Partiti, sindacati e la crisi della democrazia italiana

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Il testo qui proposto è tratto da un articolo pubblicato sul primo numero del 2017 della rivista Dialoghi, dal titolo “La democrazia in trasformazione”.

Per quanto riguarda i partiti, è giunto ad esaurimento il percorso che aveva unito la rappresentanza politica e la istituzionalizzazione attraverso di essi dei canali per l’esercizio attivo della sovranità popolare. Per presentare questa evoluzione in forma schematica osservo che la “forma partito” che è divenuta dominante nei sistemi costituzionali europei (ma non in quello americano) è data da partiti di massa a base subculturale. Significa che tipicamente il partito era riconosciuto come l’istituzione attraverso cui si impegnavano in politica coloro che si identificavano per l’appartenenza a un certo universo “culturale” (in senso antropologico), che poteva essere naturalmente di diversa intensità. I partiti tipici da questo punto di vista furono quelli espressione di comunità a radice religiosa (per lo più cattolici, ma anche di altre confessioni cristiane) o a radice socio-ideologica (i partiti “operai”). Questi modelli si imposero, sia pure con sfumature e resistenze, e tutti o quasi i partiti che facevano parte del sistema costituzionale si adeguarono ad essi. Si trattava di istituzioni sociali, cioè di raggruppamenti in cui sulla volontà dell’aderente di riconoscersi in esse prevaleva il carattere per lui “oggettivo” dell’obbligo di inclusione: il cattolico o il proletario si riteneva non potessero scegliere razionalmente e legittimamente collocazioni diverse dal loro partito “naturale”. Questo fu esteso anche agli altri partiti che cercarono di replicare caratteristiche simili dell’obbligo di adesione: il partito poteva rappresentare la borghesia, la nazione, gli intellettuali, una componente etnica, e via elencando.

[…] L’obiettivo dei partiti era quello di costringere la rappresentanza del corpo politico generale (lo Stato, la nazione) a riconoscere la sua natura di sommatoria di diverse componenti identitarie, e al tempo stesso di consentire a queste componenti di concorrere all’esercizio della sovranità popolare così come era previsto dal costituzionalismo. In conseguenza i partiti divenivano sempre più elementi portanti e imprescindibili nello sviluppo della democrazia contemporanea. […] Ciò che interessa rilevare è che il predominio del modello di partito subculturale portò le loro organizzazioni a svilupparsi in due direzioni molto tipiche. La prima fu quella di promuovere il partito come un “mondo a parte”, con le sue regole, la sua cultura, le sue forme di sociabilità, la sua capacità di controllo sulle filiere di selezione e posizionamento delle classi dirigenti. La seconda interessò la conseguente capacità di questa tipologia di partiti di rispondere a tutte le varie domande che erano espresse dal “mondo” a cui facevano riferimento. Le categorizzazioni subculturali sono di loro natura delle generalizzazioni ideologiche. Nessuno crede che in un partito “operaio” si uniscano soltanto persone che sono in quella condizione sociale, che peraltro già di suo non è affatto univoca. Altrettanto si può dire per un partito “cattolico”.

[…] Nacque qui un fenomeno destinato a destrutturare la trama del partito moderno: il catch all party (partito pigliatutto), come venne definito a partire dai tardi anni Cinquanta dagli studiosi di politica. Si trattava ora di una istituzione che tendeva a ricondurre nel suo seno tutte le domande che nascevano da una società in rapida trasformazione e che non si presentavano più come facilmente componibili in un orizzonte generale ideologico. In Italia, non diversamente da quanto avveniva in altri paesi europei, questa trasformazione avrebbe portato alla crisi dei partiti politici come istituzioni subculturali.

Progressivamente le identità subculturali vennero erodendosi come capaci di connotare “mondi” specifici entro cui in qualche misura i cittadini si trovavano inquadrati al di là delle loro scelte. Non solo la mobilità sociale, ma la stessa produzione di una cultura di massa che uniformava gli universi di riferimento nella fruizione degli stessi beni materiali e immateriali (consumi, sistema dei media, ecc.) rendevano sempre meno significative le antiche identità, mentre al contempo si frammentavano ulteriormente le componenti sociali quanto ai “bisogni” che interessavano ciascuna di esse. […] A questo punto dobbiamo fare un piccolo cenno alle ripercussioni che questo cambiamento di clima ha avuto sull’universo dei sindacati. Essi erano di fatto una articolazione del sistema degli universi subculturali e come tali avevano difeso a lungo la loro funzione di “rappresentanza generale”, cioè appunto il loro essere una articolazione del sistema nel suo complesso dove la responsabilità verso di esso limitava i loro compiti rivendicativi. Andando in crisi quell’orizzonte di riferimento, i sindacati “generali” si trovarono spiazzati e dovettero subire una frammentazione della rappresentanza rivendicativa che si poteva esprimere nei vari comparti del lavoro. Tuttavia essi furono costretti a trasmettere a questo nuovo sindacalismo rivendicativo e di nicchia, irresponsabile verso il sistema, i privilegi che avevano conquistato per sé come articolazioni istituzionali del sistema costituzionale.

[…] Abbiamo dunque avuto, in conclusione, una trasformazione in profondità del sistema politico italiano (ma non solo). I partiti tradizionali, dopo che furono tratti nella spirale perversa della corruzione competitiva (fra loro: essendo la raccolta di risorse l’ultima speranza per mantenere in vita la loro “macchina” istituzionale), si sono di fatto dissolti. Al loro posto non è stato ancora possibile produrre qualcosa che fosse più della congiunzione fra quel che rimaneva delle tradizionali classi politiche (ovviamente anche innervate da un po’ di ricambio generazionale) e l’utilizzo di macchine per la raccolta del consenso elettorale. […] La parallela crisi dei sindacati mette in luce come al sistema venga a mancare contemporaneamente uno strumento importante per il governo almeno del versante occupazione e lavoro nel sistema economico. È inutile fantasticare su cosa potrebbe portarci fuori dalla crisi presente. La storia ci insegna che le soluzioni in queste grandi fasi di transizione si elaborano lentamente sul campo ed è illusorio pensare che arrivi un qualche messia a toglierci d’un colpo da questo destino.