Charles de Foucauld, modello di dialogo e di radicalità evangelica

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La recente canonizzazione di Charles de Foucauld ha acceso i riflettori su un modello di santità costruita anche sulla base dei propri fallimenti (e nonostante essi). Grande oggi è l’eredità del Piccolo Fratello, testimone di dialogo e di radicalità evangelica che ha provato ad attualizzare con la propria vita lo stile vissuto da Gesù a Nazaret.

 

«In questo spazio di riflessione sulla fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente da San Francesco d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al Beato Charles de Foucauld» (Francesco, Fratelli tutti, 286).
È tutt’altro che sorprendente, il riferimento di papa Francesco a Charles de Foucauld nell’enciclica Fratelli tutti, firmata ad Assisi il 3 ottobre 2020. Si tratta, com’è noto, di una riflessione articolata e non di rado spiazzante, a campo aperto, sulla necessità di uscire dalle secche del nostro mondo chiuso, avviandoci finalmente a una fraternità universale, nel contesto dell’attuale cambio d’epoca. Tempo assai incerto e difficile da decifrare, ben oltre gli esiti della pandemia globale che ha sconvolto il pianeta, in cui appare in ogni caso sempre più indispensabile – a ogni livello – sperimentare la fecondità del confine, delle terre di mezzo, dell’abitare spazi sconosciuti e inesplorati. Senza paura di sporcarsi le mani, di sbagliare, semmai, ed essere costretti a cambiare rotta. Cosa che Bergoglio è abituato a fare, sin dalle stagioni argentine, e che ha proseguito a vivere da vescovo di Roma, con coraggio evangelico e passione sincera. Del resto, come amava sottolineare il teologo protestante Paul Tillich, è proprio il confine il terreno più fecondo per la conoscenza: e anche frère Charles i confini ha scelto di attraversarli più volte, sin dai suoi controversi anni giovanili, con il piglio di un intrepido avventuriero, e l’ha fatto geograficamente e metaforicamente. Fino ad abitarli e a sostare in essi, in età matura, sfidando non pochi rischi – primo dei quali un definitivo fallimento esistenziale – per recarsi a risiedere in Dar al-Islam, nella terra dell’islam, pur di mantenersi fedele al suo unico e assoluto progetto: rendere attuale il vangelo vissuto nel nascondimento, a Nazaret, da Gesù.
Charles-Eugène de Foucauld, recentemente canonizzato (15 maggio 2022), nasce a Strasburgo, in Alsazia, il 15 settembre 1858, da un’antica famiglia nobiliare il cui storico motto è “Mai ritirarsi!”; morirà in circostanze drammatiche, nel deserto algerino in cui si era spinto (e non ritirato) per seguire quella che aveva finalmente intuito essere la sua definitiva vocazione, il 1° dicembre 1916. Ebbe una vita piuttosto breve, dunque, appena cinquantotto anni: eppure, le definizioni che gli si potrebbero attribuire sono tante e variegate: ufficiale di cavalleria ben disposto all’azione, brillante esploratore in terra africana, stimato geografo ed etnologo, meticoloso linguista, e naturalmente uomo dello Spirito, presbitero, monaco e poi eremita in Algeria. A dispetto dei suoi sforzi, in realtà, di tutti gli obiettivi che si era dato, egli non ne raggiunse nemmeno uno: avrebbe voluto fondare un ordine religioso, o almeno un istituto di fratelli, ma nonostante ripetuti tentativi e sperimentazioni non ci riuscì. Rifiutò d’altra parte, inoltre, di diventare ciò che di volta in volta gli veniva richiesto dalla famiglia e dalle occasioni che gli si pararono davanti, dapprima studente modello e poi soldato di carriera, scegliendo di rimanere costantemente di lato, per consegnarsi alla fine al silenzio, all’ascolto e alla preghiera. Pur abitando nel deserto profondo, a Tamanrasset, fianco a fianco con i Tuareg, tradizionalmente musulmani sunniti, non determinò in loro alcuna conversione al cristianesimo, fino a trovare la morte, assassinato per futili ragioni, quando ancora era nel pieno della maturità intellettuale e spirituale. Per di più, infine, non lo si può dire un teologo in senso stretto, né un pensatore originale: quando morì, non aveva pubblicato nessuno dei suoi scritti spirituali né i suoi lavori di linguistica. Del resto, fu lui stesso a sceglierlo, sostenendo che le opere di misericordia da realizzarsi da parte dei futuri Piccoli Fratelli di Gesù si dovevano limitare a quelle che Gesù compiva a Nazaret: accogliere gli ospiti e dare loro l’elemosina. La sua è una biografia sicuramente inquieta, quella di un uomo ansioso che non ha mai smesso di cercare: il sale della vita, se stesso, Dio, e a conti fatti soprattutto, e sopra ogni altra cosa, Gesù. Un uomo che non sopportò le mezze misure, le mediazioni, gli equilibrismi e tantomeno i compromessi, transitando spesso da un estremo all’altro, dagli abissi della dissipazione alla gloria mondana fino alla perfezione evangelica. Ecco perché, imbattendosi in lui e nella sua storia da moderno padre del deserto, è ben difficile rimanere indifferenti: o ci si innamora ingegnandosi a conoscere tutto di lui, o ci si rifiuta di farsi coinvolgere, di fronte a quello che potrebbe anche apparirci un idealista un po’ folle, incapace di fare i conti con la dura realtà. Tutto e subito, come quando Charles, il cristianesimo, lo ri-scopre (letteralmente, nel senso che riesce a togliere il velo che ne faceva la depositaria religione di famiglia, alla quale era stato costretto ad adeguarsi). Tanto da ammettere, nel 1886, già ventottenne: «Appena ho creduto che Dio esiste ho capito che non avrei potuto fare altro che vivere solo per lui».
Eppure, il nome di de Foucauld è divenuto, nel corso dei decenni, un punto di riferimento sicuro e imprescindibile per orientarsi in molteplici ambiti: ad esempio, per quanti vogliano accostarsi a una radicalità evangelica a imitazione di Gesù povero, per il sempre difficile (ma anche indilazionabile) dialogo fra cristiani e musulmani, per chi accetti di lasciarsi affascinare da una spiritualità del deserto accessibile sia ai credenti sia ai (cosiddetti) non credenti. «Nella sua immagine – scrive Franca Giansoldati – forse possono riconoscersi tutti i falliti della storia». Ma già il suo primo biografo, René Bazin, aveva colto tale aspetto, presentandolo così: «È stato il monaco senza monastero, il maestro senza discepoli, il penitente che sosteneva, nella solitudine, la speranza di un’età che non doveva vedere». Il gesuita Paul Desfarges, dal 2016 al 2021 arcivescovo di Algeri e presidente della Conferenza regionale del Nord Africa (CERNA), così ha commentato la notizia, resa nota nel 2020, della canonizzazione di de Foucauld, ricordando che frère Charles è stato anche e soprattutto un pioniere del dialogo con l’alterità, con altre culture e religioni, in particolare con l’islam: «Ha sempre insistito molto sulla bontà, il suo era l’apostolato della bontà. Nulla, a suo parere, si poteva fare al di fuori di un clima di bontà. La priorità per lui era quella di amare le persone, amarle per come sono, amarle gratuitamente. Il dialogo quotidiano che costruiamo oggi con i nostri fratelli musulmani si pone proprio su questa dimensione, nel solco della bontà”. La dimensione dell’alterità, infatti, senza distinzioni, era penetrata in modo deciso nei lunghi giorni di deserto di de Foucauld, offrendogli la possibilità di sperimentare appieno quella forma di condivisione, di relazione, di fratellanza che intendeva essere universale nell’orizzonte, ma vissuta concretamente con quanti gli si facevano incontro giorno per giorno.
Ma qual è il suo lascito, nell’ambito dell’evangelizzazione? È noto come negli ultimi decenni il concetto di missione sia stato sottoposto a un’amplissima revisione rispetto ai modelli finora adottati, revisione attuata non solo dai teorici della materia, i missiologi, ma anche dagli stessi operatori sul campo, missionarie e missionari, chierici e laici. Le risposte alla crisi di tale nozione sono assai diversificate, così come i vissuti concreti degli attori diretti: dal recupero dei modelli più tradizionali che puntano a riproporre antichi schemi ritenuti solidi e inscalfibili fino a tentare vie inedite che nel corso della loro messa in opera sperimentano – certo, a caro prezzo – l’arduo cammino di inculturazione dell’annuncio evangelico, nella consapevolezza che occorre sempre prendere le mosse ascoltando la realtà, prima ancora di sbandierare dottrine e idee da portare sul luogo sic et simpliciter. Molte le cause della trasformazione in atto: dagli effetti della decolonizzazione nei Paesi che abbiamo chiamato fino a qualche anno fa del Terzo mondo agli sviluppi nelle scienze sociali, soprattutto in sociologia e antropologia, finalmente accolti come necessari per capire i cambiamenti in corso; dai drastici mutamenti di mentalità legati al decreto conciliare Ad gentes, che ha scelto di fondare biblicamente e teologicamente la missione e nel contempo di allargare a tutta la Chiesa il compito di fare missione, fino all’emergere di una cultura cosiddetta postmoderna. Caratterizzata, quest’ultima, da un sistema di valori e credenze ben più profondi di quanto una prima superficiale osservazione possa far pensare: fra gli altri, alla rinfusa, un forte senso dello sviluppo storico delle idee e dei punti di vista; un’accettazione indiscussa della costruzione sociale della conoscenza e dell’influenza delle culture sulla comprensione; una chiara consapevolezza dell’immensità, diversità e misteriosità del mondo fisico e sociale; l’esaurimento delle metanarrazioni, le ideologie che sinora ci hanno descritto la realtà a tutto tondo. In questo panorama, gli istituti missionari, e più complessivamente la missione della Chiesa, stanno facendo i conti con la loro debolezza, con la loro crescente fragilità; e, contestualmente, con la necessità di annunciare e testimoniare il Vangelo non nella potenza dei mezzi o dei sostegni di vario tipo, ma nell’estrema precarietà di una situazione di crisi sistemica costantemente in progress. Insuperabile, al riguardo, la considerazione di due decenni or sono del vescovo di Poitiers, il francese Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, riferita a un giornalista che lo sollecitava a esprimersi su cosa la Chiesa avrebbe dovuto fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con parrhesia il proprio sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi». Rileggere oggi la vicenda di de Foucauld può certo aiutarci a entrare in sintonia con questo clima e a rimetterci in marcia, a dispetto di ogni oggettiva difficoltà. Sì, la fede cristiana, sulla scia del carisma del fratello universale, ci dovrebbe spingere oggi a prendere il largo, ad apprezzare il dono dell’incertezza e del mistero della creazione, nella consapevolezza che la missione è di Dio, sia pure limitata dai nostri umili tentativi di comprenderla e di viverla. Perché, se si dà un punto fermo in questa stagione liquida, è che nulla nella missione e nell’annuncio evangelico sarà come prima, per cui i credenti sono sin d’ora chiamati a disporsi alla rottura e alla reinvenzione del messaggio cristiano, fino ad abbandonare definitivamente l’idea di un Dio onnipotente per abbracciare quella di un Dio che sta alla soglia dell’esistenza. In altri termini, occorre dialogare per credere: risignificare il pluralismo, accettare il caos pur nella ricerca di un senso, nella convinzione che la verità non è un possesso; e che Dio – nel tempo segnato dall’incertezza, appunto – si dice nel movimento di impregnarsi, mescolarsi, donarsi, per ritrovare nell’altro le ragioni perdute dell’essere comunità e del tessere legami. Fratelli (e sorelle) tutti. Ecco perché, a conti fatti, e a dispetto degli ancora troppi profeti di sventura (compagni ideali di quelli deprecati da Giovanni XXIII mentre introduceva, sessant’anni or sono, il Vaticano II con la Gaudet Mater Ecclesia), questo cambiamento d’epoca non solo non dovrebbe mettere paura, ma potrà fare del bene al Vangelo e alla sua credibilità. Perché, come de Foucauld amava ripetere a se stesso, «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

 

ANTOLOGIA

«Mi avete chiesto una descrizione della cappella [...] La cappella, dedicata al Sacro Cuore di Gesù, si chiama cappella della fraternità del Sacro Cuore di Gesù; la mia piccola dimora si chiama fraternità del Sacro Cuore di Gesù [...] Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, a considerarmi come loro fratello, il fratello universale [...]A poco a poco cominciano a chiamare la casa la fraternità, e ciò mi fa piacere [...]».

(Lettera alla cugina Marie de Bondy, Béni Abbès, 7 gennaio 1902)

 

«Sono qui non per convertire in un sol colpo i Tuareg, ma per cercare di comprenderli [...] Sono certo che il Buon Dio accoglierà in cielo quelli che sono stati buoni e onesti, senza che ci sia bisogno di essere cattolici-romani. Tu sei protestante, altri non credenti e i Tuareg sono musulmani. Sono convinto che Dio ci accoglierà tutti quanti, se lo meriteremo».

(Confidenza al dottor Dautheville, Tamanrasset, gennaio 1908)

 

«Carissimo fratello in GESÙ, ricevo stamattina le sue lettere del 3 e 9 ottobre, commosso al pensiero dei pericoli più grandi che forse correrà, che probabilmente corre già. Ha fatto benissimo a chiedere di passare nella truppa. Non bisogna mai esitare a chiedere i posti in cui il pericolo, il sacrificio, la dedizione, sono più grandi: l’onore, lasciamolo a chi lo vorrà, ma il pericolo, la pena, reclamiamoli sempre. Cristiani, dobbiamo dare l’esempio del sacrificio e della dedizione. È un principio al quale bisogna essere fedeli tutta la vita, in semplicità, senza chiedere se non entri un po’ d’orgoglio in questa condotta: è il dovere, facciamolo e chiediamo all’amatissimo Sposo della nostra anima di farlo in tutta umiltà, in totale amore di Dio e del prossimo [...] Ha fatto bene. Cammini in questa via in semplicità e in pace, certo che è GESÙ che l’ha ispirato a seguirlo. Non sia inquieto per casa sua. Si affidi e l’affidi a Dio, e cammini in pace. Se Dio le conserva la vita, cosa che gli chiedo con tutto il cuore, il suo focolare sarà più benedetto perché, sacrificandosi di più, sarà più unito a GESÙ e avrà una vita più soprannaturale. Se morrà, Dio guarderà la Signora Massignon e suo figlio senza di lei come Egli li avrebbe guardati con lei. Offra la vita a Dio per le mani di Nostra Madre la Santissima Vergine in unione col Sacrificio di Nostro Signore GESÙ e a tutte le intenzioni del Suo Cuore, e cammini in pace. Abbia fiducia che Dio le darà la sorte migliore per la Sua Gloria, la migliore per la sua anima, la migliore per l’anima degli altri, poiché non gli chiede che questo, poiché tutto quello che Egli vuole, lei lo vuole, pienamente e senza riserve.
Il nostro angolo di Sahara è in pace. Vi prego per lei con tutto il cuore e insieme per la sua famiglia.
Questa le arriverà tra Natale e il 1° gennaio. Mi cerchi accanto a lei in questi due giorni. Buono e Santo Anno, numerosi e Santi anni se è la volontà divina, e il cielo. Dio la guardi e protegga la Francia! GESÙ, Maria e Giuseppe la guardino tra loro in tutta la sua vita terrestre, all’ora della morte e nell’eternità.
L’abbraccio di tutto cuore come l’amo nel CUORE di GESÙ».

(Lettera a Louis Massignon, Tamanrasset, 1-12-1916)