Libertà, coscienza e verità. A proposito della libertà religiosa

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Il testo che segue è un estratto dell’articolo dal titolo omonimo pubblicato sul numero 4/2019 di Dialoghi

Coscienza o verità? Osservando la storia del pensiero si riscontra che sono questi due termini/concetti a entrare spesso in conflitto a causa della contrapposizione tra persona libera e verità “oggettiva”: se si pone l’accento sulla libertà, non si vede come la verità possa “imporsi” alla persona; se si pone l’accento sulla verità, alla quale la persona deve aderire, non si vede come la persona possa ancora essere ritenuta libera. La questione era diventata acuta nell’epoca moderna e aveva trovato espressione sintomatica nelle prime righe dell’opuscolo di Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?. Il filosofo di Königsberg aveva scritto quest’operetta per difendere la libertà di espressione di un pastore protestante, che aveva manifestato un pensiero difforme a quello della comunità per la quale esercitava il ministero, ricevendone censura. […] Dall’incipit dell’opuscolo si coglie una concezione della libertà come emancipazione da ogni forma di autorità che non sia quella del proprio intelletto.

Se la libertà è intesa anzitutto come emancipazione da ogni forma di autorità, finché la ragione è ritenuta capace di verità (almeno etica, nel caso di Kant) il nesso tra libertà e verità non è interrotto. […] Se però si arriva a identificare la verità con l’opinione del soggetto, anche la religione tenderà a essere considerata “prodotto” di un bricolage individuale, come ha convincentemente mostrato Ulrich Beck nell’opera un po’ datata, ma dai contenuti ancora plausibili, Il Dio personale. Nel contesto in cui si riscontra l’obnubilamento della verità, la libertà religiosa tende a coincidere con indipendenza da qualsiasi riferimento normativo (la verità): l’opinione diventa il criterio della verità, ma privo di ragione – come invece era ancora nell’illuminismo. La fede stessa si trasforma in libera opinione che non richiede alcun fondamento giustificativo. La reazione a questo modo di procedere può diventare la chiusura della fede in un mondo altro, irraggiungibile dalla ragione, con la conseguenza che nello spazio pubblico essa non deve più entrare, oppure, siccome la fede dice la verità ultima, deve imporsi in tutti i settori dell’esistenza umana, compreso lo spazio pubblico. Nell’un caso e nell’altro si tratta di una deriva perché, da una parte, nega la valenza pubblica della fede, dall’altra nega la libertà della stessa.

Su questo sfondo si pone il problema della libertà religiosa, che pour cause è diventato acuto nell’epoca moderna ed è stato affrontato, non senza vivaci discussioni, al Concilio Vaticano II, che tra i suoi documenti annovera appunto una dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae. […] La Dichiarazione DH si attiene a una visione “negativa” della libertà religiosa: pone infatti l’accento sulla necessità di evitare ogni costrizione, soprattutto da parte dell’autorità statale, il cui fine è attuare il bene comune temporale; non deve quindi intervenire nella sfera religiosa personale e non può impedire che la coscienza religiosa personale possa esprimersi in ambito pubblico (cfr. n. 3). E ciò perché la sfera civile e politica è di per sé “laica”, cioè né confessionalmente religiosa né ideologicamente atea.
[…] La scelta di DH, come si coglie già dalle prime due parole del documento, fu di spostare l’accento dal diritto della verità al diritto delle persone: la libertà religiosa si fonda sulla dignità della persona. Si tratta di una fondazione ontologica e quindi di valore universale. Con ciò la Dichiarazione non misconosce il valore veritativo della religione cattolica, anzi lo afferma (nel Proemio si scrive: «Noi crediamo che questa unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica» [n. 1]), con l’intento di mostrare che non si vogliono equiparare tutte le religioni – l’ombra lunga dell’indifferentismo religioso contro il quale il Magistero pontificio precedente aveva sempre combattuto – e di richiamare il dovere che ogni persona umana ha di cercare la verità, rispettivamente che lo Stato ha di non impedire detta ricerca. Siccome poi nella ricerca non si procede in forma individuale, si deve garantire, sia per le singole persone sia per le comunità religiose, la libertà di trasmettere i valori religiosi.

Non è difficile vedere che è intervenuto un notevole cambiamento rispetto alle posizioni del Magistero precedente. Si devono pertanto cercare le ragioni del cambiamento. Il punto di coagulo di queste può essere visto in un passaggio di GS, 44 nel quale si afferma che «la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano». In effetti, alcuni principi che hanno trovato espressione in DH vengono dalla modernità. Il Concilio non si accontenta però di registrare il dato di fatto; si preoccupa di indicare quale sia la matrice di essi, cioè la dignità di ogni persona umana che la rivelazione fa conoscere. Sicché si può dire che la base antropologica e cristologica della libertà religiosa viene “scoperta” grazie all’emergere della coscienza moderna, che ha però la sua radice nella rivelazione stessa. […] DH, collegando la libertà religiosa, fondata nella dignità della persona umana, e la libertà della fede, fondata nella rivelazione cristologica, non fa altro che riprendere la matrice di un’idea che la modernità ha strenuamente difeso.

[…] Sulla comprensione antropologica si sofferma invece il recente documento della Commissione teologica internazionale, La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee (26 aprile 2019). […] Il nucleo del documento è costituito, come già in DH, dalla persona umana, che «si manifesta in tutta la sua bellezza […] attraverso la sua capacità di realizzarsi nel rapporto con l’interiorità spirituale, nell’ordine dei rapporti intersoggettivi e in quello della natura mondana» (n. 39). A differenza però di DH, qui si pone l’accento sulla coscienza, che ogni persona ha il dovere di seguire, anche quando fosse invincibilmente erronea. Correlativamente, nessuno può costringere la persona ad agire contro la propria coscienza, specialmente in materia religiosa. Di conseguenza, «le autorità civili hanno il dovere […] di rispettare e di far rispettare questo diritto fondamentale nei giusti limiti del bene comune» (n. 40). Da questa visione non deriva che lo Stato dovrebbe riconoscere un’uguaglianza di diritti di carattere semplicemente teorico, quasi che ogni desiderio soggettivo debba trovare identica tutela. Il documento si preoccupa di indicare un criterio fondamentale per il riconoscimento dei diritti: quello del bene comune […].

Se compito dello Stato è la ricerca del bene comune, esso deve anche valutare se un gruppo religioso persegua effettivamente detto bene. Ciò non comporta certamente che lo Stato sia competente in materia religiosa; comporta piuttosto che esso riconosca e promuova l’azione umanizzante dei gruppi religiosi. Si evidenzia in tal modo che la libertà religiosa non si identifica con l’arbitrio di una coscienza priva di un riferimento “oggettivo” e trascendente. Sullo sfondo non sta semplicemente una questione di carattere giuridico (era ancora la prospettiva di DH); sta piuttosto la questione della verità della persona umana, che la Chiesa ritiene di poter custodire come dono prezioso ricevuto nella rivelazione. E ciò senza la pretesa di imporre a tutti detta verità, bensì con l’intento di mostrarla[…].

La difesa della libertà religiosa, in ultima analisi, è difesa della verità della persona umana a fronte sia dalle costrizioni che potrebbero venire da gruppi religiosi fondamentalisti o da Stati totalitari sia da una neutralità dello Stato intesa come indifferenza rispetto al contributo che le persone o i gruppi religiosi possono offrire alla costruzione della vita sociale.