Formare alla relazione. Una sfida non solo per la Scuola

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La cronaca, spesso, provoca la società a rivedere il proprio sistema educativo e l’opinione pubblica interpella la Scuola affinché preveda attenzioni specifiche attorno ad alcune questioni, tra le altre quella dell’affettività e della relazione. Giusto, ma solo se non si pretende di educare aggiungendo ore e se si pensa la Scuola in una rete più ampia di agenzie educative generative.

Sovente, sull’onda di una più che comprensibile indignazione per efferati episodi di cronaca nera, scatta nell’opinione pubblica il richiamo alla Scuola come carta da giocare per cambiare marcia. Negli ultimi mesi, ad esempio, in seguito ad alcuni casi di femminicidio, in molti sono tornati a chiedere che negli istituti scolastici siano attivati dei corsi di “educazione sentimentale” per aiutare i ragazzi ad abitare l’universo relazionale in modo più sano.

Se da una parte un’attenzione specifica a questo aspetto può senza dubbio essere opportuna, dall’altra, però, bisogna forse essere cauti nelle modalità della sua attuazione. Chiedere compulsivamente l’aggiunta di ore in più specifiche (com’è accaduto negli ultimi anni a proposito di educazione civica e didattica orientativa) rischia di farci dimenticare che Omero, Dante, Shakespeare o Leopardi, tanto per fare alcuni nomi, hanno già molto di serio da dire su emozioni, affetti, doveri, diritti, bene e male, sessualità. In altre parole, il rischio è dichiarare implicitamente inutili, o quantomeno deboli, i contenuti dei percorsi didattici proprio rispetto alle questioni più significative dell’esistenza dei ragazzi. Non solo, ma il richiamo immediato alla Scuola, seppur giusto, potrebbe lasciar intendere che di educazione si debba occupare solo essa, quasi esonerando famiglia e altre istituzioni educative.

Le splendide pagine di Platone su Eros, Agape e Philia del Simposio, o quelle di Repubblica, dello stesso autore, dedicate alla Sophrosyne (temperanza), sono solo un insieme di dati culturali da imparare per superare la prossima verifica, oppure possono rappresentare strumenti utili per contribuire all’educazione affettiva degli alunni? E cosa dire dell’Etica nicomachea di Aristotele? Pare che il filosofo la dedicò al figlio Nicomaco: non proprio un reperto da archeologia delle idee, allora, ma una via possibile per accompagnare un giovane alla ricerca della felicità e del bene, di sé e degli altri. Come, poi, non chiamare in causa Agostino. Il suo celebre «ama e fa ciò che vuoi» non è il manifesto del libertinaggio ma un imperativo dato alla nostra libertà. L’amore non è il pathos del godimento egoriferito ma il riconoscimento di un ordine del bene che ci strappa dalla nostra autoreferenzialità emotiva per indicarci la giustizia degli affetti e l’arte di distinguerli senza mortificarli. Quanto di prezioso si può trarre, ancora, dall’insegnamento della religione cattolica, spesso una vera e propria ora di educazione alle relazioni nel momento in cui gli studenti sono messi nelle condizioni di avvicinarsi ad alcune pagine bibliche, come quelle del Cantico dei Cantici o di Rut (tanto per fare un esempio)? Se poi a ciò aggiungiamo il rinnovato sguardo – dimenticato per troppo tempo, ma oggi sempre meno timidamente proposto in aula – di letterate, filosofe, artiste, allora gli studenti possono trarre davvero dallo studio del passato e del presente preziosi strumenti di comprensione del sé, dell’altro, dello stare in relazione. L’elenco potrebbe continuare con riferimenti a molte altre discipline, e soprattutto a tutti gli ordini di scuola.

Insomma, c’è uno sterminato mare di strumenti per parlare ai ragazzi di sentimenti. Pretendere continuamente che a questo si sommino corsi e giornate rischia di mandare un messaggio devastante alle alunne e agli alunni, vale a dire che ciò che si studia a scuola, in realtà, non serve davvero a migliorare la nostra umanità ma al massimo ad aumentare il livello della nostra erudizione. Per tutto quanto concerne la polpa dell’esistenza, le pagine di filosofi, poeti, artisti e scienziati non sono utili, serve una fornitura extra di sapere. Se questo è vero, però, si potrebbe provocatoriamente chiedere: allora perché studiarle ancora?

Certo, tutto questo potrebbe avere senso solo se si superasse la rigida impostazione puramente storico-filologica che da sempre ha contraddistinto lo studio delle discipline che più possono integrare le conoscenze con l’esperienza interiore ma anche la relazione, ossia quelle umanistiche. Se è vero, infatti, che lo studio dei grandi pensatori, poeti, filosofi, artisti del passato, spalanchi le porte a una visione complessa dell’umano e ad una alfabetizzazione che va oltre la disciplina stessa, è vero anche che non sempre i docenti hanno le competenze per integrare il sapere accademico con quello emotivo, banalmente perché non è previsto che la formazione del docente tenga in considerazione anche quest’ultimo. Certo, si sta ultimamente andando verso questa direzione – si veda, per esempio, l’obbligo di avere un certo numero crediti universitari in settori quali la pedagogia e la psicologia – ma anche questi timidi passi non sono davvero significativi, perché l’accento è posto sulle conoscenze disciplinari più che sull’acquisizione di una cassetta degli attrezzi che possa davvero essere uno strumento utile per i nostri studenti. Che senso ha, infatti, conoscere tutti i nomi dei pedagogisti del Novecento e le loro intuizioni, se non siamo capaci di gestire una situazione di conflitto in aula, o se non sappiamo essere mediatori significativi tra alunni spesso iper-ansiosi e genitori ingombranti? È una questione di formazione umana del docente, dove sono in gioco caratteristiche che non sono valutate da nessuno nei processi di assunzione, come la predisposizione all’ascolto, allo sguardo, all’empatia, alla capacità di argomentare attorno a certe questioni o a essere canale di mediazione con esperti del settore al fine di mettere in piedi percorsi di riflessione specifici.

D’altronde le Indicazioni nazionali sono chiare al riguardo, e parlano dell’importanza dell’educazione affettiva sin dall’infanzia, anche se poi non danno riferimenti più precisi: «Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato». (Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, 2012).

Ovviamente, qui non si ha la pretesa di offrire soluzioni definitive, piuttosto sollevare questioni e ulteriori occasioni di riflessione. Alcune di queste possono essere rappresentate dalla già citata formazione dei docenti; oppure ancora dalla questione terminologica: di quale affettività parliamo? Di quale visione della sessualità e della persona più in generale? Siamo convinti di poter declinare in modo universale dei valori che – volenti o nolenti – sono spesso percepiti come del tutto personali, e su cui le famiglie avrebbero ciascuna un proprio pensiero?

E soprattutto, davvero delegare totalmente alla Scuola un’attenzione educativa di questo tipo sarebbe l’unica soluzione? La scuola è sicuramente tra le più importanti agenzie educative, ma non l’unica. Pretendere continuamente che sia essa a dover risolvere i mali della società rischia di far passare il messaggio che la famiglia, le parrocchie, i centri sportivi e quant’altro siano esenti da una trasmissione di valori di questo tipo.

Probabilmente la Scuola andrebbe ripensata in un rapporto nuovo anzitutto con le famiglie e poi con l’intero territorio. Fino a prova contraria, i rudimenti della relazione li si apprendono nelle dinamiche familiari. Per questo, stringendo un patto formativo più stretto (e non solo formale, come accade con la firma di documenti a volte sterili) con le famiglie, la Scuola deve avere l’ambizione di ergersi a motore e promotore di percorsi di accompagnamento alla genitorialità, riscoprendo in un’ottica più ampia la sua funzione sociale per la costruzione di reti educative efficaci.