Nell’annata di «Dialoghi» dedicata al tema delle frontiere, non poteva mancare un numero sulle religioni. Non c’è forse infatti nulla di più adatto a mostrare quella che abbiamo chiamato l’“ambivalenza delle frontiere”.
Le religioni contribuiscono a tracciare i confini, sono principio di identificazione e di orientamento nel reale e, nello stesso tempo, portano in sé una forza di sconfinamento”, una tensione all’universale e all’assoluto che non si lascia contenere in confini culturali o geografici e che spinge verso l’oltre divenendo, per ciò stesso, principio di incontro possibile tra gli esseri umani.
Le religioni sono principio di identità, lo sono state sicuramente nella storia. Nel loro intrecciarsi alle culture hanno contribuito a definire la fisionomia di vita dei popoli. Sono luogo di elaborazione del senso, spazio di determinazione dei valori che consentono di orientarsi nella realtà. Lo spazio e il tempo della vita degli esseri umani, per secoli e in qualunque latitudine, hanno trovato, nelle religioni e nel loro sistema di significazione, il riferimento ultimo di senso per definire e riconoscere i luoghi in cui la vita umana diventa possibile e si dipana nella sua dimensione comunitaria.
L’articolazione del tempo, ritmato e orientato dalla festa; la strutturazione dello spazio intorno ai luoghi del sacro, come è nell’architettura urbana dei nostri paesi: traccia di una storia ancora visibile e non del tutto archiviata, nonostante il processo di secolarizzazione. Alle religioni è spettato, nel tempo, il compito di stabilire il puro e l’impuro, ciò che è lecito e ciò che non lo è.
Linee di demarcazione, confini che distinguono, separano, identificano dando senso, come la soglia che delimita i luoghi del sacro in cui la vita umana si comprende e prende forma in relazione a ciò che la trascende.
Ma se così è, come possono le religioni andare oltre i confini, spingersi oltre le frontiere?
Contribuire a riconoscere l’interdipendenza
Certamente se si legano strettamente le religioni alle culture, e questo legame si assume come punto di osservazione, risulta difficile immaginare il loro “sconfinamento”, se non a partire da quell’apertura all’universale che è propria delle culture stesse, quella tensione ad oltrepassare la contingenza e il particolare che è nella elaborazione dei significati e dei valori: la tensione attraverso cui gli esseri umani danno forma alla vita e alla vita comune in particolare. Si può certamente riconoscere, anche nelle religioni, la forza di un umano che è sempre oltre se stesso.
Si può invocare poi, anche per le religioni, la necessità di riconoscersi parte di una comunità di destino, implicati in una interconnessione che già di fatto ci avvicina – spesso più di quanto siamo disposti a immaginare – oltre le nostre frontiere e ci impone la tessitura consapevole di legami che portino alla costruzione di un umanesimo planetario. Non è più tempo di barriere e di muri, anche se continuiamo a innalzarli disperatamente nell’illusione di salvarci senza l’altro o, addirittura, contro l’altro.
La minaccia della guerra totale, delle devastazioni ambientali, dello spodestamento dell’essere umano, il rischio che la specie umana non solo sia resa “antiquata” dal progresso della tecnica e della scienza, ma sia addirittura cancellata dalle conseguenze devastanti di una gestione scellerata delle risorse: sono i rischi prospettati da filosofi del Novecento come Günther Anders e Hans Jonas e ora terribilmente incombenti. Rischi dinanzi ai quali i confini non tengono, perché già ampiamente travolti da processi e sfide che, superandoci, ci accomunano, spezzando, di fatto, ogni pretesa nazionalistica di identificare il nemico e di allontanarlo, collocandolo fuori dei nostri confini, in un altrove fisicamente definibile, ma esistenzialmente, e persino empiricamente non praticabile, essendo tutti, ormai e drammaticamente, “sulla stessa barca”.
Che cosa hanno da dire dunque le religioni rispetto a tutto questo? Se guardiamo allo scenario mondiale, in molti, troppi contesti le religioni sono invocate e usate come bastioni di una identità minacciata o avamposto di una strategia di conquista per riaffermarne l’integrità e la presunta superiorità. Troppo spesso il nome di Dio e la ritualità delle fedi sono posti in prima linea nella folle o lucidissima giustificazione dei conflitti, nella benedizione degli eserciti e delle loro battaglie, nell’azione violenta per la distruzione dei confini che delimitano lo spazio vitale dei popoli. Sembrerebbe quasi che le religioni spingano a uno “sconfinamento” che ha il sapore della conquista, della rivendicazione, creando divisione e odio più che incontro e umana solidarietà. Forze di retroguardia che impediscono di assumere adeguata consapevolezza di ciò che è realmente in gioco.
Ma c’è anche un altro “sconfinamento”; c’è un’altra linea di impegno delle religioni che, dentro le diverse culture e insieme ad esse, motiva e spinge alla tessitura di una collaborazione tra i popoli non più eludibile, contribuendo alla progressiva presa di coscienza di una inaggirabile interdipendenza. Le religioni possono essere promotrici di una cultura dell’incontro, protagoniste di trame di dialogo e di pace, come l’instancabile testimonianza di papa Francesco ci invita a riconoscere.
Lo “sconfinamento” che ci rende umani
Ciò che motiva e rende possibile in ultima analisi questo impegno delle religioni nel rendere permeabili le frontiere tra i popoli e tra le culture, è esso stesso uno sconfinamento”: il primo e più profondo che sia dato di vivere agli esseri umani. È al fondo delle religioni, nell’esperienza di Dio che le alimenta, il principio e la forma di questo “sconfinamento”. Uno “sconfinare” che dà forma, che non dissolve l’identità di ciascuno, ma ne costituisce l’intima sorgente, una universalità che si apre nella profondità ultima di ciò che è singolare e unico ed è tutt’uno con essa, essendone come il respiro.
Se l’umano non è fatto per essere rinchiuso in confini troppo rigidi, se le frontiere rese muri o filo spinato soffocano la nostra umanità fino a sfigurarla, è perché siamo fatti per la relazione. Lo sanno bene le religioni. Percorsi di un nuovo umanesimo sono possibili non nel superamento delle religioni, come auspicato da alcuni, quanto piuttosto nel recupero di ciò che ad esse appartiene in maniera più propria: l’esperienza di Dio da cui le religioni nascono, a cui differentemente conducono, ma con cui non possono in alcun modo identificarsi in maniera esclusiva. È la relazione intima e profonda con ciò che i mistici hanno chiamato il “fondo dell’anima”, della nostra anima, e che infinitamente ci supera; l’intima relazione tra il finito e l’infinito, tra il tempo e l’eterno, in cui la differenza, il confine non è annullato ma dato e continuamente attraversato in un movimento incessante di sconfinamento che è la nostra stessa vita. L’esperienza di Dio è l’esperienza dello “sconfinamento” che ci rende umani. Ed è più grande delle religioni.
Non la si può racchiudere in una religione e meno che mai in una cultura, anche se in esse si declina, come una sorgente zampillante in corsi d’acqua che mai riescono ad esaurirne la ricchezza.
È l’esperienza della relazione sorgiva da cui veniamo e in cui ci muoviamo, la relazione che ci pone in essere e ci fa essere. Siamo relazione da cima a fondo, perché immersi in questa relazione. Ed è questo che ci rende capaci di relazione, ci orienta alla relazione come realizzazione dell’umano. Riconoscersi in relazione è perciò principio di umanizzazione. Negare la relazione, spezzare il filo sottile che ci lega, fino a non avvertire più il dolore dell’altro, è invece quanto di più disumanizzante vi sia. Ed è sotto gli occhi di tutti quanto questo sia vero.
La fede in Gesù Cristo che professiamo ci aiuta a comprendere la relazione quale profonda verità dell’umano: immagine di un Dio che è in se stesso relazione, viventi in Lui e per Lui, siamo chiamati alla pienezza della comunione. Oltre ogni frontiera che pretenda di chiudere, di separare o di contrapporre.