La promessa o l’illusione di una scuola democratica

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Il seguente testo è tratto da un articolo pubblicato su “Dialoghi” 1/2019

Nel contesto italiano possiamo parlare in senso proprio di scuola democratica solo con l’avvento della Costituzione repubblicana (1° gennaio 1948). Dall’unità nazionale (1861) alla fine del fascismo la «questione scolastica» si era via via posta sotto altre prospettive. […] Nell’Italia repubblicana la nuova Carta costituzionale, entro il quadro dei princìpi/valori di fondo, delineava anche i contorni essenziali per ripensare il sistema d’istruzione in chiave democratica. […] Ora, dai princìpi generali occorreva procedere con coerenti iniziative legislative di riordino dell’intero quadro scolastico.

A questa impresa si accinse il ministro della P.I. Guido Gonella (1946-51). Lotta contro l’analfabetismo, adempimento dell’obbligo scolastico di otto anni, rilancio dell’istruzione professionale, salvaguardia della libertà in educazione, aggiornamento degli insegnanti furono i suoi principali campi d’impegno. Nell’aprile 1947 prese il via la Commissione nazionale d’inchiesta sulle condizioni della scuola di ogni ordine e grado. Concluse i lavori nell’aprile 1949, corredando gli esiti dell’indagine conoscitiva con la proposta di un ampio piano di riforma. Esso costituì riferimento per l’elaborazione del ddl 2100, approvato dal Consiglio dei ministri il 28 giugno 1951 e presentato il 13 luglio alla Camera. Ma, a seguito dei sempre più deteriorati rapporti fra le maggiori forze politiche (Dc, Pci, Psi), finì nel nulla, tant’è che non venne nemmeno discusso. A quel punto la riforma del sistema scolastico in senso costituzionale doveva riprendere da capo. La questione che, per tutti gli anni Cinquanta, più affaticò studiosi, uomini di scuola e politici fu il triennio dopo le elementari. Al termine di un percorso tormentato, con proposte di diverso tenore anche nell’associazionismo cattolico degli insegnanti (i maestri dell’Aimc, da una parte, i professori dell’Uciim, dall’altra), si giunse, finalmente, all’istituzione della scuola media unica: legge 1859/1962.

La scuola media unica rappresentò una «pacifica rivoluzione civile», un «grande fatto democratico». Essa, innalzando, secondo il dettato costituzionale, l’istruzione obbligatoria a otto anni, dava intanto un colpo secco alla selezione precoce (dopo le elementari) dei percorsi scolastici, perlopiù legata alle condizioni socio-culturali di provenienza degli alunni. Inoltre innovava sul piano didattico, aprendosi alle metodologie attivistiche. Conosciamo le resistenze di molti docenti, soprattutto di chi, abituato all’elitaria media tradizionale (distinta dai trienni di avviamento professionale), si mostrava mal disposto verso il richiesto cambio di mentalità culturale e metodologico. Nel 1967 la Lettera a una professoressa di don Milani e dei suoi ragazzi di Barbiana entrava prepotentemente nel dibattito scolastico. Era un duro atto d’accusa contro le persistenti forme di classismo ed elitarismo selettivo che continuavano a prosperare nella scuola, discriminando i figli dei poveri. La Lettera fu l’avvisaglia di un processo, sin lì semi-carsico, di profonda insoddisfazione verso il sistema d’istruzione secondaria – ingessato, autoritario, classista –, che trovò sbocco plateale nella contestazione studentesca del 1968. […] Superati i difficili anni Settanta, l’idea secondo cui una democrazia scolastica compiuta richiedesse di orientare l’attenzione su altri registri, come, ad esempio, quello dell’inclusività, andò progressivamente guadagnando terreno. Ne diede conferma la legge 104/1992 sull’inserimento degli alunni portatori di handicap nelle classi “normali”: una decisione d’avanguardia rispetto agli indirizzi prevalenti in Europa, gravida, tuttavia, di complesse problematiche sia organizzative sia di garanzia professionale degli insegnanti di sostegno. Durante gli ultimi quindici-vent’anni il carattere inclusivo della scuola ha trovato un altro fronte di messa alla prova nella crescita esponenziale di alunni extracomunitari.

Al punto in cui siamo giunti, possiamo ribadire che di strada ne è stata compiuta per democratizzare, secondo Costituzione, il nostro sistema d’istruzione. Si tratta però di un processo aperto alle sempre nuove consapevolezze ed esigenze del divenire storico. Alcune riforme dei decenni scorsi (su tutte, ripeto, la scuola media unica) costituiscono tappe miliari, ma non certo definitive, del cammino di democrazia scolastica. […]

Queste considerazioni relative al contesto italiano assumono maggiore profondità se traguardate in rapporto alle dinamiche internazionali delle politiche scolastiche. A tale proposito, non si possono ignorare gli effetti della svolta neoliberista fra gli anni Ottanta e Novanta in Occidente (citiamo solo i casi degli Stati Uniti sotto la presidenza Reagan, 1981-89, e della Gran Bretagna, con primo ministro Margaret Thatcher, 1979-90), gravide di ripercussioni anche sul welfare dell’istruzione. Gli esiti sono noti: distacco sempre più netto da una visione centralizzata del sistema scolastico a vantaggio di una riorganizzazione decentrata; riduzione della spesa pubblica per la scuola e incoraggiamento alla sua privatizzazione; sviluppo dell’istruzione secondo logiche di competizione/efficienza proprie del mercato; disimpegno rispetto alla riduzione delle disuguaglianze di opportunità educative; enfasi sugli standard di qualità per studenti e docenti, ma considerati in termini di risultati estrinseci e misurabili.

Per quanto concerne l’Italia, permane nell’opinione diffusa sulla secondaria di secondo grado una visione gerarchizzata, che vede al primo posto i licei (classico e scientifico al vertice) seguiti dagli istituti tecnici e da quelli professionali. Nella scelta degli uni o degli altri incidono, senza dubbio, il curriculum scolastico dell’alunno, i suoi interessi culturali e le propensioni attitudinali, ma anche (e in maniera notevole) le condizioni familiari. Sicché la tipologia della popolazione scolastica dei tre indirizzi riproduce, in buona misura, la stratificazione socio-economica del paese. Come si sa, al sistema d’istruzione statale si affiancano i corsi professionali delle Regioni: è facile immaginare il prevalente livello di appartenenza sociale dei loro allievi! «Nessuno deve restare indietro» ci hanno ripetuto in questi anni politici di vario orientamento, con riferimento anche alla scuola. Il sospetto che l’espressione, almeno sulla bocca di alcuni, avesse un significato propagandistico, è legittimo. La controprova concreta si ha anche dall’impegno economico per il welfare dell’istruzione. Il bilancio, in proposito, di parecchi governi degli ultimi due-tre decenni è stato deludente. E sappiamo che se non s’investe in scuola, Università, ricerca, cultura, il futuro di un paese è segnato.

Molto è stato fatto – lo ribadisco – nell’Italia del dopoguerra per dare un’anima democratica al sistema d’istruzione. Molto resta da fare. Il persistente divario fra regioni rispetto a “qualità/quantità” dell’offerta formativa è noto. […] Occorre conferire un’anima democratica al sistema, che richiede, innanzitutto, comunicazione di una cultura democratica, necessaria per far crescere cittadini democratici. […] Per essere efficace, la suddetta cultura democratica deve assumere carattere “trasversale”, trovando, cioè, alimento nei diversi insegnamenti curricolari e negli “spazi”, legislativamente previsti, di specifico approfondimento delle questioni civico-costituzionali. Ma non tutto può arrestarsi lì. Va corroborata, infatti, da coerenti stili relazionali, pratiche di vita ed esperienze partecipative intrascolastiche.

[…] La scuola resta “bene comune” d’inestimabile valore. Tanto più in una società come l’attuale, definita, non a torto, «della conoscenza», per l’accelerazione dei processi di sviluppo dello scibile in tutti i campi. Compete all’ambiente scolastico far sì che ciascun alunno, gradualmente, impari ad “abitare il mondo” in maniera “competente”, con consapevolezza critica, senso di responsabilità, capacità relazionale. Qui, in definitiva, si misura, insieme al valore professionale dei docenti, anche la qualità intrinseca di una scuola che intenda proporsi come democratica.