La legge del mare, prima di qualsiasi disposizione giuridica, impone il soccorso ai naviganti, soprattutto ai naufraghi e a chi, comunque, si trova in pericolo. Ogni normativa che impedisce o limita in modo sostanziale questa esigenza infrange un dovere di solidarietà ed è da ritenere eticamente iniqua.
Il mar Mediterraneo ha un’estensione ristretta e ben circoscritta che lo ha reso abitabile, avvicinando i lembi di terra che lo abbracciano e mettendo in comunicazione i popoli circostanti, superando le barriere della diffidenza e favorendo l’accettazione complementare delle rispettive diversità. Dunque questo è un mare dell’abbraccio e un mare che abbraccia. Ciò non deve, in ogni caso, indurre la falsa sensazione che il Mediterraneo sia stato e sia ancora un’oasi di pace nel contesto di una vagheggiata età dell’oro. Se, infatti, erano e sono numerose le navi cariche di merci e prodotti della terra e dell’ingegno umano per gli scambi commerciali, non mancavano e permangono le tante imbarcazioni cariche di armi, strumenti implacabili di morte e distruzione. Questo mare è, perciò, caratterizzato da una evidente contraddittorietà, profilo dolente della sua bellezza e delle sue peculiarità.
Una nota, collegata in modo singolare alla configurazione del Mediterraneo, è la particolare rilevanza in esso della ben nota “legge del mare”. Non si tratta di una esclusività del nostro mare – è bene precisarlo –, ma in esso assume un riscontro drammatico a motivo del fenomeno migratorio che negli anni recenti ha assunto dimensioni mai verificatesi prima, con un tragico tributo di morti assolutamente intollerabile. L’aspetto più inquietante del problema è il divario tra il quadro normativo internazionale, che regola questa materia, e le inadempienze operative degli stati coinvolti, soprattutto quelli che sono governati da forze politiche di destra. L’esigenza di una legge del mare, con carattere vincolante sotto il profilo giuridico, ma soprattutto cogente per ragioni etiche indipendenti dalla propria fede, è felicemente sintetizzata da una cronista testimone di quanto accade nel Mediterraneo. In una pubblicazione di qualche anno addietro vengono così descritte le dinamiche in gioco: «In mare non ci sono stranieri o cittadini, clandestini o rifugiati, ma solo naviganti e naufraghi. I primi sono costretti da una legge naturale a soccorrere i secondi. Perché, come nel riflesso di uno specchio, tutti i naufraghi sono stati naviganti, tutti i naviganti potrebbero diventare naufraghi. Questa logica binaria obbliga le imbarcazioni che vanno per mare a soccorrere chi è in difficoltà. Davanti a questo stato di necessità tutti gli altri interessi passano in secondo piano»1. Sembrano affermazioni ovvie e scontate, ma non è così: la cronaca, purtroppo, testimonia quotidianamente lo scarto tra questa osservazione e le modalità con le quali ciascun ordinamento dà attuazione al principio teorico.
Proprio questa logica binaria mi suggerisce di raccogliere sotto la prospettiva dell’accoglienza e del dialogo la complessa realtà dell’attraversamento del Mediterraneo e le strategie di soccorso, la cui storia negli ultimi decenni è risultata assai controversa e contraddittoria. Forse, però, più che di una storia di accoglienza e di dialogo, bisogna parlare del rifiuto di accoglienza nella forma dei respingimenti che hanno infangato la storia del nostro Paese e delle sue istituzioni. Peraltro, tale strategia disumana era stata preceduta e avvalorata dal «Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana», sottoscritto il 2 febbraio 2017 da Fayez Mustafa Serraj, presidente del Consiglio presidenziale libico, e da Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio dei ministri. La trattativa era stata condotta dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. I costi economici, ma soprattutto le conseguenze per le vite mane perdute e per il ritorno dei respinti nei lager libici, sono stati continuamente denunciati da associazioni umanitarie e di volontariato e da organizzazioni non governative (Ong), che hanno pressato inutilmente affinché alle scadenze triennali non fosse rinnovato quel protocollo ritenuto vergognoso, disumano e intollerabile.
In aggiunta a ciò occorre evidenziare un graduale e progressivo cambiamento di una consistente fetta dell’opinione pubblica italiana, sempre più schierata su posizioni di intolleranza, discriminazione e razzismo. E proprio su questi stati d’animo sta avendo buon gioco la strategia politica del Governo Meloni, forte di un consenso che su questa materia risente di componenti ideologiche sovraniste. Peraltro, le considerazioni poste a motivazione del fenomeno migratorio fanno grande leva sul ruolo delle organizzazioni criminali, che è innegabile, ma non esclusivo o preminente.
Adombrano, altresì, profitti economici delle Ong, alimentando il sospetto che le loro operazioni di soccorso in mare siano tutt’altro che gesti dettati da motivazioni di carattere umanitario. Per non dire del tentativo di una criminalizzazione generalizzata dei migranti, facendo scivolare il discorso sui problemi della sicurezza e dell’ordine pubblico, come espressamente dichiarato dalla presidente Meloni nel suo discorso alla Camera, introducendo il dibattito sulla fiducia al nuovo Governo. Queste le sue parole: «In questi anni di terribile incapacità nel trovare le giuste soluzioni alle diverse crisi migratorie, troppi uomini e donne, e bambini, hanno trovato la morte in mare nel tentativo di arrivare in Italia.
Troppe volte abbiamo detto “mai più”, per poi doverlo ripetere ancora e ancora. Questo Governo vuole quindi perseguire una strada poco percorsa fino a oggi: fermare le partenze illegali, spezzando finalmente il traffico di esseri umani nel Mediterraneo». In altri termini, si tenta di giocare sulle emozioni e sulle preoccupazioni della gente, riducendo il complesso e doloroso fenomeno migratorio a “traffico di esseri umani” e poter così legittimare i provvedimenti contenuti nel decreto-legge 2 gennaio 2023, n. 1, recante «Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori», il cosiddetto “decreto sicurezza”.
Ovviamente le disposizioni contenute nel decreto-legge sono state condivise dai partiti che sostengono il Governo, con isolate eccezioni; ma sono state fortemente criticate dalle opposizioni, dalle forze sociali, dalle organizzazioni umanitarie e di volontariato e con fermezza dalle Ong, impegnate nelle campagne di salvataggio in mare. Sul piano etico sono assolutamente non condivisibili perché ledono i princìpi di soccorso, accoglienza e solidarietà nei confronti di persone che chiedono aiuto. Lo ha dichiarato in modo inequivocabile mons. Giancarlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Commissione episcopale della Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes: «È paradossale che uno strumento che in questi anni è stato di sicurezza per almeno il 10 per cento delle persone che sono sbarcate nel nostro Paese e in Europa sia considerato uno strumento di insicurezza.
Da questo punto di vista credo che questo decreto cadrà presto, nel senso che è costruito sul nulla, costruito soprattutto su un segnale di insicurezza che in realtà è fasullo»2. Per gli aspetti giuridici sono stati rilevati diversi profili di incostituzionalità e punti di contrasto con alcuni trattati internazionali concernenti la materia. Per non dire che qualche disposizione offende anche il buon senso quando si impedisce, per esempio, a una nave che ha effettuato un salvataggio di soccorrere altri naufraghi per puntare verso il cosiddetto porto sicuro assegnatole.
L’aspetto più inquietante dell’intero pacchetto normativo rimane, però, la logica sulla quale si fonda e cioè una prospettiva miope e repressiva che fa leva sul sistema sanzionatorio e che trasferisce la competenza per i casi di presunta violazione dall’ambito giudiziario a quello amministrativo, rendendo le sanzioni immediatamente esecutive, bloccando così di fatto l’attività delle Ong. Per di più, la natura e la misura delle sanzioni è fortemente odiosa e penalizzante e tale da mettere a rischio definitivamente le stesse operazioni di salvataggio. Infatti, l’entità delle multe e il tempo di fermo delle imbarcazioni o il loro sequestro hanno l’effetto deterrente che è esattamente l’obiettivo inconfessato del Governo. Infatti, questi dispositivi, che aggirano la ricerca di soluzioni vere al problema migratorio, scoraggiano le partenze, renano e in qualche modo ridimensionano la macchina dei soccorsi in mare, sposando un profilo machiavellico che evita di parlare di respingimenti, ma perseguendo ugualmente tale obiettivo. Una ulteriore conferma di questo indirizzo politico, oltre alle multe e al fermo o sequestro delle navi Ong, è la scelta di porti sicuri molto distanti dal Mediterraneo, che in alcuni casi raddoppia la durata dei viaggi, impedendo contestualmente alle navi di poter tornare in tempi brevi sullo scenario dei naufragi. Il tutto giustificato con la motivazione soltanto pretestuosa che non si possono intasare i porti e le strutture di Sicilia e Calabria.
Se, infine, si dà uno sguardo ai numeri, il quadro appare in tutta la sua tragicità ed è un vero e proprio atto di accusa contro chi persegue questa logica intimidatoria. Nel 2021 le persone respinte in Libia dalla cosiddetta Guardia costiera libica, con la complicità di governi compiacenti, e ricondotte nei lager o uccise sono state 32.400, a fronte delle 11.200 del 2020; sono dati contenuti nel “Report” 2022 sul diritto d’asilo della Fondazione Migrantes. Mentre sono 104.500 in totale i deportati dopo la stipula del “Memorandum” del 2017. Cifre impressionanti, alle quali aggiungere 1800 tra morti e dispersi in mare, secondo una stima alquanto approssimativa per difetto.
La storia darà un giudizio assai severo su questi rigidi profili normativi, perché tradiscono la vocazione del Mediterraneo, trasformato da mare dell’abbraccio accogliente a mare del rifiuto e della morte.
Note
1 A. Camilli, La legge del mare. Cronache dei soccorsi nel Mediterraneo, Rizzoli, Milano 2019, p. 7.
2 Intervista su «Vatican news» del 29 dicembre 2022.