Fuoco, acqua, luce. La divinizzazione dell’uomo nel pensiero dei Padri greci

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L'articolo intero è stato pubblicato in Dialoghi 4/2018

Se tra le promesse delle grandi religioni (non tutte), vi è quella della beatitudine eterna, il transumanesimo si accontenta della sopravvivenza eterna. (…) E Dio, già espulso dall’orizzonte pubblico, diventa così una variabile fra le tante, un’opzione secondaria, buona per pochi eccentrici sognatori. Quanto alla deificazione o divinizzazione, essa non è più, per la stragrande maggioranza dei nostri contemporanei, un’aspirazione, una prospettiva, un desiderio: è soltanto il sostantivo di una lingua misteriosa, di un vocabolario difficile da decifrare. Più che i tratti della divinità, l’homo Deus descritto e annunciato in qualche libro di successo ha le fattezze di un supereroe dotato di poteri straordinari, protesi bioniche che riparano i danni del tempo e prolungano o amplificano la percezione sensoriale. E mentre aumentano gli studi e le ricerche di biotecnologia e medicina predittiva, mentre nella Silicon Valley e nell’industria hi-tech il superamento della morte con gli strumenti della scienza torna ad affascinare i ricercatori, il cielo delle grandi tradizioni religiose continua a svuotarsi. L’ufficio dell’escatologia, come avevano notato Ernst Troeltsch e Hans Urs von Balthasar, è deserto già da tempo. Poco più affollato è lo sportello delle “escatologie portatili”, di corto respiro, delle domande sul destino individuale dopo la morte. Arrabattarsi con le cose penultime non lascia spazio per le ultime e la speranza nel sol dell’avvenire è soltanto un ricordo. Dopo la fine delle grandi utopie che hanno dominato il XX secolo e la crisi delle promesse messianiche, tutto crolla attorno a noi, finisce, si inabissa. E noi siamo chiamati ogni giorno – così si leggeva nel cartello di una mostra madrilena sull’estetica delle rovine – a «evaluar nuestra propia escatología».

Eppure, per molto tempo, la deificazione è stata la regola d’oro del pensiero patristico e di tutto il cristianesimo orientale, la via maestra alla contemplazione del mistero. (…) Questo della deificazione o theosis è terreno sdrucciolevole, che i teologi occidentali hanno percorso con molta prudenza: facile scivolare nell’idolatria, nella grazia a buon mercato, nella caricatura. Ma è anche terreno fecondo, che consente di rispondere alla classica domanda, cur Deus homo, che ossessiona la ricerca teologica in Occidente ancor prima di Anselmo d’Aosta, ponendo l’accento non sul riscatto, sulla redenzione dal peccato, ma sull’amore incondizionato di Dio. Dio si fa uomo svuotando sé stesso e umiliandosi fino alla morte di Croce (cfr. Fil 2,6-8) per ridare agli uomini la loro piena dignità, nel compimento della loro vocazione, che è vocazione divina. All’annientamento (kenosis) di Dio corrisponde così la divinizzazione dell’uomo. (…) È con Massimo il Confessore (VII secolo) che la dottrina riceve una elaborazione efficace e definitiva. In fedeltà al dato scritturistico («Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza», Gen 1,28), la divinizzazione è considerata come il conformarsi con l’archetipo divino dell’immagine impressa in ogni uomo. E in questa chiave essa è partecipazione per grazia alla pienezza dell’essere, quando ogni cosa sarà trasfigurata e unificata in Dio. (…) La divinizzazione dell’uomo dovrà intendersi allora, come il conformarsi a Cristo, il «vivere in Cristo» di cui parla Paolo e che un teologo contemporaneo, Panayotis Nellas, chiama «cristificazione».