La crisi climatica globale mostra le interconnessioni tra i paesi e acuisce il problema delle disuguaglianze. La via d'uscita da percorrere, come è apparso chiaro a Dubai, non può che essere quella del multilateralismo.
«Dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico, perché significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico. Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta» (LD, 53-54).
Rileggere Laudate Deum dopo Dubai offre un’efficace lezione di coraggio profetico e saggezza politica. Quando papa Francesco l’ha pubblicata, settanta giorni prima della conclusione della Conferenza Onu sul clima (Cop28), pochi nutrivano la speranza che qualcosa di buono venisse dalla “Cop dei petrolieri”. Non solo, il vertice si sarebbe svolto negli Emirati, una dei primi dieci produttori mondiali di greggio. La sua presidenza era stata affidata ad Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale Adnoc. Le premesse, dunque, non potevano essere peggiori. Eppure la svolta – quanto meno il primo passo in tale direzione – c’è stata. Il vertice si è concluso con l’approvazione di un documento che chiede alle parti di «avviare la transizione verso l’allontanamento dei combustibili fossili nei propri sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando le azioni in questo decennio»1 . Un giro di parole un po’ arzigogolato per dribblare il termine “eliminazione graduale” o “phase out”, in inglese, su cui si era incagliato il negoziato a causa dell’opposizione delle petro-potenze. Il mandato politico, comunque, è chiaro. Oltretutto è stato conferito nel primo “bilancio globale” in cui, come disposto dall’Accordo di Parigi, i paesi firmatari hanno fatto il punto delle politiche climatiche finora adottate e tracciato la strada per il prossimo futuro. Un percorso che conduce alla fine dell’era fossile. Il testo, oltretutto, fissa un orizzonte temporale stringente per l’avvio della transizione: questa decade. E sigla l’impegno a triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. Il summit si è aperto, infine, con l’entrata in funzione del fondo per compensare i paesi poveri delle perdite ambientali, approvato alla Cop27 di Sharm el-Sheikh dopo una durissima battaglia. A Dubai la decisione è diventata operativa con le prime donazioni. Poche in realtà. Si parla di circa 700 milioni di dollari, di cui 108 versati dall’Italia, la più generosa insieme alla Germania. Briciole, comunque, rispetto alle reali necessità. L’anno scorso gli impatti del clima sono costati ai paesi vulnerabili 109 miliardi di dollari.
L’evidente sproporzione tra necessità reali e soluzioni aiuta a comprendere le differenti posizioni sui risultati del summit. Per il presidente Al Jaber l’accordo è stato «storico». Il presidente Usa Joe Biden ha parlato di «pietra miliare». Per la delegata di Samoa, Anne Rasmussen, si è trattato di «una litania di scappatoie». A preoccupare i paesi insulari è, in particolare, l’assenza di approfondimenti sulla mitigazione degli effetti causati dal cambiamento climatico e l’idea che la transizione verso un sistema basato sulla produzione di energia pulita abbia prevalso sulla rottamazione totale e definitiva dei combustibili fossili (anche nell’industria). A loro dire, ancora, è ambiguo il riferimento all’uso dei “carburanti transitori”, che spesso si riferiscono al gas, e alle tecnologie, come quelle adottate per cattura e stoccaggio del carbonio, che in assenza di linee guida ben precise “potrebbero minare gli sforzi” finora compiuti per contenere l’emergenza climatica.
Harjeet Singh, ambientalista indiano tra i più accreditati, esponente del Climate action network e consulente delle Nazioni Unite, lo considera una “bussola”, il cui nord è l’uscita dai combustibili fossili. «Finalmente abbiamo uno strumento che indica ai Paesi la giusta direzione. Troppo a lungo abbiamo eluso la questione idrocarburi. E per questo non abbiamo risolto la crisi climatica [spiega]. La strada è aperta. Si tratta di percorrerla»2 . Non sarà facile. Il primo passo per l’abbandono delle fonti fossili sarebbe lo stop dei nuovi progetti e lo spostamento dei capitali su impianti per la produzione di energie rinnovabili. Purtroppo avviene il contrario, proprio a partire da chi, a parole, è maggiormente impegnato nella lotta contro i gas serra.
Il rapporto di settembre del centro di monitoraggio Oil change svela il paradosso. Venti Stati hanno piani di espansione dell’industria fossile che, in meno di trent’anni, dovrebbero causare oltre 1200 gigatonnellate di CO2. Il 51 per cento è nelle mani di cinque potenti economie del Nord del pianeta che a Dubai hanno sostenuto con forza lo stop: Stati Uniti, Canada, Australia, Norvegia e Gran Bretagna. A fare da apripista nella riconversione energetica, invece, sono state tredici nazioni “piccole”, con l’iniziativa – lanciata a Glasgow, diventata effettiva a Sharm el-Sheikh e proseguita a Dubai – del Trattato di non proliferazione delle fonti fossili. Alla Cop28, in particolare, l’idea è stata sottoscritta dalla Colombia, primo produttore latino-americano di carbone e fortemente dipendente dagli idrocarburi. «Questo dimostra che molti Paesi “fossili” sarebbero disposti a fare la transizione se solo fossero aiutati»3 . L’affermazione di Singh tocca un punto nevralgico: la finanza climatica, perlopiù ignorata al vertice. Con questo termine si intendono le risorse mobilitate per aiutare i paesi poveri a ridurre i gas serra e a far fronte agli impatti dell’aumento delle temperature. Il riscaldamento colpisce tutti i paesi. Non, però, con la stessa intensità. Soprattutto, i mezzi per farvi fronte sono enormemente impari. Il riscaldamento globale, poi, acuisce ulteriormente le diseguaglianze. L’urgenza di arginare le catastrofi ambientali drena i già pochi capitali interni a disposizione e impedisce di utilizzarli per sostenere l’addio agli idrocarburi. Uragani, inondazioni, siccità e altri fenomeni meteorologici estremi costringono gli Stati più vulnerabili a indebitarsi, fagocitando ulteriormente i fondi per la decarbonizzazione. Le mappe degli Stati più colpiti da fenomeni meteorologici estremi e di quelli con maggiori passivi sono perlopiù sovrapponibili. Per questo, senza una riforma della finanza mondiale e un impegno economico reale delle nazioni più ricche, non è possibile arginare l’emergenza ambientale. L’Alleanza dei piccoli Stati insulari sostiene che oltre la metà del debito pubblico delle venti nazioni più sensibili al riscaldamento è stato contratto per far fronte ai danni causati dal clima.
Secondo un’indagine del Fondo monetario internazionale sugli undici disastri naturali più gravi avvenuti tra il 1992 e il 2016, il passivo delle nazioni interessate è lievitato di sette punti percentuali nei tre anni successivi. Risultati confermati da uno studio della Jubilee debt campaign. Dei 132 paesi del Sud globale maggiormente indebitati, buona parte è situato nella fascia tropicale, particolarmente esposta agli effetti del clima. «Di fronte a una catastrofe, le economie povere sono costrette a chiedere dei prestiti per farvi fronte. Questo aumenta il livello del passivo e riduce gli investimenti nazionali per prevenire i disastri e decarbonizzare. Si crea così un circolo vizioso. Per questo non è possibile arginare la crisi climatica senza risolvere il problema del debito nel Sud del mondo dove tre miliardi di persone vivono in nazioni che spendono più per ripagare gli interessi di quanto investono nell’istruzione», sottolinea Richard Kozul-Wright della Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad). La chiave per uscire dal labirinto è appunto la finanza climatica. Già l’Accordo di Parigi impegnava il Nord del pianeta a spendersi e spendere per contribuire all’allineamento del Sud geopolitico agli obiettivi concordati. Da allora, però, poco è stato fatto. E Dubai non ha invertito la rotta. Nel documento conclusivo viene reiterata «la necessità di risorse pubbliche e basate su erogazioni» in favore dei paesi poveri. Non prestiti, dunque, come di fatto accade nella maggior parte dei casi, anche se è impossibile avere dati esatti vista l’assenza di criteri uniformi. Un altro testo chiave approvato a Dubai, il cosiddetto “Quadro per il nuovo obiettivo globale sull’adattamento”, riconosce l’incremento del divario tra le condizioni reali e i fondi erogati, con un impegno ad incrementare in modo significativo. E si sancisce l’importanza di realizzare una «giusta transizione».
Non si va, però, molto oltre le dichiarazioni di principio. I leader hanno scelto di scaricare la patata bollente sul prossimo summit, in programma dall’11 al 22 novembre 2024 a Baku, in Azerbaijan. Se la “battaglia del petrolio” è stato il pilastro della conferenza di Dubai, al centro della discussione – o dello scontro – della Cop29 sarà la somma di aiuti da stanziare dopo il 2025, il sostituto, cioè, dei famosi 100 miliardi di dollari l’anno, peraltro forse mai raggiunti. I paesi poveri chiedono che la cifra sia moltiplicata almeno per cento. La sfida, dunque, è ardua. In questo contesto, allora, forse il maggior risultato della Cop29 non è quanto è stato scritto, bensì l’aver rilanciato il processo multilaterale dopo che due anni di tensioni internazionali avevano ridotto al minimo le aspettative. Ancora una volta papa Francesco ha colto nel segno. Nel messaggio al vertice, a cui è mancato all’ultimo per ragioni di salute, letto dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ha chiesto: «Signore e Signori, mi permetto di rivolgermi a voi, in nome della casa comune che abitiamo, come a fratelli e sorelle, per porci l’interrogativo: qual è la via d’uscita? Quella che state percorrendo in questi giorni: la via dell’insieme, il multilateralismo»4 . Una parola, quest’ultima, ritenuta da tanti obsoleta che, proprio a Dubai, ha dimostrato di essere ancora l’unica bussola per gestire l’era globale. Il multilateralismo è difficile, deludente, drammaticamente imperfetto. Come gli accordi della Cop28. L’alternativa, però, ce l’abbiamo sotto gli occhi, da Gaza a Kiev.
Note
1 Il testo del documento finale Global Stocktake è disponibile su https://bit.ly/49wNpvF.
2 Mia intervista pubblicata su «Avvenire» del 15 dicembre 2023.
3 Ibidem.
4 Il testo integrale è disponibile su https://bit.ly/42UudFK.