Da qualche tempo, ormai, la Tunisia è teatro di disordini sociali e politici. Le cause sono molte e remote e, come sempre, ciò che accade sull’altra sponda del Mediterraneo non può non riguardare il nostro paese e l’Europa. Una ricostruzione per grandi linee delle vicende che, a partire dalla Rivoluzione dei gelsomini, hanno condotto fin qui.
Un gelsomino bianco dai petali rovinati eppure ancora vivo. Con questa immagine, Emad Hajjaj ha scelto, due anni fa, di celebrare i dieci anni della “Rivoluzione tunisina” che, nel 2011, ha portato alla caduta del regime di Zine el-Abidine Ben Ali, al potere dal 1987. Negli ultimi disegni del celebre fumettista giordano-palestinese, però, il fiore simbolo del paese nordafricano e della sua rivolta è scomparso. Al suo posto l’onnipresente volto vorace dell’attuale presidente, Kais Saied. I gelsomini sono davvero appassiti? L’interrogativo è aperto. Di certo, dal luglio 2021, l’unico cantiere democratico aperto dalle Primavere arabe è in stallo. Nel dicembre 2010, Tunisi ha fatto da apripista al sommovimento che nel giro di qualche mese ha scosso le fondamenta di Africa settentrionale e Medio Oriente. Dal terremoto, sono nate nuove architetture di potere, perlopiù, però, di taglio autoritario. La nazione dei gelsomini è stata a lungo l’eccezione. Tanto che, nel 2015, il comitato del Nobel ha voluto insignire del Premio per la Pace il quartetto di rappresentanti del dialogo nazionale tunisino. Un’entità nata nel 2013 e formata dal sindacato dei lavoratori Ugtt, dalla confederazione degli industriali Utica, dalla lega dei diritti umani Ltdh e dall’ordine degli avvocati. Il quartetto, secondo gli esperti di Oslo, ha dato un «contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia, riuscendo a creare un processo politico pacifico in un momento in cui la Tunisia era sull’orlo della guerra civile»1. E così ha messo il paese nelle condizioni di stabilire una costituzione e un sistema di governo che garantisca i diritti fondamentali a tutto il popolo tunisino indipendentemente dal genere, dal credo politico o dalla fede.
L’1 febbraio scorso, Anis Kaabi, uno dei leader dell’organizzazione Nobel Ugtt, di cui fa parte oltre 1 milione di persone sul totale di 12 milioni di abitanti, è stato arrestato e accusato di voler strumentalizzare in modo politico il diritto di sciopero. L’Ugtt ha reagito con una manifestazione di massa senza, però, ottenere risposta da Saied. Che cosa è cambiato? È evidente che la democrazia post-rivoluzione attraversa una fase di involuzione. La politologa svizzera Monica Marks parla senza mezzi termini di ex democrazia, un sistema separato da ogni forma di costituzionalità che avanza rapidamente verso una rigida autocrazia.
Eletto nel 2019, Saied è un docente di diritto costituzionale e un outsider della politica. La sua campagna, incentrata sulla lotta alla corruzione, gli ha garantito il sostegno dei giovani, esasperati dai continui scandali di mazzette. Il paese, al tempo, attraversava un periodo di tracollo economico, con un’amministrazione in bancarotta e incapace di garantire i sussidi sui prodotti alimentari di base, ormai introvabili. Quando, dunque, il 26 luglio 2021, il presidente ha annunciato in tv la “sospensione” del Parlamento e la rimozione del premier Hichem Mechichi per “fare pulizia”, una parte importante della società civile l’ha sostenuto. In effetti, Saied è riuscito a cogliere il momento più idoneo. Il giorno prima del colpo di mano, la folla aveva inondato Avenue Bourghiba per protestare contro la gestione della pandemia. Fallimento di cui incolpavano proprio il primo ministro e l’Assemblea, controllata dal partito islamista di opposizione Ennahda. In un discorso carico di retorica, il leader ha promesso di cambiare il sistema per combattere il malaffare dilagante attraverso una nuova Costituzione che desse alla Repubblica una forma presidenziale e riaccentrasse il potere nelle mani del governo limitando le prerogative dell’opposizione. Un ritorno al pre-Rivoluzione, in sostanza. Un anno dopo, il 25 luglio scorso, la nuova Carta è stata approvata con un referendum: il sì ha ottenuto il 94 per cento, alle urne, tuttavia, si è recato appena il 30 per cento dei cittadini. Fin dal congelamento del Parlamento, il presidente ha iniziato a governare per decreto, restringendo progressivamente gli spazi di libertà, in modo certo più lento rispetto all’Egitto, ma ugualmente nesorabile. L’agenzia anti-corruzione, il Consiglio superiore della magistratura e l’autorità elettorale sono stati dissolti. Le elezioni per l’Assemblea “rinnovata”, a dicembre, boicottata dalle principali forze politiche, hanno registrato il record negativo di partecipazione: appena l’8,8%. Nei mesi successivi sono arrivate le purghe di giornalisti, attivisti e giudici critici. E le invettive presidenziali contro i migranti subsahariani – in transito nel paese nella speranza di raggiungere le coste europee – indicati come capro espiatorio della recessione e pedine “criminali” di un progetto di “grande sostituzione” e di stravolgimento dell’identità nazionale.
Di fronte alla palese agonia della Rivoluzione dei gelsomini, l’altra sponda del Mediterraneo – l’Europa, in primis l’Italia – ha scelto di essere un “interlocutore silenzioso”, l’ha definito il politico e diplomatico Mohamed el-Baradei. In realtà, all’indomani dal crollo del regime di Ben Ali, l’UE aveva investito considerevoli risorse nel nuovo corso: tra il 2014 e il 2020 aveva sborsato 1,9 miliardi di dollari di aiuti e 800 milioni per progetti di micro-finanza. L’ultima tranche da 150 milioni è arrivata a ottobre. L’entusiasmo del 2011, tuttavia, si è attenuato anno dopo anno. Non si è trattato solo di riduzione dei fondi, bensì di un mutamento delle priorità. Una su tutti è diventata l’ossessione delle preoccupazioni dell’UE: la sicurezza. Delle frontiere beninteso. Al sostegno attivo della democrazia, Bruxelles ha sostituito una politica basata sul contenimento della migrazione irregolare. I Ventisette sono rimasti impassibili, mentre le finanze tunisine venivano prosciugate da una crisi decennale, acuita dal Covid-19. Al contrario, gli aiuti europei come delle altre istituzioni finanziarie internazionali sono stati condizionati a un contenimento della spesa pubblica da parte del governo. A sopportare il peso maggiore sono stati i settori più fragili della popolazione, ai cui occhi l’immagine della democrazia era associata indissolubilmente a quella della povertà crescente, del lievitare dei prezzi del cibo e della disoccupazione. Di fronte alla difficoltà del presente, la gente ha iniziato a rimpiangere un passato immaginario, fatto di stabilità e ordine. Proprio quello che Saied voleva riproporre e la propaganda del Golfo ribadiva. Oltretutto, a lanciare qualche salvagente in modo non proprio disinteressato sono state proprio le petro-monarchie, ansiose di riportare la Tunisia nell’alveo dei “governi forti”.
L’atteggiamento europeo non è mutato nemmeno dopo la svolta autoritaria di Saied: nel corso dell’estate 2021, Bruxelles si è mossa con estrema lentezza. L’Alto rappresentante Josep Borrell si è recato nel paese solo un mese e mezzo dopo il colpo di spugna con cui ha cancellato l’Assemblea legislativa. Il Parlamento Europeo ce ne ha messo uno in più per pronunciare una condanna: alla fine, il 21 ottobre scorso, Strasburgo ha chiesto il ritorno alla democrazia. Da allora, c’è stato un maggior interesse. È stato con l’esponenziale incremento delle partenze, però, che la Tunisia è diventato tema centrale nell’attualità politica italiana e continentale. Di nuovo, il discorso si concentra sul modo più efficace per fermare gli sbarchi. Saied lo sa e utilizza questi ultimi e i migranti indifesi – profughi delle troppe guerre dimenticate di questo tempo, dall’Afghanistan, al Congo, al Mali – come “leva” per ottenere prestiti e attenzione.
Il gelsomino è una pianta estremamente resistente. In inverno sembra seccarsi per poi fiorire tra primavera ed estate. La miopia europea, il ritenere che la costruzione della democrazia in pezzi cruciali di pianeta non ci riguardi, ha contributo in modo determinante a far appassire i gelsomini di Tunisia. Ma, pur malconci, potrebbero risbocciare. A patto che si esca dall’illusione di guardare al mappamondo – a partire dall’altra riva del Mediterraneo – in base ai nostri presunti interessi immediati, i quali di rado coincidono con l’autentico interesse nazionale e internazionale: quello di rendere la Terra un luogo in cui vivere con dignità. Ne va del nostro benessere oltre che di quello altrui.