Amorth non fece parte della Costituente, ma, attraverso principalmente di me, egli diede un contributo alla Costituzione che oggi forse è difficile potere ricostruire. [...] Credo che a lui si debba molto delle cose migliori che si trovano nella Costituzione e si sia evitato molto delle cose peggiori, che potevano accadere se lui non fosse stato sempre così acuto e avvertito consigliere». Questa impegnativa testimonianza, resa il 5 febbraio 1987 nell’Aula Magna dell’Università di Modena da Giuseppe Dossetti a meno di un anno dalla morte di Antonio Amorth (20 luglio 1986), per richiamare il contributo di quest’ultimo alla elaborazione della Carta costituzionale, contiene delle suggestioni che meritano di essere sviluppate. Sappiamo che, subito dopo la Liberazione, tra la primavera e l’inverno del 1945, Dossetti, assecondato da Fanfani, aveva chiesto a più riprese ad Amorth di trasferirsi a Roma per entrare a far parte della Commissione centrale di studi per la Costituente della Dc, anzi voleva che ne divenisse il presidente, ma recedette dal proposito quando tale incarico fu affidato a Umberto Tupini. L’idea di reclutare Amorth in quell’organismo non cessò, tanto che lo stesso De Gasperi si incaricò di chiedere al giurista di approntare per la Commissione, senza muoversi da Modena, una sorta di vademecum per la propaganda del partito sulla Riforma dello Stato che il giurista preparò rapidamente. In esso affrontò le questioni politiche e istituzionali più urgenti, illustrando la coerenza della scelta repubblicana in regime di democrazia, specie perché spezzava il «principio di continuità» delle monarchie; annotava inoltre, secondo l’indirizzo degasperiano, che in ogni caso era opportuno rimettere la scelta istituzionale al popolo, sottraendola alle competenze della Costituente.
Come si sa, Dossetti il 2 giugno del 1946 fu eletto per la Dc con ampio suffragio, mentre Amorth rimaneva tra i candidati esclusi (sia pure per un pugno di voti); in un documento di quei giorni Dossetti chiedeva ad Amorth di seguirlo comunque e «in ogni momento» nel difficile lavoro alla Costituente. In essa il primo, senza tralasciare i pesanti e contrastati impegni assunti nel partito, iniziava a operare con vigore, al secondo restava la possibilità di influenzarne gli indirizzi dall’esterno. Ad oggi, in realtà, manca una completa documentazione non tanto delle modalità, quanto dei contenuti che distinsero quella intermediazione di Dossetti in Assemblea. Tra le carte di Amorth sono davvero pochi gli indizi che attestino la consuetudine di consultazioni, anche riservate, con Dossetti, ma è plausibile che esse avvennero in tutta quella stagione: per l’amicizia e la fiducia maturate tra i due negli anni precedenti e, soprattutto, per il reciproco continuo confronto sulle incerte prospettive politiche del paese. Confronto nel quale Amorth riversò tutta la specifica competenza di amministrativista e di costituzionalista per definire sia l’orizzonte concettuale del nuovo sistema democratico, sia il ruolo politico che in esso dovevano assumere i cattolici.
Lo studio dei modelli costituzionalie del rapporto tra Stato e Chiesa
È nota l’amicizia che nacque dalla comune frequentazione dell’Istituto giuridico dell’Università Cattolica di Milano e legò fin dal 1935 Amorth a Dossetti: a quest’ultimo il primo finì in breve per rivolgersi chiamandolo “Pippo”, secondo l’uso della cerchia intima dei conoscenti; a sua volta, Dossetti apprezzò subito l’acutezza con cui Amorth conduceva i suoi studi, fino a riconoscerlo come un vero maestro, anzi, come ebbe a ricordare nella citata testimonianza: «Mi è stato più che maestro». Attraversarono assieme gli anni tragici del conflitto mondiale e vissero con unanime trepidazione la fine del regime e la dissoluzione materiale e morale del paese. Nel contempo, mentre Amorth nel 1939 vinceva (assieme a M.S. Giannini e a V.M. Romanelli) il concorso a cattedra di Diritto amministrativo ed era chiamato a Modena nel 1941 per la docenza, mantenendo l’insegnamento di Diritto costituzionale in Cattolica, a sua volta, Dossetti, più giovane di cinque anni, nel 1942 otteneva la libera docenza in Diritto canonico e otteneva un incarico presso lo stesso ateneo modenese. Già nel 1941 parteciparono con altri colleghi alle riunioni che si svolgevano in casa del filosofo Umberto Padovani per una riflessione allargata e approfondita sulla crisi in atto e sulle reali prospettive del postfascismo. In tale ambito Amorth dispiegò la sua passione patriottica e la sua capacità di cogliere i gravi problemi che incombevano sulle correnti concezioni del diritto, affrontando sul piano dottrinario temi e questioni destinate a essere cruciali nei lavori della Costituente. Con la sua viva attenzione verso la storicità di tutti i modelli costituzionali, si allontanava dalla logica della dogmatica da cui derivava l’idea dello Stato-persona, serbando, però, di quest’ultima il concetto del necessario vincolo d’ordine riservato allo Stato e, soprattutto, superava, in modo più netto di altri giuristi cattolici, l’idea egemone durante il fascismo (in parte derivata dalle teorie di Carl Schmitt) della politica e/o dell’indirizzo politico come fattori determinanti di tutte le evoluzioni costituzionali.
Al contrario, per Amorth queste ultime non potevano che derivare dalle situazioni organizzative e storiche dell’intera società, nonché della stessa Chiesa, peraltro in costante mutamento. Già nel 1942 Amorth ebbe occasione di confrontarsi assieme ad altri studiosi (come Dossetti) con le questioni sollevate da Pio XII nel radiomessaggio su L’ordine interno degli Stati, tra cui quella dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato, destinata a divenire centrale in Costituente nel confronto tra la Dc e i partiti della sinistra (e non solo). Il giurista cattolico ne dava una interpretazione che si può definire all’epoca non conformistica, perché in parte diversa da quella della vigente tradizione ecclesiologica. Egli, da un lato, trascurava del tutto il tema tradizionale del «potere indiretto» della Chiesa sulle realtà temporali e quello della considerazione, sempre da parte della Chiesa, delle realtà istituzionali come res indifferentes; dall’altro, precisava che la dottrina sociale non era solo un capitolo della teologia morale, ma conteneva un nucleo di capisaldi teorici sulla natura dello Stato, inteso come ente che, attraverso il diritto, ordina e custodisce l’intera società e, senza prevaricare sulle sue articolazioni o sulla stessa identità sociale dell’individuo, ne indirizza le azioni verso il «bene comune». Annotava anche che quel che «la Chiesa non possiede invece [è] una propria dottrina dello Stato come governo», quindi, il vero problema del futuro che si presentava per i cattolici non era di creare condizioni reali o supposte (come era accaduto con il regime fascista) per un’egemonia culturale e sociale, bensì quello di combattere, proprio per consentire lo svolgersi delle finalità etiche e soprannaturali poste dalla Chiesa, i modelli autoritari e totalitari imposti fino ad allora dagli Stati novecenteschi alle società di massa, cioè di stabilire su un piano di garanzie costituzionali il posto della «persona» e delle comunità sociali «non fuori o avanti, ma dentro lo Stato». Era urgente per i cattolici riconsiderare il «valore dello Stato» democratico, dopo le catastrofi politiche prodotte dallo Stato-tutto del fascismo; su tale rivalutazione insisteva negli stessi mesi anche Aldo Moro. In più, proprio il riferimento di Amorth ai diritti essenziali della persona era destinato a divenire il cardine della prospettiva antitotalitaria e non solo antifascista assunta dai democristiani nella scrittura costituzionale. Si trattava di rispondere all’appello rivolto da La Pira ai cattolici (ma non solo a loro) per rifondare la politica su quei valori personalistici che Jacques Maritain aveva illustrato nell’ultimo decennio.
Un nuovo livello giuridico-costituzionale:«Oggi lo Stato è uno Stato sociale»
Sullo stesso tema Amorth, nella prolusione modenese per l’inaugurazione dell’anno accademico 1945-46, annotava che, nel trapasso costituzionale in atto, si stava mutando l’«accezione della parola Stato» e che si trattava di un mutamento derivato dal progressivo riconoscimento dei diritti sociali. Se, come spiegava il giurista, lo Stato liberale era stato concepito come «organizzazione autoritaria della comunità», nella quale i diritti di libertà erano garantiti dai limiti che lo Stato dava alla sua azione, nella nuova realtà politica la stessa «materia costituzionale si è estrinsecata nella creazione dei diritti sociali»; quindi, a suo avviso, si poteva affermare che, creatosi un nuovo livello giuridico-costituzionale, «oggi lo Stato è uno Stato sociale». Amorth, però, avvertiva che la realtà del costituzionalismo contemporaneo, peraltro non revocabile, poneva non pochi problemi all’organizzazione normativa delle Carte del dopoguerra. Non era un caso, a suo avviso, che fossero stati avanzati ripetuti dubbi sia sull’efficacia giuridica delle proclamazioni dei diritti, sia sul fatto stesso che le costituzioni si riducessero a divenire strumenti per «esprimere gli istituti fondamentali dello Stato comunità». Amorth respingeva in proposito l’idea prevalsa, pur in modo diverso, nella costituzione di Weimar e in quella sovietica del 1936, che le disposizioni costituzionali potessero essere rapportate schematicamente agli assetti sociali, cioè che potessero «rinserrarsi nello schema della norma-rapporto della vita sociale»; al contrario, occorreva una certa flessibilità, perché, come si esprimeva: «La giuridicità delle norme costituzionali va colta in una visione meno angusta e, a un tempo, adeguata all’essenza del diritto […] come determinazione di un “dover essere”, come stabilizzazione di posizioni, rapporti, impegni di azione di fronte all’arbitrio, all’incertezza, alla precarietà, forze disgregatrici e nocive per un’associazione necessaria e di multiple solidarietà, quale è lo Stato».
Nella prospettiva del «dover essere» della Costituzione e, quindi, della sua intrinseca capacità stabilizzatrice e insieme trasformativa, Amorth si faceva interprete della teoria democratica per la quale l’esperienza concreta del godimento dei diritti da parte dell’individuo e delle collettività si esplicita nella loro partecipazione alla vita dello Stato. Fissato questo orizzonte culturale, destinato peraltro a divenire impegnativo per la maggior parte dei costituenti democristiani, rimaneva aperto il problema costituzionale delle modalità specifiche nelle quali era possibile configurare l’azione dei singoli, delle associazioni politiche (quindi dei partiti) e degli interessi costituiti, anche territoriali, nella vita pubblica.
Nella fase preparatoria della Costituente, uno degli sviluppi più interessanti di questa tematica fu offerto da Costantino Mortati, impegnato a garantire che il nuovo ordinamento costituzionale non discendesse «dall’alto», ma emergesse dal popolo aggregato e organizzato. In questo senso il giurista ribadiva in modo originale quella linea d’impegno comune dell’intero costituzionalismo democratico, specie francese. Egli, infatti, nella sua importante relazione sui «diritti subiettivi politici», svolta nel marzo del 1946 per conto della Commissione Forti del Ministero per la Costituente, non esitava a pronunciarsi in termini di «opportunità» affinché l’opera di giuridificazione dei diritti fosse iscritta in un progetto costituzionale indirizzato, nel suo complesso, a definire tutte le «strutture sociali che si presume di poter porre a base del nuovo assetto statale». Mortati, quindi, in modo più rigido di Amorth, esprimeva la convinzione che si dovesse costruire un raccordo costituzionale equilibrato tra i fini sociali da perseguire obbligatoriamente nel nuovo assetto politico e le istituzioni predisposte alla loro attuazione. In questo ambito il raccordo fondamentale doveva stabilirsi comunque tra il «concetto stesso di Stato democratico» e «il valore assoluto della persona umana e i diritti conseguenti di libertà personale e di uguaglianza».
Il contributo alla XIX Settimana sociale di Firenze e l’«essenza» della Costituente
Quando, poi, si trattò nella XIX Settimana sociale di Firenze dell’ottobre 1945 di definire, assieme ad altri giuristi cattolici, i limiti dei poteri da attribuire alla Costituente, Amorth individuò la posizione che diverrà prevalente tra i costituenti democristiani: essa era intermedia tra quella già esposta da Mortati (con il quale pure si consultò) sui poteri «originari», cioè senza vincoli politici, della Costituente, e quella del gesuita padre Antonio Messineo, che la voleva impegnata solo a rivedere l’ordinamento istituzionale senza toccare l’identità dello Stato. Per Amorth, il crollo del regime totalitario fascista aveva comportato la scomparsa del potere politico che legittimava i poteri istituzionali, ma non aveva implicato l’automatica estinzione delle funzioni di ciascun potere. Sulla base di tale presupposto, per il giurista, l’«essenza» della Costituente si esplicitava in una funzione giuridica: cioè, nella rilegittimazione in forma democratica del potere politico e nel riordino delle funzioni dei singoli poteri, fissandone «la forma e la struttura». Si trattava di far derivare dallo stesso principio della divisione dei poteri sia l’avvio del processo elettorale per delegare i poteri costituzionali all’Assemblea, sia la definizione dei limiti della sua azione rispetto ai poteri di un governo «provvisorio». Se, diversamente, si fosse imposta una concezione «creativa» o «originaria» della Costituente, questa sarebbe divenuta, secondo Amorth, un «potere onnicomprensivo di tutti i poteri dello Stato»; in altre parole, sarebbe divenuta un’assemblea politica in grado di sopprimere ogni fondamento giuridico dei poteri e dell’azione amministrativa.
Un’altra questione sulla quale Amorth intervenne, riguardava la diffusa e più o meno sincera preoccupazione che ogni tipo di decentramento, di tipo regionalistico o federalistico, potesse ledere l’unità del Paese: a parere di alcuni era del tutto realistico che si mancasse ancora una volta l’occasione di attribuire autonomia alle Regioni, senza limitarsi a farne strumenti dell’amministrazione indiretta dello Stato. La necessaria modernizzazione istituzionale dello Stato richiedeva una profonda innovazione. In un ambiente nel quale la propensione verso forme di federalismo era piuttosto avanzata, Amorth considerò che per l’Italia, per la sua storia come per la distribuzione delle sue risorse, la costituzione di uno «Stato regionale» («intermedio» tra quello accentrato e quello federale) era l’obiettivo migliore da porsi. Il giurista auspicò la realizzazione di un «regionalismo» con spiccati caratteri politici, nel quale l’autogoverno risultasse garantito dalla diretta rappresentazione e gestione delle risorse del territorio; prospettò, quindi, che, lasciato il «principio unitario» dello Stato e distribuite le competenze tra lo Stato e le Regioni, si lasciasse a queste ultime un’amplissima facoltà di legiferare e di provvedere ad autonome forme di «controlli» giurisdizionali. Per Amorth l’unità dell’indirizzo politico dello Stato andava confermata in una specifica rappresentanza regionale nelle assemblee parlamentari. In questo senso si rinnovava la tradizione dell’autonomismo cattolico; lo stesso Luigi Sturzo, tornato dal suo esilio e anch’egli esterno ai lavori della Costituente, dava un autorevole contributo alla medesima prospettiva del regionalismo politico, trasmettendola ai giuristi impegnati nella Commissione dei Dieci guidata da Gaspare Ambrosini, preposto alla costituzione delle Regioni, e a quelli che operarono, peraltro invano, per la radicale innovazione politica degli assetti amministrativi territoriali. Amorth usava la sua riconosciuta dottrina giuridica per formulare impegnativi indirizzi costituzionali per la trasformazione democratica dello Stato, salvaguardando il suo valore ordinatore e programmatico.
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Antologia
[...] Da parte cattolica infatti non è infrequente l’accentuazione del carattere religioso di tale dottrina o insegnamento, onde si ha cura, per esempio, di osservare che la Chiesa cattolica non ha, appunto per questo, una vera e propria «dottrina politica» da contrapporre o da inserire nella congerie delle altre dottrine politiche; quindi, per essa la «indifferenza» delle varie forme di governo e, per contro, la universale applicazione dei principî che essa proclama, al fine soltanto che l’uomo possa raggiungere la mèta sua eterna. Da parte avversa invece non manca l’insinuazione che la Chiesa difenda, per l’interesse della sua stessa esistenza, un complesso di opinioni teoriche ormai superate, perché legate al tempo storico in cui essa dominava anche come potenza politica e in cui il mondo civile risentiva l’immediata influenza della visione cattolica del mondo. Ora se ci si accosta ai documenti pontifici, seguendo l’uno o l’altro di questi canoni interpretativi – assai più accettati di quanto non si pensi – l’efficacia di quella dottrina risulta sensibilmente diminuita. Essa è quasi annullata quando si ritenga che la Chiesa cattolica prescriva rimedî inadatti al vivere moderno, e se ne rispetta soltanto la vetustà e la sapienza antica che ad essa si accompagna; ma resta pure ridotta ove le si annetta un esclusivo valore religioso. Certo il compito della Chiesa, implicito quindi in ogni sua manifestazione, è quello di guidare e sostenere gli uomini in ciò che attiene specificamente al loro eterno destino, ma la suprema altezza, da cui essa è condotta a riguardare l’uomo, le consente appieno di considerarlo nella sua integrità di vita, di vedere l’uomo, creatura di Dio, anche nella sua attività più specificamente terrestre, legata cioè al contingente e al perituro. Nessuna visione e nessuna conoscenza dell’uomo può essere anzi più completa di quella che muove dal suo massimo valore, perché questo valore deve rispettarsi e affermarsi in ogni umana manifestazione, ed evidentemente questo massimo valore si coglie nel contatto (religioso) tra l’uomo e Dio. Come più ricca è la vita e maggiore il valore dell’uomo, se questo dispieghi la sua azione anche nella compagine sociale, di quanto quella vita e quel valore non lo siano già per se stessi, così questi medesimi valore e vita ancora si amplificano e si sublimano quando l’uomo si riconosca e si affermi creatura di Dio e destinato partecipe della vita di Dio. Se quindi la Chiesa insegna e consiglia intorno a ciò che attiene alla vita più specificamente terrestre – come è nel caso della vita sociale in senso proprio – non se ne può soltanto arguire atteggiamenti e comportamenti per il raggiungimento della mèta sopraterrestre dell’uomo, ma anche e proprio per questa vita terrestre, perché essa sia la migliore e la più conforme all’altissimo destino umano, e benché sia certo che, nei suoi auspicabili e desiderabili perfezionamenti, questa vita è pur sempre un bene contingente e perituro. Ed ecco perché, da questo lato, la dottrina sociale della Chiesa ritiene anche un suo interesse infrareligioso, potrebbe dirsi, o terrestre e universale (perché pronunciato a vantaggio degli uomini in generale, e non nazionalmente ordinati).
Ma non è questo soltanto un aspetto della dottrina sociale della Chiesa che ne accresce i motivi di attualità e di studio, nella disputa delle altre dottrine. Ve ne è pure un altro che attiene al suo contenuto, che è necessario accennare, anche perché riconferma quello già posto in luce.
L’essere la Chiesa cattolica depositaria e tutrice di un complesso di assolute Verità rivelate o riconosciute, che essa deve far risuonare alle «dissuete orecchie e ai pigri cuori», può indurre a ritenere o piuttosto a interpretare la sua dottrina sociale come una semplice ripresentazione di tali Verità nell’ordine sociale. Ritorna insomma l’asserzione della immobilità della sua dottrina, che per ciò stesso si considera inattuale. Ma la realtà è invece un’altra. Che se invero non si può pensare che la Chiesa cattolica intenda deflettere da quelle assolute Verità, né cessare dal riproclamarle, anche perché nella loro essenza di Verità è necessariamente una continuità di vita e quindi di perpetua attualità, con tutto questo essa non può affatto trascurare (e non ha peraltro mai trascurato) quanto il corso dell’umana vicenda va continuamente presentando e costruendo: idee, principî, istituzioni, frutto dell’umano pensiero e dell’umana ingegnosità, ma di quell’uomo di cui essa afferma e rispetta, per prima, l’altissima dignità. La dottrina sociale della Chiesa cattolica, intesa nel senso più specificamente terrestre cui sopra abbiamo accennato, non può non accompagnarsi al corso dell’umana vicenda, riconoscendo ciò che è proprio del tempo e accogliendone i frutti, in quanto possano collimare col destino altissimo dell’uomo e col rispetto della legge divina. La continuità (non immobilità) della dottrina sociale della Chiesa si manifesta quindi come rigida riaffermazione di Verità, quando queste si offuscano o si dimenticano, ma sulla traccia di principî irrinunciabili essa forma anche un «corpus» che si rimodella e si accresce secondo lo storico determinarsi della vita umana. Da ciò la sua provvida aderenza ai tempi. Un esempio palmare di questa asserzione può ricavarsi proprio dal messaggio pontificio che ci interessa da vicino, dove una garanzia dei diritti dei cittadini che esso apertamente reclama, viene ritrovata in quel principio della legalità applicato alla pubblica amministrazione, che è una delle maggiori conquiste dello Stato moderno e contemporaneo.
(Da A. Amorth, La concezione dello Stato, in L’ordine interno degli Stati nel Radiomessaggio di sua Santità Pio XII del Natale 1942, Vita e Pensiero, Milano 1945, pp. 138-157 ripubblicato in N. Antonetti, U. De Siervo, F. Malgeri (a cura di), I cattolici democratici e la Costituzione, il Mulino, Bologna 1998, pp. 275-289: 276-278).