Il lavoro è in crisi. Non è la prima volta che si discute sulla sua tenuta. Di «fine del lavoro» se ne parlava già il secolo scorso, oggi c’è chi teme che stia per scomparire a causa dei robot e dell’intelligenza artificiale. D’altro canto la storia insegna che l’innovazione ha sempre generato fenomeni di disoccupazione tecnologica. Quel che deve preoccupare di più probabilmente non è allora questo ma la natura della crisi che il lavoro attraversa, che è di senso e significato.
La grande fuga dal lavoro (sono in molti a lasciarlo pur non avendone ancora un altro), livelli di motivazione dei lavoratori ai minimi, la difficoltà che le aziende incontrano per trovare persone disponibili ad essere impiegate, la corsa al pensionamento anche poco vantaggioso economicamente, la ricerca delle condizioni utili per stilare piani di incentivazione all’uscita sono fenomeni di questo tempo che segnalano tutti un fatto: il lavoro non è più considerato un bene o una “grazia di Dio”, dicevano i nostri nonni e genitori, ma qualcosa da cui fuggire per cercare altro.
Che succede? Cosa fa allontanare giovani e meno giovani dal lavoro? Cosa ha fatto spegnere la luce che ha emanato su generazioni e generazioni?
Evidentemente raccogliamo i frutti di ciò si è seminato lungo decenni nei quali abbiamo concorso a deturpare il suo senso, trasformandolo in una minaccia per la vita, anziché in una sorgente di benessere; in un ostacolo insopportabile per la nostra libertà, in un impegno senza senso. Il lavoro così è diventato peso, condanna, ingiusta fatica. Eppure il lavoro è stato, e lo è ancora, ben altro: gioia, creatività, realizzazione, personale, benessere collettivo, fonte di dignità della persona.
Questa situazione turba l’animo di molti: quello di lavoratori, manager, imprenditori, educatori e ricercatori. Tocca tutti perché taglia trasversalmente la società minando addirittura le fondamenta del vivere insieme e la democrazia. Soffrire a causa del lavoro è inconcepibile infatti per un ordinamento fondato su di esso.
Com’è possibile che il lavoro e le sue virtù si siano trasformati in sofferenza e in una condizione nella quale fare esperienza di vizi? “Il lavoro mi sta facendo a pezzi”, si ascolta lamentare spesso da persone affrante. “Devo trovare il modo di uscire, il lavoro è diventato un inferno”, è il programma che impegna le energie di molti. Che è successo? Forse ci siamo concentrati a stabilire quali fossero le coordinate spaziali e temporali migliori per ritornare a lavorare, sottovalutando o celando un’altra verità: che modalità di direzione stressanti e contenuti di lavoro «poveri» generano disaffezione e allontanamento, tristezza. Alimentano ambienti e cultura «tossici» come qualche ricerca ha evidenziato. Tossicità intesa in chiave relazionale, un fattore che inquina per esempio i rapporti con i propri colleghi e con i superiori. Lavorare in un ambiente considerato tossico e ostile è insostenibile per le persone, è devastante per se stessi e per gli altri (famiglia, amici).
Eppure molti hanno conosciuto la verità raccontata da Tino Fassone, il montatore di tralicci, piloni e ponti protagonista de La chiave a stella di Primo Levi, per il quale l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Vivere questa esperienza però non è questione di fortuna, dipende da numerosi fattori, anche da come siamo fatti, ma dipende anche dai contesti sociali, economici ed educativi in cui si cresce. Contesti nei quali nei decenni scorsi abbiamo gettato semi che hanno fatto crescere molta erbaccia attorno al lavoro e al suo senso. Un’erbaccia che ha stretto in una morsa di fango il lavoro e i lavoratori, l’etica dell’impegno per realizzarlo a regola d’arte e con soddisfazione, il lavoro come metrica del contributo che ciascuno dà alla società.
Ora bisogna togliere questo fango aiutando le persone a guardare il lavoro come un bene pieno di «senso» per la vita. È miope allora quella cultura che attraversa la società e alberga ancora diffusamente nelle pratiche manageriali che pensa che la motivazione al lavoro e buone performance possano essere gestite e generate con il denaro e il successo. Sicuramente la ricompensa e il benessere economico sono importanti, ma le persone nel lavoro hanno cercato, e oggi non trovano, anche altro; cercano senso, soddisfazione, socialità e benessere. Il lavoro allora va ri-generato in tutti i luoghi sociali ed educativi capaci di illuminarne le virtù che abbiamo nascosto o offeso per recuperare gli slittamenti di significato che ha subito fino a ridurlo a merce da esporre in una società trasformatasi in uno sfavillante e impersonale centro commerciale. Ascoltiamo allora l’ammonimento di Simon Weil: «il discredito del lavoro porta alla fine della società».