Nel centenario della nascita di Italo Mancini, Urbino celebra il filosofo-teologo che ha intrecciato fede, filosofia e giustizia sociale. Il suo pensiero, nel confronto con Barth, Bultmann e Bonhoeffer, propone un cristianesimo radicale e una filosofia del diritto fondata sulla riconciliazione e sull’impegno etico.
Nella città di Urbino quest’anno le principali istituzioni (Università, Chiesa, Comune) daranno il via a una serie di iniziative per ricordare il centenario della nascita di don Italo Mancini, il filosofo-teologo che, per circa quarant’anni, ha insegnato nell’Ateneo feltresco Filosofia della religione, Filosofia teoretica e, insieme, Filosofia del diritto, impiantando una vera e propria scuola, con numerosi allievi divenuti a loro volta docenti universitari1 .
Carlo Bo, finissimo letterato e rettore dell’Università, ricordava in questo modo la presenza di don Italo (così si faceva chiamare anche dagli studenti), in un articolo apparso dapprima su «il Corriere della sera» e, in seguito, posto come prefazione a una raccolta di saggi di Mancini, Futuro dell’uomo e spazio per l’invocazione2 : «Rincasando di notte passo sotto le finestre illuminate della sua abitazione e finisco per avere un appuntamento ideale con lui che studia o scrive o intrattiene ancora gli amici e i discepoli. C’è sempre in tutte le città dello spirito uno di questi lumi simbolici: è rimasta famosa a Madrid nel periodo tra le due guerre la finestra illuminata di Ramon Gomez de la Serna, per gli urbinati, penso sia la luce rossa della stanza d’angolo in alto, di palazzo Antaldi, proprio di fronte all’Università»3 .
Filosofo della religione e del diritto
Dopo l’esperienza di studente e di docente alla Università Cattolica, allievo del filosofo Gustavo Bontadini, Mancini aveva proseguito il suo cammino autonomamente ed era approdato infine all’Università di Urbino. In un testo dal titolo (è del 1964) Linguaggio e salvezza4 , da una parte Mancini dava conto delle sue ricerche sulla costruzione della domanda e sulla costruzione della risposta alla domanda sull’essere e sul che ne è di Dio (le domande della metafisica), dall’altra iniziava una riflessione che, pur collegandosi a queste ricerche, rappresentava una svolta, da lui chiamata la svolta ermeneutica, nata dal confronto con le questioni del mito e del kerygma (rivelazione), sollevate da Rudolf Bultmann e da Karl Barth5 . Ma non erano estranee anche provocazioni che lo portavano a ripensare i temi teoretici affrontati nella dinamica delle filosofie e delle culture insegnate nelle Università. Queste non si ponevano ancora questioni pubbliche e civili, che non sembravano degne d’essere oggetto di speculazione filosofica.
Negli anni Sessanta, quando Mancini si interrogava in termini di «quale e quanta filosofia potesse essere capace la fede personale e collettiva», le sue riflessioni si intrecciavano con quelle di eventi straordinari e imprevisti, vale a dire il Concilio Vaticano II della Chiesa cattolica, indetto da Giovanni XXIII nonostante resistenze e opposizioni interne, e le lotte studentesche e operaie, dilagate in tutto l’Occidente e nei paesi legati all’Unione Sovietica.
Notava lo stesso Mancini, in una lunga intervista a Leo Lestingi, che in tale inedita situazione «si trattava di produrre di nuovo il senso o anche di produrre altri sensi»6 . A questo scopo allargava l’area culturale , in campo teologico, non solo sui già citati Barth e Bultmann, ma anche su un altro teologo, Dietrich Bonhoeffer, come gli altri due fatto conoscere da lui in Italia, attraverso una densa monografia del 1969 dall’editore Vallecchi e tramite la pubblicazione delle Lettere dal carcere sotto il titolo di Resistenza e resa e dell’Etica7 , «che io considero», aggiungeva Mancini, «uno dei quattro o cinque libri fondamentali che la Germania ha prodotto nel Novecento»8 . Karl Barth, a partire dal grande Commentario alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso (1921) aveva considerato la religione come kerygma, come rivelazione, opponendo perciò fede e religione: la fede come movimento di parola, evento, comunità e comandamento provenienti da una rivelazione di Dio. Dio come realtà totalmente altra e infinita. Bultmann, in opposizione al teologo di Basilea, aveva posto la questione dell’ermeneutica, un’ermeneutica però demitizzante, tesa a far sì che l’uomo del nostro tempo potesse vivere, e prima pensare, un cristianesimo che non chieda rinunce all’uso della ragione, proponendo dogmi, concezioni o anche proiezioni cosmologiche che mortificano l’uomo che ha ormai raggiunto lo stato adulto. Gesù Cristo veniva risolto interamente nel suo messaggio: l’invito a scegliere per la vita, scegliere di continuare a vivere e a lottare perché la vita si instauri. E Bonhoeffer, infine, che riprendeva il tema dello stato adulto del mondo per dichiarare perentoriamente che non c’è più posto per la religione, ma solo per il cristianesimo, liberato dalla preoccupazione metafisica del “Dio in sé” onnipotente e depotenziatore dell’uomo, per affermare che Dio ha senso solo come Cristo che è la storicizzazione di Dio; un Dio crocifisso e impotente che sta totalmente dalla parte dell’uomo e che dà un nuovo senso al suo essere-per-gli altri. Chiunque si mette alla sua sequela è chiamato a una nuova vita nell’esistere per gli altri. Il trascendente non dice doveri infiniti, irraggiungibili, ma il prossimo dato volta per volta e la fede come partecipazione all’essere di Gesù Cristo. «Dio in forma umana», è un segno teologico fondamentale, applicato totalmente all’uomo che vive sulla terra»9 . Il termine redenzione non va inteso come fuga dal mondo, ma come liberazione storica, così come nell’Esodo la redenzione è avvenuta fuggendo dalla schiavitù dell’Egitto. Emergeva così il tema della prassi, sviluppato dalle teologie politiche e della liberazione poiché «il fatto religioso non è solo una teoria, ma una soterìa, una dottrina di salvezza e pertanto si deve considerare, insieme all’aspetto veritativo anche l’aspetto dell’efficacia che misura il quantum della verità con il quantum dell’efficacia storica»10. A conclusione di tutte queste ricerche, Mancini precisava il suo progetto di filosofia della religione come ermeneutica (interpretazione). «Propongo... di intendere la filosofia della religione ermeneutica del dato (il kerygma) perché diventi significato, ossia perché passi dal semplice essere offerto o trovato, a convincimento e a cosa per cui ci si possa decidere. Significato e cosa per cui ci si decide che, nel caso della religione intesa nel suo senso forte, esibisce un valore di salvezza, di emancipazione e di riconciliazione, quasi a dire che in questo passaggio dal dato al significato, dalla tradizione al convincimento, opera come decisivo il momento della prassi e la verifica politica di questo fenomeno»11.
Per un cristianesimo radicale
Dagli scritti di quegli anni emergeva la proposta di un cristianesimo radicale e paradossale12. Diverso dal comune modo di pensare. Si tratta di quel cristianesimo che il testamento di Francesco d’Assisi chiamava vivere secondo la forma del Vangelo e che aveva, e ha, come criterio di individuazione, «sentire da amaro che era lo stare con i lebbrosi» e che si prende cura della città dell’uomo. Nel prendersi cura il cristiano gioca non solo la sua libertà, ma acquista consapevolezza della politicità del sapere filosofico-teologico che ispira il coraggio di partecipare, prendere parte, essere da una parte, con il problema di operare, tramite la parte, la riconciliazione con il tutto. Riconciliazione è una parola che si ritrova spesso nell’ultimo Mancini, il Mancini degli anni Ottanta, che si dedicava intensamente anche a studi di filosofia del diritto. Una parola, la riconciliazione, che ha a che fare con il tema della pace e che è anche centro del messaggio cristiano, secondo cui «ci sarà il compimento armonico di tutte le relazioni: quelle dell’uomo con Dio, dell’uomo con l’altro uomo, dell’uomo con se stesso, dell’uomo con la natura»13.
Sottolineava la situazione drammatica del suo tempo (ma non è anche dell’oggi?) in cui si stava diffondendo, dopo la crisi del marxismo, lungamente studiato14, una logica della disgregazione (riprendendo l’espressione di Francesco Adorno) e, più tardi, l’a-significanza delle rotture, con l’alfa privativo. Questa espressione era stata messa in circolo da Gilles Deleuze e Fèlix Guattari, rappresentanti di quel “pensiero negativo” che giudicava mistificazione ciò che in Occidente da sempre era considerato degno di essere onorato e cioè la contrapposizione tra bello e brutto, buono e cattivo, giusto e ingiusto15. Come Nietzsche aveva profetizzato, si era affermata a livello di senso comune l’innocenza del divenire, vale a dire la libertà di poter sperimentare tutto, limitata soltanto dal criterio della sopportazione. «Ma a furia di calpestare il normale è ineluttabile che ci si trovi spinti nel corno buio dello sradicamento, dello spaesamento, dell’odio e della guerra»16.
Creare contromovimenti culturali
Osservava Mancini che si rendeva necessario dar luogo a contromovimenti culturali, a una cultura della riconciliazione, da attuare attraverso le convergenze etiche, cercando cioè insieme valori sostanziali che tutti avvertono, lavorando «mano nella mano, oltre e al riparo delle divisioni ideologiche, perché nessun sabato vale più dell’uomo»17. Le convergenze etiche rappresentano «un appello efficace a impegnarsi quotidianamente per la pace, il pane, la casa, il lavoro dignitoso, l’accoglienza e l’integrazione dello straniero»18. Nei suoi testi di filosofia del diritto, disciplina da lui configurata come ermeneutica del diritto, intendeva dare senso ai valori di giustizia, di validità e di efficacia, presenti nella grande massa di vita giuridica, senza riduzionismi. In quanto finalizzata alla prassi, l’dea di giustizia è il fondamentale valore, anzi è «vero portento e anima dell’Occidente», da considerare non solo in maniera formale, ma nell’agire dell’uomo giusto, vero fondamento del diritto. E per dare concretezza all’aspirazione di poter sconfiggere le categorie e della guerra e della morte, ne L’ethos dell’Occidente19, ambientava parole antiche (come il nomos greco, la torah ebraica e la cristiana justitia Dei), con l’insistita ripresa dei temi biblici da parte di Emmanuel Lèvinas in Totalità e infinito, affinché prendesse corpo il primato della vita morale, consistente, per dirla con Bruno Forte, nello «scoprire l’altro nella sua irriducibile dignità, nella fondatezza dei suoi bisogni reali, che sono anche i suoi diritti nei confronti del chiuso totalitarismo dell’io»20.
Mancini non aveva mai abbandonato i temi filosofico-teologici e accumulava materiali, pubblicati postumi in un volume, a cura di Andrea Aguti, dal titolo, Frammento su Dio21.Lo ha chiamato Frammento perché il suo discorso su Dio voleva essere organico, ma era e rimane sempre incompleto e pertanto aperto a ulteriori interrogazioni. Era una tappa nell’elaborazione di quella che chiamava “teologia dei doppi pensieri”, e prendeva l’espressione da L’Idiota di Dostoevskij per dire la struttura del pensiero umano. Riferita alla teologia, l’espressione indicava la logica della fede, una logica insita nella fede stessa, che ispira e gestisce la logica dei doppi pensieri utilizzando il linguaggio simbolico nel parlare di Dio, al cui vertice sta l’ossimoro, cioè l’unità semantica dei contrari, dove i contrari, pur uniti, restano tali. L’ossimoro è la cifra ineludibile dell’intenzionalità conoscitiva della fede. I segni del linguaggio simbolico sono indubbiamente fragili e deboli: esprimono le manifestazioni di Dio, ma non possono esprimere l’essere in sé di Dio, che rimane sempre nel suo “assoluto incognito”. Una presenza nascosta, nascosta anche quando si svela; ci si può rapportare a Lui solo con la preghiera. «L’impegno per la dimostrazione si trasforma così nell’invocazione che Dio parli dove si parla di lui. Al significare della preghiera il filosofo consegna tutta la sua fatica, quanto più non si è risparmiato e nulla ha lasciato di intentato. La preghiera, dunque, non si impianta nel deserto della ragione»22.
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Antologia
Il senso di un itinerario
Subito dopo essere diventato sacerdote mi sono portato all’Università Cattolica di Milano, vincendo una delle due borse di studio, per compiervi gli studi filosofici, terminati nel novembre del 1953 con una tesi di laurea su Il non essere in Platone, sotto la guida di quello che divenne subito il mio ispiratore e maestro, cioè Gustavo Bontadini. Mi sono così formato alla Cattolica, nell’immediato dopoguerra, in una Milano incredibilmente attiva ed europea. E alla scuola neoscolastica sono rimasto idealmente e per vari anni istituzionalmente fedele, soprattutto nella tipica apertura degli ultimi decenni che ha fatto parlare, più che di filosofia neoscolastica, di filosofia neoclassica, nel senso che il campo medievale tomistico è stato inserito nel solco costante delle domande e delle risposte, che potremmo chiamare classiche, lungo l’arco del filosofare.
Ho parlato di una Milano incredibilmente attiva ed europea: nelle cattedre filosofiche della Cattolica c’erano ancora Amato Masnovo, Francesco Olgiati, lo psicologo Agostino Gemelli, il pedagogista Mario Casotti, lo psicologo Giorgio Zunini, e, dall’altra parte, nell’Università Statale, amica e rivale, c’erano Antonio Banfi, Mario Dal Pra, Enzo Paci, Remo Cantoni e molti altri che hanno lasciato un segno non facilmente delebile della storia della filosofia più recente. Della Cattolica sono stato borsista, studente, assistente volontario, poi, quando ebbi la libera docenza in Filosofia teoretica, divenni, anche docente, prima nei corsi di Magistero a Castelnuovo Fogliani, e poi, iniziando quella che è stata e resta la mia vocazione più vera, docente di Filosofia della religione, nella Facoltà di Lettere della Cattolica.
Poi sono stato chiamato a Urbino, dove ormai da venti anni insegno Filosofia; e ora collego alla Filosofia l’insegnamento della Filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza, con centinaia e centinaia di alunni che stimolano quella che rimane al fondo della mia ricerca e della mia personalità e cioè, come ho detto prima, lo studio del mondo di Dio (religione) e lo studio del mondo dell’uomo (diritto) che, nelle figure giuridiche come lo Stato, diritti soggettivi e oggettivi, i fondamenti e la funzione dell’autorità e della pena, ha i momenti più decisivi e più alti della sua costituzione.
Anche la scelta della mia libera Università di Urbino rappresenta un atto di fedeltà ai valori della provincia e anche una scelta di maggiore aderenza ai fronti di lotta religiosi e civili, che mi hanno portato a delineare le forme di un cristianesimo aperto e a ricercare gli spazi inediti per un confronto con le culture contemporanee.
(I. Mancini, Cristianesimo e cultura, intervista a cura di L. Lestingi, Capone Editore, Manduria 1984, pp. 16-17)
Filosofia della religione come ermeneutica della rivelazione
Quando nell’estate in cui andavo preparando il primo corso milanese, proprio a ridosso di quel Sessantotto che è scoppiato e abbiamo vissuto proprio alla Cattolica, ho sentito chiaramente di trovarmi di fronte ad un bivio: o fare, al modo vecchio, una Filosofia della religione “costruttiva”, prolungando la metafisica o individuando “una provincia” speciale dello spirito in cui la religione poteva trascendentalmente trovare il suo organo, oppure dare vita ad una filosofia della religione di natura “recettiva”, com’è stata detta, ossia ponendo i necessari atti filosofici, pur entro la struttura ermeneutica, come satelliti del sovrano kerygma. La lettura del Römerbrief (Lettera ai Romami) di Katl Barth... mi catturò e nacque quella via kerigmatocentrica che metteva nel vivo delle lotte ecclesiali ed extraecclesiali. I giovani, anche sessantotteschi, sia a Milano poi a Urbino, sentirono aria fresca e nuova e ci si buttarono con straordinario impegno e fantasia... Nel quadro di una filosofia della religione come epistemologia del kerygma, il travaglio delle chiese e delle lotte politiche, la contestazione e i giovani legami con aspetti accademicamente inediti, erano presenti e sempre a casa loro.
È nata così, in questi anni Sessanta, che hanno compiuto la più grande e non marxista, cioè non economocista, rivoluzione, la prima edizione di Filosofia della religione (1968). Il tentativo, primo in Italia, di accerchiare filosoficamente la religione come rivelazione nelle sue parole di salvezza, eventi fondatori, comunità pneumatiche non psichiche e comandamenti, come apostrofi storiche e non cosmologizzanti leggi di natura, resiste. [...]
Gli sconvolgimenti del Sessantotto, l’ascesa del politico e la crisi di legittimità del pubblico, mi portarono per tutti gli anni Settanta a mettere a confronto questo risultato, non indegno né del filosofo e neppure del teologo, sebbene entrambi lo guardino talvolta con sospetto, con le ideologie emergenti, con il marximo... ma anche con l’ideologia cibernetica, quella radicale e via dicendo... Sono nati così molti studi...
Pur continuando a tener fermi questi risultati (la storia, anche mia, non è un ripostiglio dei rifiuti) dei tre decenni trascorsi – l’essere, la verità del kerygma come differenza, la prassi, soprattutto quella pubblica, espressa nei comuni fronti di lotta – sentivo che era necessaria una logica nuova per fare di tutto ciò non una sequenza disgregata, di momenti in decomposizione, ma una munificenza da raccogliere e serbare nel logos, secondo il suo etimo più radicale investigato da Heidegger, attraverso quella logica dei doppi pensieri che ha nella fondazione veritativa la sua sostanza, nel linguaggio sensato il suo limite e nella doppiezza il suo scandalo.
(I. Mancini, Teologia dei doppi pensieri in Aa.Vv., Essere teologi oggi. Dieci storie, a cura di L. Sartori, Marietti, Casale Monferrato 1986, pp. 81-96.
Note
1 Cfr. P. Grassi (a cura di), Dalla metafisica all’ermeneutica. Una scuola di filosofia a Urbino, Vita e Pensiero, Milano 2023. Italo Mancini era nato a Schieti (frazione di Urbino) il 4 marzo 1925 ed è deceduto a Roma, mentre era ricoverato al Policlinico Gemelli, il 7 marzo del 1993.
2 C. Bo, La finestra illuminata di don Italo, Prefazione a I. Mancini, Futuro dell’uomo e spazio per l’invocazione, Edizioni l’Astrogallo, Ancona 1975, pp. 9-13.
3 Ivi, p. 9.
4 Edito da Vita e Pensiero, Milano 1964.
5 Mancini ha delineato un’efficace sintesi del pensiero di questi autori in Novecento teologico, Morcelliana, Brescia 2009 (prima edizione, Vallecchi, Firenze 1977).
6 I. Mancini, Cristianesimo e cultura, intervista a cura di L. Lestingi, Capone Editore, Manduria 1984, p. 16.
7 Entrambe pubblicate dall’editrice milanese Bompiani nel 1969.
8 I. Mancini, Scritti cristiani, Marietti, Bologna 1991, p. 93.
9 P. Grassi, Intervista a Italo Mancini sulla teologia contemporanea, Quaderno 35 de “il Nuovo Leopardi”, p. 27.
10 Ivi, p. 29. Ma si veda, per approfondire, Filosofia della religione, Abete, Roma 1968 (cui seguirono quattro ristampe riviste e ampliate) ora riedita da Morcelliana nel 2007, Teologia, ideologia, utopia, Queriniana, Brescia 1974, opera anch’essa riedita da Morcelliana nel 2011.
11 I. Mancini, Quale e quanta filosofia, in I. Mancini, Futuro dell’uomo e spazio per l’invocazione, L'Astrogallo, Ancona 1975, pp. 135-163.
12 Cfr., tra gli altri studi, Con quale cristianesimo, Coines edizioni, Roma 1978 e Come continuare a credere, Rusconi, Milano 1980.
13 I. Mancini, Tornino i volti, Marietti, Genova 1989, p. 42.
14 Id., Con quale comunismo, La locusta, Vicenza 1976.
15 Cfr. in particolare, Il pensiero negativo e la nuova destra, Mondadori, Milano 1983, pp. 11-37.
16 I. Mancini, Tornino i volti, cit., p. 46.
17 Ivi.
18 Ivi.
19 Morcelliana, Brescia 2015. Accanto a quest’opera ponderosa, pubblicata in prima edizione a Genova presso Marietti, è da ricordare Filosofia della prassi, Morcelliana, Brescia 1986, giunta ora alla quarta edizione (2018).
20 M. Cacciari, B. Forte, Dio nei doppi pensieri, Attualità di Italo Mancini, Morcelliana, Brescia 2017, p. 29.
21 Edito da Morcelliana, Brescia 2001. È in cantiere la pubblicazione di una seconda edizione, sempre presso Morcelliana.
22 P. Grassi (a cura di), Dalla metafisica all’ermeneutica. Una scuola di filosofia di Urbino, cit., p. 78.