«Sentinella, quanto resta della notte?»

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«Più tempo passa, più sono preoccupato. E tutti i miei dubbi invece di portarmi verso la Verità, una verità qualsiasi, accrescono le insicurezze, le confusioni e la paura, non per me, ma per l’umanità che è ormai sull’orlo dell’abisso. Che scoramento, che tristezza».

Questo mi scrive un corrispondente a proposito del putiferio scatenatosi dopo l’assassinio di Charlie Kirk, ma si potrebbe estendere a molte altre situazioni del nostro pianeta, guerre in primis, tanto nella loro oggettiva drammaticità, quanto nelle contradittorie percezioni che si vanno pubblicando sui social o sulla stampa. E questi due livelli, di per sé inestricabilmente legati, si complicano ulteriormente quando ci si interroga sull’affidabilità delle fonti di informazione, nonché sulle possibili soluzioni delle crisi in corso.

Manca oggi una teoria d’insieme. Siamo orfani delle grandi narrazioni, rivelatesi ingannatrici, del secolo passato. Ci rimane una possibile e insoddisfacente intelligenza del frammento. E sono frammenti di riflessioni che dal mio eremo calabrese offro al lettore.

Tra le cose a cui mi affido per tentare di orientarmi nell’odierna giungla ve ne sono due che giudico di primaria importanza: il confronto con la Parola di Dio e il ricorso ai classici. «Lampada per i miei passi, luce sul mio cammino» (Sal 119), la Parola di Dio illumina. Non sempre illumina ciò che vorremmo e non sempre illumina (immediatamente) lontano, ma come affermava il cardinale Newman, la sua luce basta per il passo successivo.

I classici, per parte loro, offrono distanza e questo è assai prezioso quando, con gli occhi ipnotizzati dall’attualità, non si riesce a staccarsene e a liberarsi dal sentimento di impotenza che ne scaturisce.

Ho riletto di recente alcuni testi di Louis Massignon, il grande islamologo, discepolo di Charles de Foucauld e presidente dell’associazione «Amici di Gandhi», che scrisse negli anni Cinquanta a proposito della “questione palestinese”. Massignon ha pagine brucianti sull’hostes – il nemico, in latino – che può essere ospite o ostaggio, a seconda dello sguardo e dell’atteggiamento che si assume. Chi, come me, ha sperimentato l’ospitalità musulmana, non può che essere inorridito dalla perversione religiosa di Hamas che, dopo un atroce massacro, col mantenere ostaggi i sopravvissuti, distrugge le fondamenta stesse della città musulmana (e di ogni altra città umana).

Louis Massignon ha lavorato molto su un’altra polarità, affine alla prima, quella del pellegrino e del rifugiato. Molto vicino al sionismo religioso di Judah Magnes, il fondatore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, o di Martin Buber, come questi ultimi, aveva una coscienza acuta di ciò che lo stato d’Israele, prima entità politica fondata da e per “displaced persons”, aveva vocazione a garantire a ogni esiliato la possibilità del ritorno, la possibilità di un radicamento, quel «primo bisogno dell’anima», secondo Simone Weil. La scelta di mantenere in esilio la popolazione araba cacciata dalle sue case al momento della Nakba, di tenerla in ostaggio e perfino di vietarle di venire in pellegrinaggio nei luoghi santi, è il peccato originale di Israele. Peccato che è come condannato a ripetere all’infinito. Ciò che sta accadendo oggi, la distruzione di Gaza, i progetti di pulizia etnica e l’annessione meno rumorosa ma non meno certa della Cisgiordania, scandalizza, certo, ma non sorprende.

L’esistenza dello stato d’Israele ha una dimensione apocalittica, nel senso primario di rivelazione. Si distingue, certo, dall’Israele biblico, così come non può essere confuso con l’ebraismo o con l’ebraicità, ma d’altronde non può esserne separato. Ora tutto ciò che riguarda Israele ci tocca da vicino perché «spiritualmente siamo semiti», come disse papa Pio XI. E le Scritture di Israele costituiscono la grammatica non solo della nostra vita spirituale individuale, ma, per noi cristiani, di ogni corpo sociale. Ciò che sta accadendo in Medio Oriente rivela il giudizio di Dio non solo su Israele, ma sul nostro mondo.

L’accoglienza dello straniero – sosteneva Massignon – l’ospitalità sacra, è la sintesi delle opere di misericordia enunciate da Cristo nel capitolo 25 di Matteo. Ora, il nostro mondo non ha mai prodotto così tanti esiliati...

Si è soliti dire che la verità è la prima delle vittime della guerra, specie della guerra moderna che tanto peso accorda alla battaglia ideologica. Oggi la guerra fa un’altra vittima eccellente: il diritto internazionale.

A dire il vero la crisi non è nuova. L’arroganza con la quale lo stato d’Israele bombarda i suoi vicini e rifiuta di piegarsi alle innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite ne ha dimostrato da tempo la intrinseca fragilità. La situazione si è tuttavia ulteriormente degradata con il conflitto russo-ucraino. Questo ha segnato il ritorno della guerra come strumento “normale” di risoluzione dei conflitti. Alla crisi del diritto internazionale si aggiunge un’erosione generale dello stato di diritto coestensiva della deriva autoritaria (a diversi gradi) di paesi formalmente democratici come l’India, l’Ungheria, la Russia o gli Stati Uniti d’America.

La fragilità del diritto mi sembra sia ontologicamente legata ai due pilastri sul quale questo poggia: l’etica e la forza.

Se lo stato di diritto ha in sé una valenza etica – la certezza della legge ha un grande valore in quanto vieta l’arbitrarietà – non sempre il diritto è etico. Una legge può essere ingiusta. Ora, senza etica il diritto diventa strumento di oppressione.

Similmente, il diritto senza la forza è un nulla di fatto. La forza fonda forse il diritto? Mi pare che la storia risponda inequivocabilmente di sì, ma se la forza non è guidata dall’etica, il diritto che fonda, come già detto, è solo oppressione.

Ho voluto ricordare queste evidenze – quasi delle banalità – per sottolineare la natura relazionale e dunque fluida e instabile del sistema mondo. Come far sì che tale instabilità non sia eccessiva e provochi ulteriori sofferenze? Non credo ci sia una risposta definitiva. Neppure la democrazia. Lo ha ricordato (a proposito della struttura della Chiesa) papa Leone nell’intervista che ha concesso a Elise Ann Allen: «La democrazia non è necessariamente una soluzione perfetta per tutto». Una tale frase è pericolosa, in quanto potrebbe confortare l’indirizzo illiberale di molti potenti, e va immediatamente corretta con la celebre battuta di W. Churchill: «La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre che sono state sperimentate finora». I limiti della democrazia sono sotto gli occhi di tutti. Non necessariamente la democrazia va di pari passo con la giustizia. Non dimentichiamo che, ieri, la Francia, il Belgio e l’Inghilterra coloniali erano delle democrazie, come oggi Israele è certo una democrazia, ma che pratica l’apartheid e colonizza.

Qualora si riuscisse a instaurare un sistema democratico a livello mondiale – e ne siamo ben lungi! –, nulla garantirebbe che funzioni e non si trasformi in una dittatura della maggioranza sulle minoranze, oppure che cada nelle mani dell’anticristo di solovievana memoria...

Tanto la democrazia quanto lo stato di diritto mi appaiono al contempo necessari e insufficienti di fronte al dilagare dei conflitti armati.

Tre brevi pensieri per (non) concludere, tre frammenti per far fronte allo sgomento che ci minaccia.

«Tieni la tua anima all’inferno e non disperare».

Questo sconvolgente consiglio, formulato da san Silvano del monte Athos, non vale solamente sul piano della vita spirituale personale, ma ci invita pure ad abitare gli inferi del nostro mondo, senza disertare.

«Sentinella, quanto resta della notte?» (Is 21,11). L’urgenza di vegliare. Non risolve tutto, ma partecipa di quell’ottimismo della volontà che si oppone caparbiamente al pessimismo della ragione. Tanto più se illuminata dalla fede nel Risorto. «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43).

Quant’è difficile confessare la vittoria di Gesù sul male e la morte in mezzo al male e alla morte! Ma quant’è necessario!