L’intento di questa breve nota è quello di svolgere qualche rapido approfondimento su alcuni tratti “specifici” del contributo culturale che Aldo Moro diede alla Costituente repubblicana. In tal senso, mi è parso utile riferirmi, prima che al complesso di suoi interventi nelle varie fasi e sedi dei lavori di commissione e di assemblea, ad atteggiamenti di fondo che ne animarono la riflessione e il comportamento nei difficili contesti di quella stagione. Va considerata innanzi tutto l’importanza che ebbe per lui la concezione dell’autonomia del pensiero, intesa come coessenziale alla libertà interiore del credente, che il giovane professore pugliese rivendicava con assiduità, senza disgiungerla mai da ciò che egli stesso definiva il «gusto di consentire» con gli altri (con tutti gli altri), quando non fosse a rischio una personale e «meditata convinzione» [Moro, gennaio 1946; 1982]. Questa era del resto l’essenziale predisposizione intellettuale e morale che, secondo Moro, tutti, e non solo i credenti, dopo il fascismo, dovevano acquisire e conservare, all’interno dell’Assemblea e fuori di essa, per consolidare il sistema democratico. Oltre i «singoli», anche i partiti (specie quelli portatori di dogmatiche e irremovibili convinzioni ideologiche), pur «radicalmente diversi» tra loro, avevano il dovere di assumere una matura consapevolezza che «i dissensi sono più visibili degli accordi come il male è più vistoso del bene. Ciò non toglie che la vita non sarebbe possibile, se in realtà i consensi non fossero superiori ai dissensi e il bene più duraturo, più serio e più comprensivo del male» [Moro, agosto 1946; 1982]. In altre parole, le possibilità di successo di una elaborazione condivisa della Costituzione repubblicana si fondavano soprattutto sulla capacità dei partiti antifascisti nell’integrare le masse su prospettive e metodi democratici. Negli stessi mesi e su questo punto – proprio di fronte all’emergere di varie posizioni politiche radicali assunte dalle sinistre – anche Costantino Mortati riteneva doveroso che i partiti eredi dei valori comuni della Resistenza, «limitando i loro programmi», stipulassero «un accordo sostanziale effettivo» sulle nuove norme e i nuovi istituti costituzionali [1945; 1972].
«Convinzioni» personali e «gusto di consentire»
Del resto, che il rapporto tra le «convinzioni» personali e il «gusto di consentire» con gli altri diveniva una questione politica, oltreché intellettuale e morale, nei dibattiti della Costituente, era maturata negli ambienti intellettuali cattolici già con l’elaborazione e, in seguito, la pubblicazione, tra il luglio del 1943 e la primavera del 1945, di quei Princìpi di un ordinamento sociale cristiano, più noti in seguito come Codice di Camaldoli. È ben noto che Moro con altri giovani studiosi e professionisti (quali Paronetto, Saraceno, Vanoni e altri) partecipò a quell’impresa culturale nella quale si accoglieva, sulla scorta dei più recenti documenti pontifici, la democrazia intesa nella sua essenza di «conquista» irrinunciabile della civiltà moderna; come era da attendersi, in quel contesto divenne preminente la ridefinizione del ruolo giuridico e del principio unitario da attribuire al nuovo Stato democratico: e, in effetti, alla soluzione di tale questione fu dedicato il Capitolo I del Codice, per la cui stesura, come per il resto del documento, contribuì uno dei più acuti giuristi cattolici dell’epoca, Giuseppe Capograssi. In quel capitolo si circoscriveva il compito dello Stato alla garanzia dei diritti (sia individuali che «comunitari»), mentre si rilanciava l’idea della preminente funzione sussidiaria delle istituzioni e dei poteri pubblici nello svolgimento dei processi sociali ed economici. Fissati, quindi, i limiti dell’azione giuridica e sollecitate forme di controllo dell’autorità pubblica da parte dei cittadini e dei partiti, il CapitoloI si concludeva paventando il pericolo di una nuova «tirannia»: di quella tirannia che in una democrazia, come si scrisse, «non è altro che la politica che sopraffà il diritto» [1945; 1998].
Questi temi sollevati dal Codice erano destinati ad emergere con crudezza quando si trattò di ricomporre le ragioni della «politica» in una situazione che richiedeva la definizione di un nuovo quadro giuridico e istituzionale per regolare la convivenza democratica nel paese. Tra i giuristi cattolici (ma non solo tra loro) si sviluppò un dibattito cruciale sulle concrete prospettive, ma anche sulle incognite, presenti nell’idea di definire attraverso la Carta un «indirizzo fondamentale» per procedere al contestuale rinnovamento democratico della società e dello Stato. Capograssi rivendicò direttamente le ragioni primarie dello Stato di diritto, purché fosse salvaguardata «nelle forme e nelle istituzioni essenziali» l’autonomia della parte «viva» della società per ripristinare i caratteri della nuova identità nazionale, destinata ad attingere le ragioni permanenti della propria esistenza dalla Costituzione stessa [1945, 1946, 1998]. Diversamente, già nel marzo del 1946, Mortati, in una relazione per la commissione Forti, si era pronunciato affinché l’opera di giuridificazione costituzionale si iscrivesse in un progetto dei partiti antifascisti mirato a definire in modo diretto ruolo e funzioni delle «strutture sociali che si presume di porre a base del nuovo assetto giuridico» [1946, 1979]. Queste posizioni, del tutto indicative di distinzioni non casuali, avrebbero inciso sulle idee che maturavano sia sulla capacità riformatrice e, insieme, stabilizzatrice della Carta costituzionale, sia sul ruolo “costituente” che assumevano i partiti nel nuovo sistema politico.
La Costituzione e il fine politico dello Stato
In quel dibattito l’atteggiamento di Moro fu per vari aspetti autonomo, ma pur sempre permeato dal «gusto di consentire». Egli argomentava, nelle sue Lezioni sullo Stato del 1946-1947, sulle istanze assolutistiche e totalitarie implicite nelle «formule» dello Stato etico, rilevando che questo si era sviluppato su base idealistica come «perfezionamento» dello Stato-persona, teorizzato sulla scia germanica dalla scuola dogmatica italiana. Moro, però, in più parti invitava a riflettere sulle conseguenze di un abbandono «non meditato» della concezione dello Stato come «esperienza naturale e necessaria», anche se limitata, della vita individuale e sociale: «abbandonato dallo Stato, il singolo è veramente perduto». Il vero rischio diveniva quello di sovraordinare o privilegiare la razionalità di un ordinamento, peraltro in permanente evoluzione come quello dello Stato nazionale, alla società nelle sue varie espressioni e agli stessi individui coinvolti nella progressiva realizzazione delle proprie istanze particolari.
Infatti, per Moro l’individuo è il protagonista di un percorso storico e necessariamente etico che lo rende una «persona» in grado di coniugare la progressiva disponibilità a relazionarsi con gli altri con la capacità di dare un’organizzazione giuridica alla società: cioè di costruire uno Stato al servizio dei singoli e della collettività. Tale passaggio dalla «individualità singola» allo Stato può
avvenire perché quest’ultimo è «un settore dell’esperienza sociale» che, senza assimilarsi alle altre «formazioni sociali», è capace di «realizzare l’universale ideale di giustizia» [1946-1947; 1978].
Diversità di vedute tra i giuristi cattolici
Il modo di intendere in senso evolutivo e storicizzabile il percorso dello Stato nazionale divideva e non di poco gli stessi giuristi cattolici: Moro era vicino alla speculazione di Capograssi sullo Stato come esperienza giuridica e storica, ma era distante dall’idea sostenuta con vigore dal padre gesuita Antonio Messineo dello Stato inteso come «costituzione sostanziale» dalla quale deriva, senza inficiarne l’unità, non solo l’ordinamento, ma anche il «corpo politico e sociale» [1946]. Quest’idea non era ininfluente sul piano delle prospettive relative ai poteri che andava ad assumere la Costituente. Per Messineo la Costituente, in quanto «potere giuridico», non aveva alcun «potere creativo» e politico, cioè tendenzialmente «rivoluzionario», bensì acquisiva unicamente il compito di ricomporre un ordinamento adeguato per l’«immutabile» costituzione sostanziale dello Stato. Al contrario, per Mortati il processo costituente non poteva che coinvolgere la trasformazione sia delle forme organizzative della nazione, sia dello Stato nel suo complesso; in altre parole, la Costituzione doveva conformarsi «al fine politicospecifico del tipo di Stato che si intende porre in essere»: quindi a stabilire le condizioni migliori per alimentare la maggiore solidarietà possibile tra i cittadini. Nella sua ottica autonoma e prudente, Moro avrebbe confermato che «una certezza del diritto non si realizza, se i rapporti sociali sottostanti al diritto non sono assestati nel modo più opportuno e più giusto» [maggio 1947; 1982]. Sulla medesima lunghezza d’onda si poneva Giorgio La Pira quando affermava che la Costituzione «sarà buona se proporzionata alla società che organizza» e tale proporzione poteva essere realizzata solo a patto di fare rispecchiare nelle istituzioni le strutture organizzate della società [1946; 1979].
Il giusnaturalismo della tradizione sociale cattolica
L’ampiezza e la complessità di tale indirizzo obbligavano non solo a individuare una connessione a livello costituzionale della tutela dei diritti individuali con quella dei diritti sociali espressi dallo sviluppo degli interessi diffusi, ma anche un rinnovamento
nelle concezioni dell’origine naturale dei diritti stessi. Moro accoglieva nelle sue riflessioni un profilo ammodernato del giusnaturalismo della tradizione sociale cattolica, senza indulgere nella dottrina corrente dell’istituzionalismo giuridico, per la quale le realtà sociali sono sempre definite (quando non compresse) in un rigido statalismo. Piuttosto nei suoi scritti avvertiva che un sistema democratico è tale se favorisce la dinamicità e la processualità dei diritti, a iniziare dai fondamentali diritti di libertà, regolandoli sulla base di norme condivise [marzo 1945; 1982]. Non a caso, in sede plenaria dell’Assemblea costituente, in polemica con Piero Calamandrei, sarebbe toccato proprio a Moro affermare che la Costituzione doveva stabilire condizioni di sviluppo per i diritti, senza «cristallizzare» le dinamiche sociali [marzo 1947; 1982], senza, cioè, che le si affidasse il compito, auspicato da Mortati, di «strutturare» la società stessa nelle sue varie espressioni. Gli indirizzi di fondo proposti da Moro e da altri giuristi sarebbero stati accolti attraverso successivi compromessi dai costituenti: i diritti di libertà non risultarono più «riflessi», cioè emergenti dall’autolimitazione della sovranità statale, ma tutti assieme, nelle loro varie espressioni e con una fondamentale impostazione personalistica, disciplinati nella prima parte (ma non solo) della Costituzione repubblicana.
La contrarietà ad ogni assetto «monistico» dei poteri
In ogni sua riflessione prima e a ridosso dei lavori della Costituente, Moro coglieva con lucidità che si stava per imboccare la «via lunga» necessaria a ripristinare le norme di salvaguardia dello Stato di diritto adeguandole alle esigenze di una democrazia postfascista nella quale andava garantito l’autonomo sviluppo dei diritti individuali e sociali. Si trattava di avviare un processo partecipativo che impegnava innanzi tutto i cattolici disponibili a scelte politiche che preludessero alle necessarie «sintesi» da realizzare nella Costituente: il tutto mentre era da scuotere l’attenzione di una popolazione che negli affanni del dopoguerra esprimeva una generalizzata apatia sui temi «tecnici» della Costituzione. In questo senso, si comprende la precorritrice chiarificazione operata da Moro sul significato, sia politico che giuridico, che avrebbe assunto la scelta istituzionale tra monarchia e repubblica cui era chiamata una platea di elettori che, con il diritto di voto accordato alle donne, non era stata mai così vasta nella storia d’Italia: con quella scelta si andava a stabilire non solo la forma dello Stato, ma anche la forma del governo [1944, 1982]. Proprio sulla struttura del nuovo sistema democratico Moro si esprimeva in modo contrario ad ogni assetto «monistico», sia statale che sociale, dei poteri e non taceva la sua diffidenza verso le esclusive funzioni di indirizzo politico che stavano assumendo i partiti; ai quali, invece, andava riservata, assieme alle altre organizzazioni sociali e territoriali, una funzione di integrazione e di rappresentanza della pluralità di interessi presenti nel paese. Queste furono solo alcune delle premesse culturali che, assieme a quelle etiche, andarono a caratterizzare l’impegno di Moro nella prima sottocommissione della Commissione dei Settantacinque, poi nella redazione della Carta e infine in assemblea plenaria. Nella prima sottocommissione, dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini, per la presenza di personalità di alto livello di tutti partiti (da Tupini a La Pira e a Basso, da Dossetti a Togliatti, da Marchesi ad altri) si affermò un metodo di lavoro molto importante: non solo avvenne che ciascun costituente esprimeva in piena libertà le proprie concezioni democratiche, ma avvenne anche che queste ultime fossero sempre discusse con molta partecipazione dai costituenti di ogni partito, finché si creò una sorta di convergenza su questioni delicatissime. L’uso non preventivato di questo metodo di ascolto-consenso reciproco permise l’originarsi di quello che Moro aveva chiamato per tempo il «gusto di consentire», salvaguardando l’autonomia di ciascuno, e che Giuseppe Dossetti definì la «ideologia comune», per la quale al riconoscimento dei valori democratici espressi dalle parti corrispose l’impegno di tutti alla comune soggezione verso le norme fissate in Costituzione. Di qui l’acquisizione di una prospettiva unitaria e del tutto rinnovata per garantire i diritti e le libertà.
Bibliografia
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C. Mortati, La Costituente. La teoria. La storia. Il problema italiano (1945), ora in id., Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato. Raccolta di scritti, vol. I, Giuffrè, Milano 1972.
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Plures, Per la comunità cristiana. Principii dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli (1945), ora parzialmente in N. Antonetti, U. De Siervo, F.Malgeri (a cura di), I cattolici democratici e la Costituzione, il Mulino, Bologna 1998, vol.I, pp. 261-274.
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Antologia
«Aveva detto l’onorevole Togliatti che bisognava che la nostra Costituzione fosse una Costituzione non ideologica, che in essa e per essa fosse possibile una libera azione non soltanto delle varie forze politiche, ma anche di tutti i movimenti ideologici che stanno nello sfondo delle forze politiche stesse. Riguardata così questa espressione, non può non trovare il nostro consenso. Preoccupati, come siamo stati e come siamo, di realizzare attraverso la nuova Costituzione italiana uno strumento efficace di convivenza democratica, noi non abbiamo mai cercato e neppure adesso cerchiamo di dare alla Costituzione un carattere ideologico.
Però mi sembra necessario fare qualche precisazione su questo punto. Vi è una ideologia che può essere effettivamente qualificata di parte, ed è giusto che uno strumento di convivenza democratica quale è la nostra Costituzione, elimini un siffatto richiamo ideologico. Ma vi è, da un altro punto di vista, una ideologia alla quale una Costituzione non può [non] fare richiamo; ideologia non soltanto non pericolosa, ma necessaria. E quando io avrò spiegato brevemente che cosa intendevo per ideologia in questo senso, non dubito che tanto l’onorevole Togliatti, quanto l’onorevole Lucifero(*) vorranno concordare, come in effetti hanno in gran parte concordato nel corso delle nostre discussioni in sede di Sottocommissione, nel ritenere che un tale richiamo largamente morale ed umano, è necessario nella nostra Costituzione.
È necessario perché, elaborando il progetto di Costituzione e preparandoci a votarlo come adesso facciamo, noi attendiamo ad una grande opera: la costruzione di un nuovo Stato. E costruire un nuovo Stato, se lo Stato è - com’è certamente – una forma essenziale, fondamentale di solidarietà umana, costruire un nuovo Stato vale quanto prendere posizione intorno ad alcuni punti fondamentali inerenti alla concezione dell’uomo e del mondo.
Non dico che ci si debba dividere su questo punto, partendo ciascuno da una propria visione ristretta e particolare; ma dico che se nell’atto di costruire una casa nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad abitare insieme, non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita. Divisi – come siamo – da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità, la comunità del nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri. Costruendo il nuovo Stato noi determiniamo una formula di convivenza, non facciamo soltanto dell’organizzazione dello Stato, non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per la nostra sicurezza nell’avvenire; determiniamo appunto una formula di convivenza, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la costruzione del nuovo Stato.
Quando io ripenso a quella che è stata la vigilia del 2 giugno, quando mi ritorna alla mente la mobilitazione spirituale che tutte quante le forze politiche hanno fatto nel nostro Paese – una mobilitazione la quale tendeva appunto a dare alcuni supremi orientamenti di vita umana e sociale - quando ripenso che questa mobilitazione era precisamente determinata dalla coscienza di questo grande atto che si stava per compiere, di questa grande e decisiva ricerca da fare, io dico che veramente di questa fondamentale ideologia che ci accomuna noi non possiamo fare a meno, se non vogliamo fare della nostra Costituzione uno strumento antistorico ed inefficiente. Diceva l’onorevole Lucifero, nel corso del suo interessante intervento in sede di discussione generale, riprendendo un’idea lungamente espressa nella nostra cordiale discussione in sede di Sottocommissione, che era suo desiderio che la nuova Costituzione italiana fosse una Costituzione non antifascista, bensì afascista. Io, come già ho espresso in sede di Commissione all’amico Lucifero qualche riserva su questo punto, torno ad esprimerla, perché mi sembra che questo elementare substrato ideologico nel quale tutti quanti noi uomini della democrazia possiamo convenire, si ricolleghi appunto alla nostra comune opposizione di fronte a quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale. Non possiamo in questo senso fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale.
Guai a noi, se per una malintesa preoccupazione di serbare appunto pura la nostra Costituzione da una infiltrazione di motivi partigiani, dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce e la necessità di un raccordo alla situazione storica nella quale questa Costituzione italiana si pone. La Costituzione nasce in un momento di agitazioni e di emozione. Quando vi sono scontri di interessi e di intuizioni, nei momenti duri e tragici, nascono le Costituzioni, e portano di questa lotta dalla quale emergono il segno caratteristico. Non possiamo, ripeto, se non vogliamo fare della Costituzione uno strumento inefficiente, prescindere da questa comune, costante rivendicazione di libertà e di giustizia».
Aldo Moro - Intervento all’Assemblea Costituente 14 marzo 1947
(*) Roberto Lucifero d’Aprigliano è partigiano, avvocato, politico e giornalista italiano. Dal 1947 al 1948 fu segretario nazionale del Partito liberale italiano, che rappresentò all’Assemblea costituente e in seguito nel Senato della Repubblica.