«La domanda cui cercherò di rispondere è la seguente: “Perché gli uomini, invece di stare fermi, se ne vanno da un posto all’altro?”». È questo l’interrogativo che percorre dall’inizio alla fine il singolare libro di Bruce Chatwin Le vie dei canti, romanzo e insieme diario di viaggio (tr. it. Adelphi 1995). C’è una filosofia assai interessante in questo testo che più volte ribadisce l’importanza ineludibile del mettersi in viaggio, di non perdere mai la voglia di camminare. Perché non c’è felicità per l’uomo che non viaggia. Nel numero di «Dialoghi» dedicato a Orizzonti del desiderio e domande di felicità potremmo forse cominciare da qui, da questo nesso inscindibile tra il camminare e la possibilità della felicità. L’essere in cammino ci appartiene, non possiamo e non dobbiamo rinunciarci.
Nel suo testo Bruce Chatwin cita tra l’altro Kierkegaard, che nella Lettera a Jette (1847) scrive: «I pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata [...], stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati [...]. Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene».
L’estate che abbiamo appena lasciato dietro di noi è stata per molti un’estate di viaggi. Per tanti, i viaggi delle vacanze e di un turismo più o meno consapevole, più o meno desideroso di conoscere e di capire. Ma per molti altri questa estate è stata il tempo di viaggi di ben altro tenore: viaggi della disperazione, della paura, e della speranza contro ogni ragione; viaggi attraverso il buio di orrori senza fine alla ricerca di una luce possibile, di una felicità sognata e invocata.
Viaggi diversi, ma sempre, in ogni viaggio, qualunque sia la sua matrice o la meta cui tende, qualunque sia la tonalità che lo connota, ciò che si muove, prima ancora che le gambe, le mani, prima ancora che lo sguardo nel suo protendersi oltre, è lo spirito. Ogni viaggio è un viaggio dello spirito, ci tocca, ci muove interiormente; ogni viaggio ci trasforma e in ogni viaggio c’è una ricerca che ha luogo prima di tutto dentro di noi.
Ma chi viaggia? I curiosi, i disperati, chi cerca qualcosa, chi non ha più niente da perdere. Se è vero che gli uomini si distinguono tra «quelli che stanno a casa e quelli che non ci stanno» (R. Kipling), potremmo dire che è dell’essere umano il viaggiare. Dinanzi a quanti sbarcano sulle nostre coste, di fronte a quanti arrivano da lontano senza talvolta neppure sapere dove sono, forse dovremmo ricordare questa profonda verità: è proprio dell’uomo il viaggiare, il mettersi in viaggio.
Al di là delle distinzioni a volte pretestuose tra chi fugge dalla guerra e dalla persecuzione alla ricerca di un asilo e di una libertà possibile e chi fugge dalla miseria e dalla fame alla ricerca di migliori condizioni di vita, occorre ricordare che è proprio dell’uomo il viaggiare. Nella loro situazione dovremmo poter riconoscere, sia pure con i tratti esasperati dalla tragedia da cui vengono, una condizione che è la nostra, in quanto esseri umani: l’essere in viaggio, appunto, il muovere verso un altrove che non sempre conosciamo ma che è promessa di felicità.
Più che la tragedia, o oltre la tragedia, dovremmo vedere nei loro volti questa ricerca dalla quale non abbiamo bisogno di difenderci perché è la nostra stessa ricerca, e non solo in un tempo ormai lontano di povertà sperimentata, ma nella normalità della vita, nell’oggi e nel domani di una umanità che si costruisce viaggiando e che non deve e non può dimenticare quanto sia importante mettersi sempre di nuovo in cammino.
In fondo la nostra esistenza vive della tensione dinamica tra l’abitare e il viaggiare, tra una terra da coltivare e un cammino da continuare, tra lo stare e l’andare.
Abbiamo bisogno di abitare i luoghi, di avvertirne il profumo, di mettere radici e di dar forma alle cose; abbiamo bisogno di uno spazio in cui muoverci e in cui ritrovarci, di uno spazio che sia nostro e che si lasci riconoscere come tale; abbiamo bisogno di colorare i luoghi con il sentire che ci appartiene, con i sapori che amiamo; abbiamo bisogno che le pietre, i paesaggi, i gesti quotidiani, portino il segno vivo delle tradizioni che costruiamo; abbiamo bisogno di una casa e di una terra per poter vivere e poter tessere legami: abbiamo bisogno di fermarci e di stare, di dimorare. Ma se la forma del vivere si solidifica fino a pietrificarsi, se i legami si sclerotizzano e perdono duttilità, se la casa viene recintata, se la terra viene difesa ad ogni costo, se le tradizioni si ingessano, non c’è più alcun profumo, gusto, respiro. Solo se la casa, la terra, i luoghi che abitiamo, i legami che intrecciamo, si aprono su uno spazio più ampio possono essere per noi veramente uno spazio di vita. Non bisogna mai smettere di camminare. Anche quando si ha una casa, una terra, una tradizione. Mai smettere di andare, di partire. Mai smettere di aprirsi a ciò che ancora non conosciamo, di lasciarsi interrogare. Mai smettere di cercare, sapendo muovere il nostro spirito. Perché la ricerca non è vuota pretesa o superficiale vagabondare.
Il camminare, l’andare, il rimettersi in viaggio dà forma alla vita, esattamente come lo stare, il dimorare, e insieme a questi. Non è un caso che, come nota ancora Bruce Chatwin, in greco il termine nomos, legge (ma anche pascolo), rimanda al mondo dei pastori e alla loro condizione nomade. La legge, la norma che struttura il vivere comune, non è un rigido schema in cui costringere l’accadere nella sua imprevedibilità, non è una corazza da mettere in campo per rassicurarci nelle nostre paure. La legge è via, il “muovere verso” le appartiene, così come le appartiene il senso della ricerca e la forza di un desiderio che apre ad orizzonti ulteriori di relazione e di vita. Trovare la strada e non smettere di cercarla. Ecco cosa significa in fondo l’elaborazione di una legge e il suo trasformarsi nel tempo. Le norme - quelle della vita quotidiana, come quelle di un popolo, di un paese - nascono da incontri, sono tessute degli interrogativi e delle intuizioni che questi incontri portano con sé. Il loro evolversi e precisarsi nel tempo è testimonianza della fatica e della forza delle relazioni. Se considerate adeguatamente, esse esprimono, in maniera inequivocabile, quanto la nostra identità sia segnata dalla pluralità, trovi nel molteplice la sua continua sorgente, il termine in rapporto a cui e a partire da cui si costruisce nel tempo. Tutt’altro che un blocco monolitico rigidamente definito. L’alterità, il confronto con essa, la relazione ad essa, sono presenza ineludibile nella storia di ognuno di noi così come dei paesi e delle culture che abitiamo.
Perché allora scandalizzarsi, difendersi, contrapporsi, quando il viaggio di altri ci tocca? Perché inorridire dinanzi alla necessità di un’accoglienza che metta in campo strutture, leggi e cuore nell’intelligenza di interrogativi nuovi? La legge ha in sé la duttilità di cui ha bisogno per essere in grado di normare situazioni e questioni che nuove forme di convivenza in uno spazio comune portano con sé. Trovare la strada e trovare la legge si corrispondono. La legge orienta il cammino ed emerge dal cammino stesso. La duttilità della legge le appartiene per principio.
Piuttosto che alzare muri e recintare territori, occorre allora interrogarsi su come aprire veramente le nostre vite e i nostri paesi all’accoglienza di chi viene, mettendoci nuovamente in cammino insieme a loro nella ricerca di una giustizia più grande, di un rispetto più autentico, di uno sviluppo più solido perché capace di condivisione e di valorizzazione delle differenze. Non è affatto una questione di assistenza, o almeno non lo è nella sostanza. Quei volti, quelle mani, quelle storie, non chiedono soltanto di essere strappati alla miseria, di essere raccolti, sfamati. Lo attestano tante storie di assistenza avvertite come un’offesa e che non sono solo quelle di un’assistenza mancata, elemosinata o peggio ancora sfruttata. Quel che essi chiedono, ciò di cui hanno bisogno, è il diritto di cittadinanza nella vicenda di una comune umanità, la possibilità di contribuire fino in fondo al suo costruirsi senza essere lasciati ai margini.
Essere capaci di lasciarsi interrogare da tutto questo esige, allora, che impariamo ad avere coscienza delle nostre paure, che non vanno demonizzate e neppure ignorate. Ma esige soprattutto che sappiamo far riemergere dentro di noi il nostro desiderio più profondo, quella spinta segreta verso l’altro che può fare della nostra vita un incontro. E questo vuol dire non solo rimettersi ogni volta in cammino, in viaggio, non smettere di cercare la via e di seguirla con coraggio. Richiede ancor più che sappiamo farci noi stessi via. Nel metterci sempre di nuovo in cammino, nel non smettere di camminare e di alimentare il desiderio di farlo, bisogna che noi stessi diventiamo via attraverso la quale passa qualcosa che è più grande di noi. Lasciarsi attraversare, smuovere, plasmare dal desiderio di felicità che ci accomuna tutti e che non è desiderio di possesso o di consumo, ma di semplicità, di libertà... e di misericordia. Perché per camminare bisogna avere il coraggio di perdersi.