A settant’anni dalla morte, il suo personalismo ha ancora molte cose da dire a un Occidente che, sotto i colpi di una tecnologia onnipervasiva e di una neuroscienza impegnata a demolire la stessa categoria di persona umana, sta in parte smarrendo le sue migliori tradizioni ed è alla ricerca di un nuovo se stesso.
La fortuna di Emmanel Mounier (Grenoble, 1° aprile 1905 – Parigi, 30 marzo 1950) è stata per molti aspetti singolare, nel panorama dell’editoria italiana del secondo dopoguerra. Le prime editrici che ne hanno pubblicato gli scritti, infatti sono state, in generale, “laiche” (anche se spesso con una forte caratterizzazione umanistica): Einaudi per Che cos’è il personalismo; Comunità per Rivoluzione personalista e comunitaria (1949 e poi 1953); Garzanti per Il personalismo (successivamente ripreso dall’AVE e da essa riproposto sino alla decima edizione del 2010). Vi era stata, invero, nel 1947, a cura della bresciana editrice Vittorio Gatti la pubblicazione della prima traduzione italiana del giovanile saggio (1935) Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana, ma la “perifericità” di questa piccola editrice (per altro benemerita per avere ospitato numerosi scritti di Primo Mazzolari) non aveva consentito a questo lavoro dell’allora poco più che trentenne di godere di una particolare fortuna. Soltanto alcuni anni più tardi il pubblico italiano ha potuto accedere ad altri importanti scritti mouneriani editi da case cattoliche, dal Trattato del carattere a L’avventura cristiana. Sarebbe spettato all’Editrice Ecumenica di Bari, a circa trent’anni dalla prematura morte di Mounier, presentare pressoché per intero le opere mouneriane, grazie soprattutto al forte impegno di una benemerita studiosa del personalismo, Ada Lamacchia.
Si può comunque affermare che nel quarantennio successivo alla morte di Mounier il pubblico italiano abbia potuto accedere alla sua opera, seppure non sempre con traduzioni puntuali e con un valido apparato critico.
A partire da questa attenzione della cultura italiana all’opera di Mounier si può dunque affermare che la sua, soprattutto nel cinquantennio successivo alla sua morte, è stata una presenza significativa nel contesto della cultura italiana (e non soltanto cattolica). Un poco diverso il quadro del primo ventennio del Novecento, anche in relazione ai profondi mutamenti intervenuti nella società italiana (come, del resto, in quella francese). Non al punto, tuttavia, che la sua lezione non meriti più di essere presa in considerazione. Ed in effetti per tutto il corso della seconda metà del Novecento Mounier ha avuto numerosi studiosi ed estimatori, da Armando Rigobello a Virgilio Melchiorre, da Mario Montani a Giuseppe Limone, per fare soltanto alcuni nomi. Come in Francia così anche in Italia la sua è tutt’altro che una «memoria smarrita».
Quale è dunque la “memoria” ancora da riprendere e da reinterpretare alla luce dei nuovi orizzonti di inizio XXI secolo? Il suo legato fondamentale è rappresentato, a nostro avviso, dal costante richiamo alla centralità della persona umana anche e soprattutto per un’Europa “umanistica” che rischia di smarrire la sua migliore tradizione sotto i colpi di una tecnologia onnipervasiva e di una neuroscienza che ha cercato, seppure sinora invano, di demolire la stessa categoria di persona umana. E tuttavia quello della persona rimane per l’Occidente un “caso serio” e un tema sul quale è necessario rinnovare, ogni giorno, la riflessione.
Un importante aspetto di questa ripresa del pensiero di Mounier è rappresentato dallo spostamento di attenzione che si sta verificando, soprattutto negli scritti editi in Francia, dell’aggettivo comunitario che accompagna la categoria di personalismo e che ha talora rischiato di essere dimenticata ed è invece dimensione essenziale del “personalismo” mouneriano: senza di essa la persona sarebbe ridotta ad una dimensione intimistica, se non solipsistica, lontana anni luce dalla proposta mouneriana. Solo in parte questa dimensione “comunitaristica” del personalismo è risultata presente nelle varie letture e interpretazioni date in Italia al pensiero di Mounier; ma una significativa ripresa di attenzione a questo aspetto della sua lezione è reperibile nel movimento di pensiero che – sollecitato da studiosi come Stefano Zamagni e Luigino Bruni – sta riproponendo con forza il rapporto persona-comunità (riprendendo del resto una tradizione di pensiero che ha alle sue spalle almeno un secolo di storia, da Max Scheler a Dietrich Bonhoeffer, ed oltre).
Nel momento in cui si dovrà – come appare necessario – riprendere la riflessione sul rapporto comunità-società, a partire dalle classiche riflessioni di Ferdinand Tönnies, ritornare a Mounier sarà un necessario passaggio.
A settant’anni dalla morte di Mounier il suo personalismo (benché solo embrionalmente sviluppato) ha ancora molte cose da dire a un Occidente che sta in parte smarrendo le sue migliori tradizioni ed è alla ricerca di un nuovo se stesso. L’uomo, la persona non è – come aveva apoditticamente affermato Jean-Paul Sartre – «una passione inutile» ma è ancora, nonostante tutto, un protagonista della storia: di una sua storia (appunto quella di tutto ciò che è umano) che non può essere ridotta ad una pura successione di avvenimenti e, ancor meno, ad un ricorrente alternarsi dell’uno o dell’altro modello di sviluppo economico. E dunque, a settant’anni dalla morte, Mounier ha ancora qualcosa da dire, ai credenti ma anche a tutti gli amici dell’uomo e dell’umano. Si ripropone, ancora una volta, la sfida che ogni stagione reca al cristianesimo e a quanti ne hanno custodito la preziosa eredità. Che questo cristianesimo – come auspicava Mounier in un dei suoi ultimi scritti – «metta la vela grande all’albero di maestra e, uscendo dai porti n cui vegeta, salpi verso le stelle più lontane, senza badare alla notte che l’avvolge».