Venti di guerra...

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L’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani su ordine del presidente americano Donald Trump ha riacutizzato le tensioni tra Iran e Usa. Rafforzando le strategie di destabilizzazione del nemico e di interferenza negli affari politici di paesi terzi, in un contesto regionale che non è mai stato così conflittuale.

Il gennaio 2020 l’uccisione a Bagdad del generale iraniano Qassem Soleimani, realizzatasi con un attacco sferrato da un drone americano, ha provocato un’escalation straordinaria delle tensioni tra Iran e Stati Uniti. Se, sin dall’instaurazione della Repubblica islamica d’Iran nel 1979, i rapporti tra i due paesi sono stati caratterizzati da profondi antagonismi, il rischio che scoppiasse una guerra diretta non si era mai elevato ad un livello così alto dal 1979, al tempo della crisi degli ostaggi americani a Teheran. Da allora l’Iran come gli Stati Uniti sono stati sempre attenti ad evitare scontri armati diretti, privilegiando il discredito dell’avversario nei propri discorsi, la costruzione di alleanze diplomatiche ostili e il ricorso a degli intermediari per colpire gli interessi del nemico. Anche se è avvenuto su suolo iracheno, l’attacco militare contro Soleimani, una delle figure più strategiche della Repubblica islamica, ha rimesso in questione questa linea rossa. L’azione militare è stata considerata dall’Iran come un vero e proprio casus belli. Ha destabilizzato l’intera strategia di “resistenza” implementata dall’Iran dal 1979, che consiste nella capacità del regime di proiettare le sue forze d’élite nella regione e di sviluppare delle connessioni politico-militari con una serie di gruppi e movimenti locali; ma, allo stesso tempo, l’attacco ha giustificato, agli occhi della teocrazia iraniana, la necessità esistenziale di rafforzare detta strategia. L’ayatollah Khamenei, guida suprema della rivoluzione islamica – la più alta carica politica del paese – ha affermato, relativamente al «martire» Soleimani, la necessità di portare avanti la sua opera e di «vendicare» la sua morte.

La sindrome della “cittadella assediata”
L’uccisione di Soleimani ha reso più acuta la sindrome da “cittadella assediata” che caratterizza il modo in cui gli iraniani percepiscono l’ambiente internazionale dal 1979. Questa sindrome ha notevolmente condizionato la diplomazia e la politica estera del regime, connesse ad una postura detta di «resistenza», in particolare nei confronti degli Stati Uniti e di Israele, delle monarchie arabe del Golfo e, fino al 2003, del regime di Saddam Hussein. Questa resistenza è stata tradotta anche in atti di destabilizzazione nei confronti di questi ultimi, alimentando delle spirali di tensioni diplomatiche e numerose guerre per procura.
Occorre risalire alla genesi della Repubblica islamica, che nacque lottando contro la maggior parte delle potenze del mondo, per capire perché e come si è strutturata questa diplomazia, alla quale molti analisti attribuiscono l’eccezionale resilienza del regime. Nel 1979 una rivoluzione popolare, in gran parte portata avanti da alcune eminenti figure clericali sciite – tra cui Khomeyni – e da altre forze dell’opposizione, rovescia il regime dello scià, alleato degli Stati Uniti. Il leitmotiv dei rivoluzionari era la necessità di porre fine a un regime monarchico profondamente impopolare, all’ingiustizia sociale e di accedere a una piena sovranità. Una parte del clero sciita (marjaa’ya) legato a Khomeyni aveva iniziato già da due decenni a teorizzare la necessità per il clero di impegnarsi negli affari governativi dello Stato, al fine di far applicare i principi normativi e governativi considerati come idonei dal punto di vista islamico. La dottrina corrispondente, la velayat al fiqh («governo del giureconsulto»), si strutturò progressivamente, rompendo con la posizione quietista osservata dal clero sciita dal X sec. Fu questa dottrina ad essere applicata dalla nuova teocrazia iraniana nel 1979.
Il potere politico supremo è detenuto dall’ayatollah, considerato come il più dotto e competente in materia islamica, che viene nominato da un’assemblea di esperti religiosi. Esso assume il ruolo di «guida suprema della rivoluzione», controllando la politica interna del governo e la produzione legislativa del Parlamento (sebbene il presidente e i parlamentari vengano eletti con il suffragio universale). Gli orientamenti in materia di politica estera sono particolarmente sottomessi alla supervisione della Guida, che dirige inoltre le forze armate del paese, in particolare i guardiani della rivoluzione (i pasdaran), corpo paramilitare creato nel 1979 per proteggere direttamente il sistema della Repubblica islamica.

Un islamismo terzomondista o un terzomondismo islamista
L’irruzione di un clero ideologizzato e rivoluzionario nel cuore del sistema politico-istituzionale dell’Iran ha sconvolto gli equilibri geopolitici della regione. In effetti le nuove autorità iraniane hanno proclamato la loro intenzione di stimolare delle rivoluzioni simili nel resto del mondo musulmano e hanno proseguito quest’obiettivo fino alla fine degli anni Ottanta. La retorica ideologica del regime, affermata sulla scena internazionale, ha mobilitato dei principi strettamente religiosi (non necessariamente sciiti) che condizionano la legittimità di un governo al rispetto della sharia; nonché dei principi derivanti dall’ideologia terzomondista e di non-allineamento, fortemente antimperialista e, per certi versi, antioccidentale. La sintesi di questi due quadri ideologici e programmatici ha generato un islamismo terzomondista o, inversamente, un terzomondismo islamista.
La dinamica rivoluzionaria orientata verso l’esterno ha suscitato una seria preoccupazione per numerosi Stati. In primis per gli Stati Uniti (e, in modo minore, per la Gran Bretagna e la Francia), che hanno stabilito numerose basi militari e sviluppato cooperazioni politico-militari nella penisola arabica volte a garantire la sicurezza dell’estrazione ed esportazione degli idrocarburi prodotti in Medio Oriente. In secondo luogo per Israele, la cui creazione nel 1948 fu denunciata dai rivoluzionari iraniani come il simbolo dell’imperialismo occidentale e del sionismo antimusulmano. In terzo luogo per l’Unione Sovietica, che vide nell’esperienza e nella retorica rivoluzionaria dell’Iran – religiosa e non-allineata – una minaccia per la propria strategia di leadership nel Terzo Mondo. Infine per i paesi arabi, tra cui le monarchie conservatrici del Golfo, accusate di collusione con il mondo occidentale per via delle loro alleanze e del loro sistema di difesa, totalmente dipendente dall’“ombrello americano”. Oltre a temere il ritiro delle forze occidentali, le monarchie del Golfo si sono preoccupate del contagio rivoluzionario, in particolare all’interno delle loro consistenti minoranze sciite (atteso che, in Arabia Saudita, gli sciiti vivono proprio nelle zone petrolifere, cruciali per l’economia del paese). Situazione condivisa anche dall’Iraq baassista (in riferimento al periodo in cui il regime iracheno è stato dominato dal partito nazionalista panarabo Baas, dal 1968 al 2003), il cui potere era dominato da una minoranza sunnita, quando più della metà della popolazione irachena è sciita e vive nelle zone meridionali ricche di idrocarburi. Per quanto riguarda i regimi arabi detti “secolari”, ad eccezione della Siria che si è alleata rapidamente con l’Iran, si è temuto l’effetto emulativo della rivoluzione iraniana sull’opposizione islamista sunnita locale.
Pertanto si raggiunse presto un consenso internazionale per abbattere la nuova teocrazia iraniana. Durante la guerra contro l’Iran, ampiamente innescata dall’Iraq, Saddam Hussein ricevette l'appoggio diplomatico, economico e militare della comunità internazionale. Se la Repubblica islamica dell’Iran è sopravvissuta a otto anni di guerra in totale isolamento, fatta eccezione l’alleanza con la Siria, il paese ne è uscito fortemente provato: oltre alle pesanti distruzioni, mezzo milione di iraniani ha perso la vita nel conflitto, nella totale indifferenza del resto del mondo. Questo episodio traumatico ha alimentato la retorica delle autorità iraniane e la percezione della popolazione di un Iran che deve lottare per la sua sopravvivenza in un mondo ostile. Ad oggi, l’evocazione della guerra contro l’Iraq è incorporata in una serie di riti, discorsi ed eventi quotidiani che vanno oltre le cerimonie istituzionali e che si inscrivono nel martirologio onnipresente nel paese.
Dopo la fine della guerra nel 1988, l’isolamento e le pressioni internazionali sul regime iraniano sono andate avanti. Si sono manifestati principalmente sotto forma di embargo e di sanzioni economiche, misure decise e implementate principalmente dagli Stati Uniti o su loro impulso. Il primo embargo è stato decretato dagli Stati Uniti nel 1984 e, sotto diverse forme, è stato perpetuato fino ad oggi, con il successivo coinvolgimento dell’Onu e dell’Ue. Le sanzioni hanno causato al paese pesanti ripercussioni economiche e sociali, originando una politica di “resistenza economica” connessa alla ricerca dell’autosufficienza e allo sviluppo di cooperazioni anche ufficiose con altri paesi per tentare di aggirare le misure in questione. L’accordo sul nucleare, raggiunto nel 2016 tra Ue, Stati Uniti e Iran, non si è tradotto in una notevole riduzione delle sanzioni. Inoltre, con l’elezione di Trump, l’accordo è stato contestato dagli Stati Uniti. Nel 2001, dopo gli attentati contro gli Stati Uniti (sebbene siano stati rivendicati da Al Qaida, organizzazione senza legami con l’Iran), il regime iraniano fu inserito dall’amministrazione Bush nella lista degli «Stati canaglia » insieme all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria e al Sudan, rischiando pertanto di essere rovesciato dagli americani.

Un potenza “reticolare” e la sua «diplomazia del disturbo»
In questo ambiente internazionale ostile, la Repubblica islamica ha sviluppato una strategia che qualifica di «resistenza», che prende la forma di una «diplomazia del disturbo» (in francese «diplomatie de nuisance», concetto formulato dall’internazionalista Badie). Tale diplomazia è fondata sull’ottenimento, per uno Stato, di risorse politiche sulla scena internazionale, che derivano della sua capacità di colpire gli interessi di uno o più Stati, e di destabilizzare certe situazioni sensibili. Questo tipo di ricatto viene generalmente esercitato da uno Stato contestatario e debole, per invertire un rapporto di forza asimmetrico. L’Iran ha così moltiplicato le alleanze con gruppi e movimenti sciiti e non sciiti nella regione, in contesti infra-nazionali già conflittuali. Nel corso degli anni, è riuscito a costruire una forma di potenza che possiamo definiren "reticolare”, cioè basata sullo sviluppo di reti sociopolitiche che conferiscono al regime una notevole profondità strategica nella regione. Il corpo dei pasdaran e, più particolarmente, la forza di élite Al Qods creata nel 1990, sono al centro di questa strategia. Essa produce tuttavia due effetti paradossali: la persistenza della diffidenza internazionale nei confronti dell’Iran e l’estrema propensione delle crisi ad aggravarsi rapidamente, perpetuando quindi la precarietà esistenziale dell’Iran.

In Iraq, negli anni Ottanta, la Repubblica islamica ha fornito un sostegno alle milizie curde (come lo aveva fatto tra l’altro lo scià fino al 1975), a condizione che colpissero il regime di Saddam Hussein e, negli anni Novanta, è diventato il “protettore” dell’Unione patriottica del Kurdistan di Talabani. È stato paradossalmente dopo l’offensiva americana contro l’Iraq, nel 2003, che l’Iran è stato in grado di ampliare la sua influenza politica nella regione e di esercitare una forte pressione sugli Stati Uniti. Prima di tutto perché centinaia di migliaia di sciiti iracheni oppositori a Saddam, accolti e sostenuti da Teheran durante il loro esilio in Iran, sono tornati in Iraq, dove hanno costituito la nuova leadership del paese. Questo ha contribuito al fatto che, dopo le prime elezioni in Iraq del 2005, il nuovo regime iracheno si sia avvicinato alla Repubblica islamica. Un altro fattore centrale nell’aumento dell’influenza iraniana in Iraq è stato la frammentazione della società irachena all’indomani della caduta di Saddam e lo sviluppo di una guerra intrasettaria (detta «prima guerra civile irachena»).
Questa situazione ha dato all’Iran l’opportunità di intervenire nel gioco politico locale, fortemente diviso anche all’interno della classe politica sciita, attraverso la creazione o il sostegno a vari movimenti e milizie sciite, sul modello dell’Hezbollah libanese. In questa strategia il ruolo di Soleimani, capo delle forze Al Qods dal 1997, è stato preponderante. Uno degli interessi dell’Iran è stato quello di accelerare il ritiro delle truppe occidentali dall’Iraq, e in particolare quelle americane, la cui presenza alle frontiere iraniane era percepita come una minaccia diretta; e di poter aggirare le pesanti sanzioni internazionali grazie all’accesso al mercato iracheno.
Di fatto, progressivamente, l’influenza politica americana in Iraq è declinata, mentre quella iraniana è aumentata.

Dalla guerra allo Stato Islamico allo scontro con Trump
Più recentemente, lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 e l’instaurazione nel 2014 dello Stato islamico a cavallo tra la Siria e l’Iraq (paese dove è scoppiata una “seconda” guerra civile), hanno fornito all’Iran la possibilità di estendere la sua influenza sulla scena geopolitica regionale. È stato anche in questo contesto che la figura di Soleimani, così come le attività della forza Al Qods, mantenute fino ad allora nell’ombra del regime, sono state oggetto di una consistente mediatizzazione e glorificazione da parte della Repubblica islamica. La proiezione della forza Al Qods in Siria, in sostegno a Bachar al-Assad, e in Iraq, per impedire allo Stato islamico di continuare la sua espansione antisciita, è stata presentata come una guerra difensiva e giusta. Questa retorica serviva l’obiettivo di poter reclutare dei combattenti iraniani e far accettare alla popolazione la caduta di un numero crescente di “martiri”. In Iraq numerose milizie irachene sono state create o mobilitate dalla forza Al Qods che, oltre al loro addestramento, controlla il loro comando generale. È così che, nel 2014, è emersa Hashd al Shaabi («Unità di mobilitazione popolare»), coalizione paramilitare che raggruppa una sessantina di milizie irachene, composte oggi di 110.000 combattenti circa. Pur essendo stata formalmente integrata nel 2016 nelle forze armate irachene ufficiali, Hashd al Shaabi funziona di fatto come un esercito autonomo, a forte tropismo iraniano. In particolare per quanto riguarda le due brigate più potenti della coalizione, ossia Badr e Kataeb Hezbollah. Di fronte all’estensione del controllo del territorio e della politica irachena da parte dell’Iran, gli Stati Uniti hanno colpito varie posizioni militari di Hashd al Shaab negli ultimi mesi. In particolare quelle che avrebbero permesso all’Iran di connettersi più facilmente sul piano logistico ai suoi alleati nella regione. Questi attacchi hanno provocato una spirale di scontri che sono culminati con il bombardamento, da parte dell’Iran, di basi militari irachene che ospitano truppe americane. Dopo che il mondo ha temuto lo scoppio di una guerra ad alto potenziale di deflagrazioni regionali, Trump ha dichiarato di non voler entrare in una dinamica di guerra aperta contro l’Iran. Per quanto riguarda l’Iran, anche se ha perso un personaggio chiave della sua strategia di resistenza, è comunque riuscito a trasformare la perdita di un personaggio chiave della sua strategia politico-militare in una preziosa risorsa simbolica. La glorificazione del «martire» Soleimani ha creato una sorta di unione sacra nel paese, in un momento in cui i Guardiani della Rivoluzione sono fortemente criticati, accusati di arricchirsi illegittimamente e di far prevalere gli interessi di casta su quelli della popolazione. La situazione internazionale rimane comunque particolarmente tesa. Quest’ultimo episodio, con ogni probabilità, rafforzerà le convinzioni delle diverse parti di proseguire nella strategia di destabilizzazione del nemico e di interferire negli affari politici di paesi terzi, in un contesto regionale che non è mai stato così conflittuale.