La luce gentile

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Oltre quattrocento teologi da tutto il mondo, nel corso del Congresso dal titolo “Il futuro della teologia: eredità e immaginazione”, promosso dal Dicastero per la Cultura e l'Educazione, hanno esplorato nuove forme di ricerca teologica, in linea con le prospettive di Veritatis gaudium e Ad theologiam promovendam. Un approccio sinodale che supera il modello accademico tradizionale, dando voce a esperienze concrete.

S i è svolto a Roma, il 9 e 10 dicembre 2024, un Congresso internazionale promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione, intitolato “Il futuro della teologia: eredità e immaginazione”.

Sembra una notizia da poche righe, l’ennesimo Congresso romano, dove (si sa!) i teologi passano, ce ne sono molti, hanno i loro luoghi, le loro accademie, si parlano tra loro e non si sa mai bene di cosa, difficile capirli e poi, come spesso per gli accademici, sono occupati da problemi che non si sa bene chi e cosa riguardino. Ma devo ammettere che, anche per me, abituata da lunghi anni di frequentazione della teologia a non entusiasmarmi troppo, questo Congresso è stato diverso dal solito, non solo perché è stato una “prima volta” di molte cose, ma anche per l’atmosfera che si è creata, per le cose dette ad alta voce, per un insieme di sentimenti di una certa gioia e speranza che lo hanno attraversato. Mi viene istintivamente in mente un bel verso di Franco Arminio, «Sacra la gioia, la gioia è la forma più alta del pensiero»1 , che mi sembra poter essere individuato come l’orizzonte vero, profondo, del processo che il Congresso ha mosso e credo saremmo tutti lieti davvero che il processo prosegua, cresca, e così diventi il nostro lavoro.

C’è un orizzonte prima di questo Congresso: sono i due documenti che papa Francesco ha voluto dedicare allo studio e all’insegnamento della teologia: Veritatis gaudium (29 gennaio 2018) e Ad theologiam promovendam (1 novembre 2023), una vera «coraggiosa rivoluzione culturale» come la stessa Veritatis gaudium auspica. Sono questi documenti lo scenario che chiede che la teologia (anzi, le teologie) si mettano a lavorare con pazienza a un ripensamento non tanto dei propri contenuti, ma piuttosto della forma di cercare, pensare ed esprimere. In sostanza un modo nuovo di capire sé stesse e la propria funzione, il tipo di servizio da rendere alla Chiesa che la genera.

Questo «prima del Congresso» è fondamentale; come scrive Sallie McFague: «Per la teologia, fare meno di quanto sia idoneo alla nostra attuale comprensione – accettare cioè affermazioni circa la realtà di un tempo molto diverso – sarebbe una forma estrema di ostinazione»2 . Questa è la frontiera della teologia: non fare meno di quanto sia idoneo agli uomini e alle donne di questo tempo per una conversazione comprensibile e significativa. Ed è ovvio che questa opera è richiesta soprattutto intorno a questioni critiche, a problemi aperti, spesso mai affrontati prima, o a questioni che dividono le comunità cristiane. Non abbiamo bisogno di troppe parole per ciò che è scontato e comune, ma abbiamo invece bisogno di luce della ragione e di strumenti anche intellettuali laddove la discussione si faccia faticosa, incerta e tendenzialmente conflittuale.

In questi documenti il Papa invita ad essere coraggiosi e aperti, a non fare a sé stessi solo le domande di cui pensiamo di conoscere già le risposte, a non limitarsi a commentare ciò che altre generazioni di credenti hanno pensato con audacia e fatica. E farlo per essere consapevoli che la meraviglia della buona notizia, nel momento in cui incontra storie e gesti concreti, cioè vite, fin dal suo inizio, chiede conversazioni, spiegazioni, idee, parole, criteri, decisioni, unioni e differenziazioni, ragionamenti, sguardo critico e ipotesi. Cioè, in una parola, teologia: «Insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera, quella in cui il Vangelo incontra le necessità della gente a cui va annunciato in maniera comprensibile e significativa»3 . Non significa solo che qualcuno deve saper spiegare ad altri ma che tutto il popolo di Dio, nelle differenti competenze, deve poter prendere parola nella conversazione della fede e significa che il servizio della teologia diventa anche abilitare tutti a una parola comprensibile e significativa.

Il Congresso ha provato a prendere sul serio questo invito, questo scenario: il Dicastero per la Cultura e l’Educazione ha fatto la sua parte, innanzitutto pensando a un incontro aperto a tutti i teologi e le teologhe (e hanno accolto l’invito in tanti e tante, più di 400, davvero da ogni angolo del mondo); poi immaginando un Congresso senza keynote speakers, ma piuttosto di molte voci, note o meno note nel mondo accademico, invitate a dar conto non solo di ciò che personalmente stanno facendo, ma piuttosto di quanto sta accadendo lì dove vivono e lavorano. Ancora ha immaginato un metodo di grandi spazi di ascolto reciproco, per quanto possibile, dove davvero potesse emergere il flusso della storia che si sta costruendo tra le parole della teologia e le vite credenti. In ultimo, ha scelto di ascoltare anche voci esterne (dal mondo dei film, della musica, della letteratura...) provando a iniziare davvero un dialogo con loro. Devo ammettere che questo esercizio è stato forse il meno riuscito: abbiamo perso l’abitudine a dialogare con altri saperi, non sappiamo più bene come si fa e cosa implica, quali posture richiede, come si struttura.

Questa coraggiosa metodologia innovativa, non tanto nelle sue tecniche, ma nell’atteggiamento, ha ovviamente avuto effetti diversi: in alcuni un po’ di sconcerto (e l’inevitabile domanda: ma cosa vogliono dirci? Quali sono i contenuti nuovi? Non si capisce... sottovalutando il fatto che il cambiamento di forma del lavoro comune è il vero problema sul tappeto, un cambio di mentalità che passa più dal come che dal cosa); in altri un senso di sospensione (e dunque? Cosa cambia da domani quando torniamo a casa e ai nostri studenti?); in altri ancora contrarietà (ma questa non è teologia, è un esercizio sociologico!).

Invece mi pare che proprio in questo coraggio metodologico e formale risieda la maggior ricchezza di questa occasione: l’interruzione del monopolio della logica discendente esecutiva, da un organismo centrale vaticano, un Dicastero, verso tutto il mondo chiamato ad applicare, e il tentativo di reimparare logiche comuni (sinodali?) di un lavoro plurale che va dal centro alle realtà concrete ma anche viceversa.

Certo, da qui in poi, ciascuno e ciascuna di noi deve fare la propria parte, lì dove lavora, ma anche il Dicastero deve sapere che questo non è che il primo passo: dovrà costruire (anch’esso imparando qualcosa che non sa ancora) occasioni e modi strutturali che consentano la circolazione di parole e pensieri critici, vitali ed efficaci; deve diventare capace di incoraggiamento, coordinamento, discernimento per non perdere questo inizio generativo.

Il titolo di questa riflessione (La luce gentile) prende lo spunto dal discorso che il Papa ha rivolto ai partecipanti al Congresso: Quando penso alla teologia mi viene in mente la luce. Infatti, grazie alla luce le cose emergono dall’oscurità, i volti rivelano i propri contorni, le forme e i colori del mondo finalmente appaiono. La luce è bella perché fa sì che le cose appaiano ma senza mettere in mostra sé stessa. Qualcuno di voi ha visto la luce? Ma vediamo ciò che fa la luce: fa apparire le cose. Adesso, qui, noi ammiriamo questa sala, vediamo i nostri volti, ma non scorgiamo la luce, perché essa è discreta, è gentile, umile e, perciò, rimane invisibile. È gentile la luce. Così è anche la teologia.

Una luce gentile, dunque, che serve la vita e il mondo e non se stessa.

La teologia o, meglio, le teologie, non hanno la bacchetta magica né il diritto all’ultima parola, ma possono dare uno spazio di dialogo perché offrono parole per capire anche le posizioni degli altri e da dove vengono, che cosa intendono salvaguardare, perché offrono pluralità di punti di vista e di criteri, processi logici e critici per avanzare a piccoli passi, magari parziali, perché offrono il patrimonio della tradizione e della Scrittura con cui confrontarsi. Le teologie sono una tavola apparecchiata a cui il popolo di Dio è invitato: si mangia e si parla, si condivide e si discute, si beve e si ascolta; alla fine di un pranzo famigliare non sempre si sono risolti i problemi (anzi, a volte diventano finalmente evidenti) ma si è più famiglia e si possono dunque affrontare le cose che ci attendono.

Note

1 F. Arminio, Sacro minore, Einaudi, Torino 2023, p. 134.

2 S. McFague, Modelli di Dio. Teologia per un’era nucleare ecologica, Claudiana editrice, Torino 1998, p. 31.

3 Francesco, Lettera del Santo padre Francesco al Gran cancelliere della “Pontificia Universidad Católica argentina” nel centesimo anniversario della Facoltà di teologia, 3 marzo 2015.