinizzazione dell’uomo nel pensiero dei Padri greci

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Il brano che segue è l’estratto di un articolo dal titolo omonimo, pubblicato sul numero 4/2018 di Dialoghi

A che cosa somiglia un mondo senza la morte, un mondo in cui basta un bagno «rigenerante» (sic) in una vasca speciale per fermare l’invecchiamento? Provano a raccontarlo gli autori di Ad Vitam, serie televisiva di successo prodotta dalla rete franco-tedesca Arte (novembre 2018). Ed è un mondo lugubre, tetro, popolato da vecchi con l’aspetto di quarantenni e da bande di adolescenti che aspirano al suicidio come forma di protesta e di liberazione dalla noia, dalla routine, dal vuoto di ideali, dalla mancanza di uno scopo, di un senso. Ad Vitam è soltanto l’ultimo esempio di quella ricerca di una vita oltre la vita che da sempre ossessiona gli umani. E che Don DeLillo ha raccontato in Zero K, distopia o utopia negativa in cui, a ogni pagina, affiorano le domande. Perché «naturalmente ci sono le domande», tante domande, non soltanto quelle del brano citato: quando la morte sarà vinta o rinviata indefinitamente, «di che cosa scriveranno i poeti?». «Che sarà della storia? Che sarà dei soldi? Che sarà di Dio?». Già, Dio. I soldi. E la storia. Sullo stesso piano, in ordine inverso.

Se tra le promesse delle grandi religioni (non tutte), vi è quella della beatitudine eterna, il transumanesimo si accontenta della sopravvivenza eterna. Bastano «i soldi», come nel romanzo di DeLillo, a garantire l’ibernazione in una capsula speciale e il risveglio prossimo venturo quando la scienza avrà trovato il rimedio alla morte. E Dio, già espulso dall’orizzonte pubblico, diventa così una variabile fra le tante, un’opzione secondaria, buona per pochi eccentrici sognatori. Quanto alla deificazione o divinizzazione, essa non è più, per la stragrande maggioranza dei nostri contemporanei, un’aspirazione, una prospettiva, un desiderio: è soltanto il sostantivo di una lingua misteriosa, di un vocabolario difficile da decifrare. Più che i tratti della divinità, l’homo Deus descritto e annunciato in qualche libro di successo ha le fattezze di un supereroe dotato di poteri straordinari, protesi bioniche che riparano i danni del tempo e prolungano o amplificano la percezione sensoriale. E mentre aumentano gli studi e le ricerche di biotecnologia e medicina predittiva, mentre nella Silicon Valley e nell’industria hi-tech il superamento della morte con gli strumenti della scienza torna ad affascinare i ricercatori, il cielo delle grandi tradizioni religiose continua a svuotarsi.

[…] Ma «ci serve davvero una promessa?», si chiedono i personaggi di DeLillo. «Perché non morire e basta?». «Perché siamo umani e abbiamo bisogno di aggrapparci a qualcosa», è la risposta. E questo qualcosa è il progresso della scienza, «una promessa che gode di maggiori garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni organizzate di questo mondo». La dottrina dei novissimi? Già il termine è desueto e incomprensibile ai più. L’aldilà? Un «aldiquà» migliorato, con fitness e prodotti biologici. Il paradiso? Che noia, senza Facebook e Instagram! Eppure, per molto tempo, la deificazione è stata la regola d’oro del pensiero patristico e di tutto il cristianesimo orientale, la via maestra alla contemplazione del mistero.

[…] Nella Bibbia ebraica non vi è spazio per la categoria della divinizzazione. La fondamentale professione di fede monoteista formulata nel Deuteronomio (6,4), e ancora oggi al centro della preghiera quotidiana (Shema Israel...), non ammette attenuazioni: uno solo è il Signore, non ci sono altri dèi. Con il Nuovo Testamento l’accento si sposta. Nel discorso davanti all’Areopago, dopo aver evocato il Dio ignoto, «quello che voi adorate senza conoscere», Paolo compie il passo decisivo citando uno «dei vostri poeti», Arato di Soli (III sec. a.C.), secondo il quale «di lui», cioè di Dio, «stirpe noi siamo». E se siamo stirpe di Dio, «non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana» (At 17,28-29). No, essa non ha il volto degli idoli, bensì dell’uomo, questi, infatti, è stato creato a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27). La Seconda lettera di Pietro (1,3-4) è ancora più esplicita: nel Signore Gesù diventiamo «partecipi della natura divina». L’espressione «natura divina», che non ritroviamo in nessun altro libro della Bibbia, sarà la chiave di volta per la dottrina dei Padri greci sulla deificazione. Con una distinzione, che finirà per imporsi, tra l’essenza inconoscibile di Dio e le potenze o energie creatrici: la partecipazione alla natura divina sarà dunque partecipazione alle “energie” di Dio e alla luce increata, alla bellezza ineffabile che dal Tabor illumina il cosmo. Questo della deificazione o theosis è terreno sdrucciolevole, che i teologi occidentali hanno percorso con molta prudenza: facile scivolare nell’idolatria, nella grazia a buon mercato, nella caricatura. Ma è anche terreno fecondo, che consente di rispondere alla classica domanda, cur Deus homo, che ossessiona la ricerca teologica in Occidente ancor prima di Anselmo d’Aosta.

[…] Come ha notato Vladimir Lossky, l’enfasi sulla redenzione, isolata «dall’insieme dell’insegnamento cristiano», non evita gli scogli della dottrina sul peccato originale e di una salvezza concepita in termini giuridici di riparazione, retribuzione, soddisfazione. Ostacoli che il cristianesimo orientale supera integrando Redenzione e Deificazione, con una formula che da Ireneo di Lione ad Atanasio e Gregorio di Nazianzo, sia pure con sfumature diverse, è quasi un leitmotiv. Venata di platonismo e guardata con sospetto da molti, la dottrina della divinizzazione si è imposta anche grazie all’autorità di Atanasio il Grande (IV secolo). È sua la formula più frequentemente citata: «Egli si è fatto uomo perché noi fossimo fatti dèi». […] Con accenti diversi, i teologi dell’Oriente cristiano indicano le vie della partecipazione alla vita divina, dallo stupore di fronte al creato, alla contemplazione della bellezza, alla creazione artistica e al lavoro manuale, all’amore gratuito e al dono di sé, alla cura della casa comune, indispensabile ecologia, perché la vita in Dio è la vita umana nella sua pienezza, senza le opacità della nostra condizione mortale. È desiderio, fuoco che brucia, cetra che custodisce «l’armonia delle virtù», flauto che accoglie il soffio dello Spirito, tempio che diventa «dimora del Logos», come scrive Massimo il Confessore. Con linguaggio di oggi, diremmo che essa non è lo slancio prometeico di chi vuole affrancarsi dai limiti della condizione umana rubando il fuoco agli dèi, non è l’hybris dell’apprendista stregone, l’orgoglio del dottor Stranamore, non è un premio da conquistare, non è il frutto dei nostri meriti: è svelamento di ciò che già siamo, della nostra natura profonda (perché a sua immagine siamo stati fatti), di quella particella del divino che ci portiamo dietro fin dalla creazione. Bellezza originale che sarà finalmente manifestata.