Nel precedente articolo, questo blog ha ripreso l’intervista concessa ad Avvenire del presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Giuseppe Notarstefano, con l’intento di sollecitare una riflessione corale sul momento politico del nostro Paese. Il contributo qui di seguito proposto apre il dibattito, altre voci si aggiungeranno.
Da quando esiste la democrazia moderna, l’imperativo della pubblicità delle decisioni e dei processi del potere è stato riconosciuto come un requisito fondamentale di essa. Oggi però ha cambiato senso e portata: pubblicità degli atti, a partire dai livelli più alti, è diventata spettacolarità e vendibilità, cioè qualcosa di molto simile alla pubblicità commerciale. I partiti -parlo qui solo del caso italiano- vendono parole d’ordine come fossero prodotti da piazzare sul mercato politico ed usano tutti i mezzi tipici della pubblicità commerciale per riuscire. Il pluralismo delle posizioni, delle strategie, dei programmi viene sostituito sempre più dalla mera disseminazione, infinitamente variabile, delle proposte. Si guardi al centro-destra, che adesso sbandiera la sua fedeltà atlantica, l’intenzione di continuare a sostenere l’Ucraina nella guerra contro la Russia, abbassa i toni del sovranismo, scolora la simpatia per Putin; insomma, nasconde sotto il banco le sue precedenti posizioni, che erano, com’è noto, molto diverse.
Non è vero, mi pare, che viviamo il tempo della fine delle ideologie; più semplicemente, direi che le ideologie si sono come disseccate, in esse il nucleo “dogmatico” ha lasciato il posto a una fluidità che copre la mancanza di programmi veri e propri. Lo slogan è diventato l’arma privilegiata dei partiti: è abbastanza assertivo da assomigliare alle vetuste ideologie, ma allo stesso tempo è sufficientemente malleabile per ripresentarsi ogni volta con il volto che serve nelle varie circostanze e che, di volta in volta, viene fatto apparire come l’identità ferrea di chi lo usa e ne abusa. Si potrebbe parlare di un decisionismo morbido, se dietro non ci fosse, specie in alcuni partiti di centro-destra, un decisionismo fattuale, cioè la volontà di imporsi, una volta al potere, contro gli avversari e verso i cittadini. Questo aspetto il centro-destra non riesce, malgrado tutto, a toglierselo di dosso: infatti, l’irrisione dell’avversario, l’acre ironia, l’eloquio duro e impositivo, malgrado tutto, restano e svelano cosa c’è sotto, per così dire. Si potrebbe parlare di una inedita, e solo apparentemente paradossale, fusione di catch all party (il partito pigliatutto) e di decisionismo.
Qui si evidenzia un altro aspetto della politica di centro-destra attuale, che essa eredita da un passato non molto lontano, anzi spaventosamente ancora vicino nella memoria e che torna ad emergere in tante, troppe occasioni: l’esasperazione del conflitto, cioè la chiara vicinanza all’idea della politica come contrapposizione tra l’amico e il nemico. È difficile, in televisione, nelle interviste, nei social, anche di questo periodo pre-elettorale, non trovare la demonizzazione di quello che, al di là di accordi temporanei e di tatticismi contingenti, è visto e soprattutto intimamente sentito come l’avversario per definizione. Mi sembra che il punto saliente sia proprio questo: la realtà della politica sta diventando la contrapposizione che - celata quando serve - riemerge quando non è più necessario dissimulare o quando sbotta, quasi fosse alla fin fine invincibile, la pulsione dell’uno contro tutti. Questo esprime l’essenza più insidiosa del decisionismo, cioè della volontà di imporre, quando e come diverrà possibile, il proprio modo d’essere più vero. La ricerca del consenso in periodo elettorale impone compromessi, prudenti delimitazioni dell’identità, avvicinamenti programmatici; dopo c’è da aspettarsi che emerga, in caso di vittoria, il “volto demoniaco del potere”. Non c’insegna niente la storia dei totalitarismi e dei dispotismi del secolo scorso?
Altre forze politiche avrebbero il dovere di proporre un’altra posizione, ben diversa. Essi sono, in parte attrezzati a farlo, se non altro per la loro tradizione; ma l’ostacolo più grande è l’assenza di programmi concreti e l’egemonia di generiche parole d’ordine che sembrano mimare, almeno nei modi, il centro-destra. Il collante tra cultura e politica -per esempio nel variegato mondo cattolico- si è spezzato e, senza questo elemento il nucleo del centro-sinistra non ha storia, perché la cultura del cattolicesimo democratico era la sua storia. Va, a mio avviso, ristabilito, sulla sua scia, il nesso tra vocazione e competenza, che neppure il governo Draghi ha saputo interpretare, malgrado i suoi molti meriti.
4 agosto 2022