Il lavoro di cura sarà sempre più centrale. Meglio non trascurarlo

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Con l’inarrestabile aumentare dell’età media, del welfare, della burocrazia, molto probabilmente in futuro avremo un ancora maggiore bisogno delle professioni di cura – se non altro perché sono le meno automatizzabili. Per questo ad esse dovremmo dedicare molta più attenzione di quanto facciamo oggi

 

In una recente episodio del cartone animato South Park fuori da un grande negozio di bricolage alcune persone stanno sedute a terra reggendo dei cartelli. A un certo punto un furgone si avvicina: è quello di un cosiddetto “handyman”, un tuttofare esperto di riparazioni domestiche. Le persone si alzano improvvisamente e prendono d’assalto il furgone: sui loro cartelli ci sono scritti i loro titoli di laurea. Cercano disperatamente di barattare i servizi del tuttofare in cambio di una consulenza nella loro area di specializzazione, ma questi li manda via in malo modo usando un forte accento straniero.

Oggi se si cerca la parola “lavoro” su Google immagini si trovano quasi esclusivamente foto da catalogo di persone in uffici luminosi, vestite in camicia o giacca e cravatta, alle prese con computer e altri device digitali. Forse occasionalmente qualche operaio specializzato. Dall’immaginario legato al lavoro oggi non è scomparso solo il tuttofare, ma anche e forse soprattutto altri tipi di lavoratori: quelli impegnati nelle professioni di cura e cultura. Infermieri, badanti, assistenti sociali, domestici, insegnanti vengono implicitamente ritenuti lavori “di serie B”: necessari, certo; rispettabili, sicuramente; ma in fondo secondari e indesiderabili. Invece musicisti, attori, fotografi, pittori, cineasti, scrittori, giornalisti vengono ritenuti “non-lavori”: desiderabili, forse; stimabili, anche; ma in fondo accessori ed estemporanei.

Se i lavori di cura sono ritenuti necessari ma indesiderabili, e quelli di cultura desiderabili ma accessori, cosa in fondo li accomuna? Il fatto che per farli viene richiesto un qualche tipo di trasporto; bisogna, almeno in parte, sposare una “vocazione”. Difficile o forse impossibile fare l’insegnante di scuola materna, o la badante, o il fotografo, o il musicista se non si sente alcun trasporto per quello che si fa. Di conseguenza, questi lavori sono pagati meno perché già “ripaganti”. In fondo – si pensa ma non si dice – è giusto pagare meno qualcuno per fare una cosa che gli piace o soddisfa un suo bisogno valoriale. Allo stesso modo, è giusto pagare in “visibilità” chi si produce in una qualche pratica artistica, dal momento che crede tanto nella sua opera e nella necessità di diffonderla.

Ecco allora servito uno dei paradossi del nostro tempo: i lavori che – anche letteralmente – ci servono di più e quelli che conferiscono maggior senso alle nostre vite sono trascurati e maltrattati. Anche sulla scorta di questo assunto, per decenni abbiamo spinto giovani e non a intraprendere carriere nel terziario avanzato, o tuttalpiù nella manifattura 4.0. Il risultato? Abbiamo grattacieli di uffici affollati e scuole con aule vuote; siamo pieni di manager e tecnici digitali ma i medici e infermieri scarseggiano; abbiamo file di aspiranti comunicatori e marketer, ma le caserme e i tribunali faticano a coprire i turni.

Ma c’è di peggio: non solo oggi tantissime persone non fanno ciò che ci sarebbe davvero utile, ma molto spesso a malapena sopportano il loro lavoro. Secondo lo State of Globale Workplace di Gallup, l’Italia è tra gli ultimi Paesi del mondo per percentuale di lavoratori coinvolti (“engaged”) nel loro lavoro: appena il 5%. Eppure quando si parla di lavoro e del suo futuro si continua a sentire la solita litania: bisogna puntare sul digitale, sulla scienza, sulla tecnologia. Come se fosse credibile che in futuro gran parte della popolazione potrà essere impegnata a programmare algoritmi di machine learning o a progettare macchinari dell’industria 5.0 – sempre che di tutto questo non se ne occuperà l’intelligenza artificiale.

Con l’inarrestabile aumentare dell’età media, del welfare, della burocrazia, pare invece evidente che in futuro avremo un ancora maggiore bisogno delle professioni di cura – se non altro perché sono le meno automatizzabili. Ciò però non dà alcuna garanzia che in futuro esse saranno più remunerate e apprezzate. Anzi, rischiamo sempre più di vivere in una società duale, dove certi tipi di lavori vengono affibbiati alle classi sociali più basse in forme lavorative di para-schiavitù, mentre quelli più vacui, poco utili o persino deleteri per la collettività rimangono appannaggio delle classi più agiate e istruite. Speriamo di accorgerci per tempo del pericolo, e non trovarci un giorno a commentare amaramente la preveggenza di South Park.