Quali sono i principali tratti che stanno contrassegnando l’esercizio del ministero di vescovo di Roma da parte di papa Francesco?
E quali elementi, emersi nella convivenza tra Benedetto XVI e Francesco, sono bisognosi di un approfondimento teologico e di una messa a punto di carattere normativo? La riflessione qui proposta prova a delineare un quadro generale della questione.
Con la morte di Benedetto XVI si è concluso un periodo particolarmente interessante per gli studiosi del papato e, più in generale, per chi si occupa di questioni che riguardano la struttura gerarchica della Chiesa. Si è trattato di un arco di tempo che potrebbe essere racchiuso tra due date: l’11 febbraio 2013, giorno in cui papa Benedetto rinuncia al ministero di vescovo di Roma, e il 31 dicembre 2022, suo dies natalis. Nello spazio di questi quasi dieci anni è stato possibile seguire il succedersi di avvenimenti, di risoluzioni prese, di passi compiuti che meritano di essere riletti, perché interpellano la teologia e il diritto a offrire gli approfondimenti dovuti o a colmare le lacune emerse.
La rinuncia al ministero petrino, infatti, ha generato non solo la necessità di un nuovo Conclave per l’elezione del successore di Benedetto XVI, ma ha via via fatto emergere alcune questioni correlate e conseguenti alla situazione creatasi. Con l’inizio del periodo di sede vacante, infatti, Joseph Ratzinger si presenta sulla scena ecclesiale come papa emerito, un titolo che metterà in evidenza più il servizio attribuitogli dall’elezione a vescovo di Roma, che non l’esercizio del munus episcopale in virtù del quale, sedendo su quella cattedra, aveva potuto esercitare lo stesso ministero petrino. In qualità di papa emerito1, annuncia di voler continuare a servire la Chiesa nel silenzio della preghiera, stabilendo la sua dimora all’interno delle mura vaticane presso il Monastero Mater Ecclesiae.
Dal Conclave viene eletto papa il cardinale Bergoglio, che la sera del 13 marzo 2013 si presenta al mondo col nome di Francesco, indicandosi come quel vescovo che i cardinali hanno voluto dare a Roma scegliendolo «dalla fine del mondo». Nelle prime parole da lui pronunciate c’è un chiaro riferimento a quel peculiare rapporto tra vescovo e popolo che, già dalla più antica tradizione patristica, ha definito il servizio episcopale2. Comincia così una nuova stagione del papato, erede di una situazione ecclesiale complessa, mentre ancora determinante è avvertita la presenza del papa emerito, soprattutto per via di effetti generati dalla stessa rinuncia.
Questa “convivenza”, senza limitarsi ad analizzare il modo con cui Francesco e Benedetto l’hanno vissuta, non può essere letta solo sul piano dei buoni sentimenti o della correttezza formale dei rapporti tra loro, ma, proprio in ragione della sua possibile reiterabilità, ha bisogno di essere indagata anche nei suoi risvolti teologici e canonistici, perché le condizioni di esercizio del ministero petrino non vengano incrinate e allo stesso tempo la libertà di una scelta di rinuncia rispettata anche nelle sue conseguenze.
Questa congiuntura di fatto ha svelato come urgente una normativa che regolamenti la condizione di un possibile vescovo emerito di Roma, ridefinendone il profilo ecclesiale e l’insieme dei diritti e dei doveri a lui propri. Se, infatti, l’irruzione di una situazione inattesa ha svelato una palese lacuna nella normativa canonica, il fatto che si sia compiuta ha, d’altra parte, portato all’evidenza l’esigenza di colmare quel vuoto giuridico, offrendo alla stessa teologia la possibilità di riaprire il suo dossier sulla questione3.
I tratti principali del papato di Francesco
Il pontificato di Francesco è contrassegnato, fin dalle prime battute, da un magistero fatto di gesti e di parole che non lasciano dubbi sul modo col quale egli intende interpretare la forma di esercizio del ministero di vescovo di Roma. Non pochi elementi derivano dalla sua biografia, dalla sua origine e dalla sua formazione, altri dal collocare il ministero apostolico nel quadro di una Chiesa chiamata a conversione missionaria. Volendo ricostruire i passaggi salienti del suo magistero nei quali è presente il tema del papato, si deve necessariamente partire da quanto in Evangelii gaudium egli scrive a proposito della riforma nella Chiesa: «A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati a un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione» (32).
Sono indicati come due movimenti: uno verso l’origine, nella ricerca di una maggiore fedeltà al fondamento evangelico dell’incarico petrino, e uno verso il presente, in ascolto delle condizioni attuali nelle quali la Chiesa non cessa di annunciare il Vangelo. In fondo, da questo punto di vista, Francesco si muove nel solco già tracciato da Giovanni Paolo II il quale chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una nuova situazione» (Ut unum sint, 95)4.
A Bergoglio appare subito chiaro che riformare il papato significa anche mettere mano alle strutture centrali della Chiesa universale. Da tale prospettiva, in questi ultimi anni si sono potute riconoscere come due sponde all’interno delle quali egli ha cercato di far avanzare questo progetto: la prima è quella di un invito pressante e fermo alla conversione interiore di quanti lavorano negli organismi della Curia romana a servizio del ministero petrino5, e l’altra, sul piano istituzionale, è stata quella di un piano complessivo di riforma strutturale della stessa Curia, contenuto nella costituzione apostolica Praedicate evangelium, promulgata il 19 marzo 2022. La scelta del titolo di quel documento evidenzia il contesto e la ragione della riforma in programma, richiamando la natura pastorale del servizio della Curia e riconoscendo nel primato dell’evangelizzazione il criterio decisivo per rileggere lo stesso ministero del vescovo di Roma, in rapporto alla Chiesa universale, e il servizio dei dicasteri romani a tale ufficio. Come si legge nella costituzione apostolica, infatti, «la Curia Romana non si colloca tra il Papa e i Vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi secondo le modalità che sono proprie della natura di ciascuno» (Pe 8).
Nei primi giorni del nuovo anno, il 6 gennaio 2023, viene pubblicata una nuova costituzione apostolica, intitolata In Ecclesiarum communione, con la quale papa Francesco riorganizza il Vicariato di Roma. Sulla scia di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, che lo hanno preceduto nella cura per quell’organismo che a Roma svolge la funzione di Curia diocesana, in questo ultimo documento si ritrovano elementi che esplicitano la forma con la quale Francesco intende esercitare il proprio ministero di vescovo di Roma, proprio a partire dalla ridefinizione dei rapporti all’interno dello stesso consiglio episcopale della diocesi romana, che egli riconosce come corpo costituito dall’insieme dei vescovi ausiliari che, con lui, governano la Chiesa di Roma. Da tale prospettiva emerge con chiarezza il modo con cui egli interpreta il papato, al crocevia tra la Chiesa universale e la Chiesa particolare di Roma, pur nella mediazione, in un ruolo vicario, della Curia romana da una parte e del Vicariato dall’altra. Questa struttura enfatizza senza dubbio la natura episcopale del servizio petrino in quella complessa tensione che si dà tra universale e particolare.
I vescovi, Traditionis Custodes
Nel piano complessivo di riforma della Chiesa assume un posto non secondario il recupero di una visione dello stesso episcopato, che Francesco eredita dal Vaticano II. Con un titolo desunto da un’espressione propria di Ireneo di Lione – Traditionis Custodes –, papa Francesco pubblica, il 16 luglio 2021, un Motu proprio sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, nel quale sottolinea il compito della custodia della tradizione come proprio del vescovo, riconoscendolo, all’interno della propria Chiesa particolare, garante non solo dell’ortodossia, ma anche di quella ortoprassi che, in modo singolare, si esprime nella vita liturgica. La portata di questo documento si coglie non solo in relazione alla materia liturgica trattata, ma anche al rilancio di una figura di vescovo che costituisce il visibile principio e fondamento di unità nella sua Chiesa particolare. Tale precisazione contribuisce a configurare, secondo quanto già il Vaticano II aveva considerato, la relazione tra il vescovo di Roma e i singoli vescovi delle Chiese locali.
Un papato in una Chiesa sinodale
Un elemento ulteriore che contrassegna l’attuale pontificato e che mostra Francesco come figlio del Vaticano II è, senza dubbio, la qualità collegiale e sinodale del ministero papale. È possibile trovare riscontro di questa feconda dipendenza non solo nei richiami espliciti e continui alla dottrina conciliare, ma anche nel tentativo di farne avanzare la recezione nella stagione ecclesiale attuale.
Un esempio, a riguardo, può essere la costituzione apostolica Episcopalis communio, con la quale papa Francesco riorganizza la forma di collegialità che si esprime nell’istituto del Sinodo dei vescovi, ormai a più di cinquant’anni dalla sua istituzione da parte di Paolo VI. È interessante notare come anche questa istituzione sia ricollocata nel quadro di una Chiesa che vive in uno «stato permanente di missione», la cui funzione è quella di «diventare sempre più “un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione”» (Episcopalis communio, 1).
La ragione di tale ridefinizione risiede nel fatto che «il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale» (Lumen gentium, 23). Questa acquisizione, derivata dalla dottrina sull’episcopato del Vaticano II, porta il papa a rimettere al centro dell’attenzione la questione, tanto dibattuta al Concilio, della collegialità episcopale e delle relazioni tra il vescovo di Roma e gli altri vescovi, riconoscendo che, se è vero che il Collegio episcopale non può esistere senza il suo capo, è anche vero che lo stesso vescovo di Roma «è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e con tutta la Chiesa», come afferma il can. 333§2 del Codice di diritto canonico, richiamato in Episcopalis communio 10.
Il riferimento all’affermazione utilizzata dal Codice dovrebbe voler dire che il papa ha sempre una mens comune con gli altri vescovi. Dal momento, però, che sul piano della prassi è lui stesso a decidere se esercitare la sua potestas con un atto personale o attraverso un’azione collegiale dell’episcopato, questo richiamo alla normativa canonica aiuta a comprendere meglio la ricollocazione del Sinodo dei vescovi all’interno di un processo ecclesiale, tutto sinodale, nel quale i vescovi danno voce all’ascolto del popolo di Dio e così contribuiscono alla realizzazione della missione propria dello stesso Collegio episcopale col suo capo6.
Tale considerazione porta inevitabilmente l’attenzione sul carattere sinodale di tutta la Chiesa, quale tratto peculiare che identifica l’attuale pontificato, nonché lo stesso esercizio del ministero petrino. La formazione alla scuola della spiritualità ignaziana e il radicamento nella teologia del popolo, sviluppata proprio nel contesto della Chiesa argentina, costituiscono senza dubbio per papa Francesco i pilastri principali a partire dai quali prende forma un papato che si caratterizza per una forte spinta missionaria, sostenuta da un’autorità testimoniale, legata alla sua persona nonché alla sua vicenda biografica, e dall’esercizio di una potestas, derivata dall’ufficio di vescovo di Roma, che orientano i processi ecclesiali in una direzione al contempo sinodale e popolare.
Tra centro e periferie
Sin dal momento dell’elezione a vescovo di Roma si è fatta chiara, tanto nelle parole quanto nei gesti di Francesco, un’attenzione specifica alle periferie, intese anzitutto in senso esistenziale, ma nondimeno anche in senso ecclesiale. Se le prime imprimono alla Chiesa un movimento «in uscita», le seconde inducono a chiarire i termini del loro rapporto col centro, come pure il ruolo di quest’ultimo nei processi ecclesiali. Anche su questo versante il magistero di Francesco, sin dalle prime battute, rileva la necessità che in una Chiesa missionaria siano attivati processi di decentralizzazione. In Evangelii gaudium, a tal proposito, si legge: «Non credo [...] che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (16). Del resto, «un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (32)7.
In tale processo di decentralizzazione un ruolo decisivo possono svolgerlo le Conferenze episcopali, che fungono da istanze intermedie tra il ministero del vescovo di Roma e dell’intero Collegio episcopale e il singolo vescovo diocesano. Indicando questa via come ancora tutta da percorrere, il papato di Francesco porta i segni chiari della lezione conciliare che, attivando un processo di superamento di una visione ecclesiale a carattere essenzialmente universalistico, recupera una soggettualità delle chiese particolari e della loro communio, garantita proprio dalla sollecitudine dell’intero collegio episcopale e, in esso, del singolo vescovo, a partire dal successore dell’apostolo Pietro. Su tale versante il cammino è solo all’inizio, ma potrà essere percorso con la certezza che la Chiesa, pur nel passo lento e a volte incerto degli uomini e delle strutture, resta pur sempre il luogo «ubi floret Spiritus».
Note
1 R. Regoli, La novità del papato emerito. Unicità storica o inizio di nuovi tempi, in A. Feniello e Mario Prignano (a cura di), Papa, non più papa. La rinuncia pontificia nella storia e nel diritto canonico, Viella, Roma 2022, pp. 89-110.
2 Tra i riferimenti possibili vale la pena di menzionare l’affermazione di Ignazio di Antiochia secondo il quale «ubi Episcopus ibi Ecclesia» (Lettera agli Smirnesi) o quella di Ambrogio per il quale «ubi Petrus ibi Ecclesia» (Commento sui Salmi).
3 G. Ghirlanda, La rinuncia al suo munus da parte del Romano pontefice: il canone 332, in A. Feniello e Mario Prignano (a cura di), Papa, non più papa. La rinuncia pontifica nella storia e nel diritto canonico, pp. 111-133. Nello stesso volume si veda pure G. Boni, Prospettive de iure condendo, pp. 135-166.
4 J.R. Quinn, Per una riforma del Papato. L’impegnativo appello all’unità dei cristiani, Queriniana, Brescia 2000, pp. 12-14.
5 Sarebbe sufficiente, a tal proposito, rileggere i discorsi di Francesco alla Curia Romana in occasione degli auguri natalizi.
6 S. Dianich, Per una teologia del papato, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2010, pp. 130-135.
7 H.J. Pottmeyer, Il ruolo del Papato nel terzo millennio, Queriniana, Brescia 2002, pp. 142-157.