Il seguente testo è tratto da un articolo più ampio, contenuto sul numero 3/2016 della rivista Dialoghi, apparso col medesimo titolo
Alexis de Tocqueville, quasi due secoli fa, riconosceva l’inarrestabile sviluppo dell’eguaglianza di tutti come il cuore stesso della democrazia («Non riesco a credere che Dio abbia spinto, ormai da molti secoli, due o trecento milioni di uomini verso l’eguaglianza delle condizioni, per farli ritrovare nel dispotismo di Tiberio o di Claudio», scrive nella lettera del gennaio del 1835 a Louis de Kergolay), affinché, per poter pervenire alle deliberazioni necessarie alla collettività organizzata, un regime democratico contenga l’intera gamma delle posizioni socialmente significative per l’interesse comune, senza peraltro che questo debba comportare che tutte le posizioni espresse siano assimilabili e apprezzabili in egual misura. Ma si può ancora affermare che la democrazia comporti sempre a suo fondamento il principio di eguaglianza, anche distinguendo eguaglianza formale da eguaglianza sostanziale, o esso non è più il valore prioritario dei regimi democratici?
Ma è ancor vero che la democrazia non tollera diseguaglianze, o piuttosto abbiamo imparato a convivere con l’idea che la democrazia non solo riesca ad andar al di là di una vana e astratta dichiarazione di eguaglianza formale delle opportunità? È forse vero che, rispetto all’obiettivo di riduzione delle diseguaglianze sostanziali, i sistemi democratici constatino senza alcun fremito che la spesa sociale è troppo alta, e che sono persino eccessivi i costi del welfare e della politiche sociali, per cui è meglio rifugiarsi in un obiettivo di eguaglianza ristretto al solo orizzonte dei diritti civili individuali, in una parola verso la esaltazione dell’egoismo che poco si cura dell’eguaglianza e della giustizia sociale, fornendo anzi un nuovo orizzonte politico alle tradizionali forze inneggianti (a parole) al progresso e alla giustizia sociale?
Il tema se le diseguaglianze siano naturali o invece solo un prodotto della civiltà, impegna Rousseau, Mandeville e largamente la filosofia politica tra Sette e Ottocento, introducendo lo scontro tra ideologie che impegnerà XIX e XX secolo. Così, tanto nel progresso della ragione illuministica che nel marxismo, si affermava il principio della storia senza soggetto, in virtù del quale la storia è un processo che inarrestabilmente arriverà alla verità, realizzando la società giusta. In questo processo ineluttabile l’essere umano è solo un ingranaggio che vedrà la giustizia senza fine, ed è facile, come ha rilevato più di qualcuno, riconoscere la trasposizione di una escatologia che già Hobbes aveva operato sostituendo il Dio cristiano, il Dio dei cieli, con un “Dio in terra”, il Leviatano. La Storia senza soggetto si rivela la traduzione pagana dell’onnipotenza di Dio immiserita nelle povere cose della politica e degli Stati, in cui all’Assoluto vengono sostituiti i miserabili assoluti della classe, della razza, del profitto, del clan. In Giambattista Vico, invece, la vicenda collettiva umana si svolge, in un percorso fatto di cadute e di resurrezioni, al di fuori dell’intenzione esangue che la Ragione cartesiana – indifferente alla persona – attribuiva al Soggetto che pone in essere l’azione, e che nell’illuminismo esaltante la Dea Ragione troverà i motivi per piegare e piagare gli esseri umani in carne ed ossa in nome delle ragioni dell’ideologia. Questa via razionale, che sposa il darwinismo sociale dell’età industriale (ma ancor più di quella postindustriale), prevede che, perseguendo ciascuno la propria utilità, si provveda al benessere collettivo e al progresso dell’umanità. Il Soggetto del pensiero liberista è uno strumento, in realtà, della mano invisibile, che sappia giustificare la inintenzionalità dell’esito collettivo delle singole azioni umane, dove non c’è più responsabilità personale, avvezza a proclamare la razionalità assoluta capace di assoggettare gli esseri umani alle leggi ineluttabili (dell’economia, della scienza, del desiderio biologico di perfezione) e rendere inattaccabile il fondamento inegualitario del nuovo determinismo (perché spendere tanto in sanità, scuola, partecipazione se i fruitori meno forti non saranno all’altezza delle attese?). Viene così liquidato di fatto il principio di eguaglianza come principio e criterio della politica democratica e fondamento dei regimi costituzionali.
Il nodo della relazione tra comunità e socialità appare dunque questo: l’azione che porta all’arricchimento sembra costituire l’unica categoria etica praticabile, e dunque il rapporto tra giustizia e libertà viene misurato su una scala di valori che non prevede più l’umano (e le sue ragioni politiche) quale condizione imprescindibile della libertà sostanziale. […] Come dunque si verifica il passaggio teorico e pratico dalla considerazione della ineguaglianza come inevitabile (e necessario) corollario del progresso umano (accomunando liberali, liberisti e Rousseau) alla formulazione tocquevilliana dell’eguaglianza come indispensabile corredo della conquista della democrazia? Si può giungere, per questa strada, fino a interrogarsi su quale grado di diseguaglianza sia tollerabile in una società democratica. […] Le periferie esistenziali sono diventate l’icona della condizione degli esseri umani in difficoltà non solo sociale ed economica, ma spirituale ed esistenziale, giacché diseguaglianza e povertà non sono rappresentate da dati meramente quantitativi, ma sono determinanti per determinare l’esclusione, sociale ed umana, di una vasta porzione del genere umano. La percezione di vivere in un sistema iniquo e irrimediabile – il discredito della politica e la conseguente disaffezione verso le istituzioni, la sfiducia nell’informazione (con mass media asserviti al potere politico, giudiziario ed economico), il disinteresse verso il bene pubblico, l’annullamento della libera espressione della volontà popolare con il ricorso a riforme elettorali mirate alla convenienza delle élite al potere – induce la sfiducia verso lo stesso sistema democratico, come dimostrano l’affannoso ricorso a provvedimenti per elargizioni settoriali e operazioni di mance elettorali (anche monetarie) per convincere gli “aventi diritto” a recarsi ad esprimere il proprio consenso, non motivato più dalla “nobiltà” degli ideali politici della democrazia faticosamente conquistata.
Se insomma viene a mancare la fiducia della classe media – che sta perdendo ogni illusione rispetto ad un procedere politico che evidentemente non fa i suoi interessi – è la democrazia stessa che corre il pericolo del declino. La diseguaglianza eccessiva deteriora infatti la qualità della democrazia, e di fatto la trasforma in oligarchia, facendo divenire la diseguaglianza stessa, da fattore economico, un diretto fattore politico, dal momento che l’oligarchia economica condiziona la politica, stabilizzando il potere delle diseguaglianze, e la politica a sua volta compie scelte che aumentano i privilegi e la diseguaglianza.