Il cardinale Zuppi, nuovo presidente della Cei, discute con «Dialoghi» delle prospettive del cammino sinodale in Italia, della guerra e delle elezioni, ricordando che l’Azione cattolica ha oggi la responsabilità di aiutare le parrocchie a essere aperte, e che con i suoi cammini formativi può contribuire a realizzare il messaggio di fraternità dell’enciclica Fratelli Tutti.
Lo studio del cardinale Matteo Maria Zuppi si trova al terzo piano della Curia di Bologna, un palazzo in pieno centro a due passi dalla Torre degli Asinelli. Tre lati della stanza sono occupati da una libreria straripante, sulle mensole sbucano icone dai colori brillanti. Alle pareti le foto di momenti speciali: uno scatto degli anni Ottanta con il giovane “don Matteo” in bianco e nero, tre incontri con papa Francesco (uno in piazza San Pietro con l’amico Francesco Guccini, che Zuppi presentò al Santo Padre al termine di un’udienza), abbracci e sorrisi in mezzo a gruppi di amici. Vicino alla sua scrivania, il presidente della Conferenza episcopale italiana ha appeso una piccola immagine di papa Giovanni XXIII, l’uomo che diede avvio al Concilio Vaticano II, per Zuppi una «Pentecoste dello Spirito» che orienta anche il Cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa italiana.
Nella lettera che introduce il secondo anno del Cammino sinodale ha citato il discorso di Giovanni XXIII all’apertura del Concilio: «È appena l’aurora: ma come già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole sorgente!». Cardinale Zuppi, la Chiesa italiana vive una nuova alba?
La citazione di Giovanni XXIII per l’avvio del secondo anno del cammino sinodale non è casuale. In un altro passaggio di quel discorso, poco prima, il papa criticava coloro che guardavano con sfiducia al proprio tempo: pur «accesi di zelo per la religione», diceva, «non sono capaci di vedere altro che rovine». E invece suggeriva che qualcosa di nuovo stava sorgendo. Così, credo, sta avvenendo anche oggi. Ma dobbiamo essere in grado di cambiare la cifra con cui interpretiamo la realtà.
Che cosa intende?
La cristianità ha ancora tanta eredità nella nostra società, ma dobbiamo prendere atto dei cambiamenti. Se davvero è finita, allora dobbiamo essere in grado di interpretare diversamente quando le cose “vanno bene” oppure “vanno male” nelle nostre comunità, per distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è più. Continuiamo ad avere, ad esempio, una deformazione numerica, mentre dobbiamo coltivare una libertà dai numeri e guardare di più al coinvolgimento di ogni persona. In un mondo sempre più individuale e digitale, forse è cambiato anche il modo con cui si aderisce, ci si sente partecipe delle proposte, alle identità, compresa quella cristiana. Se siamo in grado di cambiare la cifra, allora vediamo chiaramente i tantissimi, evidenti segni della presenza di Dio nel mondo. E riusciamo anche ad ascoltare le domande di senso, di relazione, di aiuto e di speranza delle donne e degli uomini del nostro tempo. Domande di Vangelo, nella sostanza.
Le comunità cristiane fanno i conti con il calo numerico, eppure la Chiesa è vista come punto di riferimento per tante emergenze sociali ed educative. C’è il rischio che si alimenti un senso d’impotenza?
Voglio essere molto chiaro: una certa idea della Chiesa di minoranza, in cui “meno siamo, meglio stiamo”, porta con sé una visione impaurita ma soprattutto mediocre. Ci sono modi diversi per teorizzare questo atteggiamento, alcuni raffinati, intelligenti, come quelli che papa Francesco identificherebbe nello gnosticismo o nel pelagianesimo. La Chiesa vuole portare il Vangelo a tutti e questo desiderio si concretizza nei tanti modi con cui le comunità accompagnano varie situazioni di difficoltà. Il senso d’impotenza c’è anche nel Vangelo, i discepoli lo sperimentano prima della moltiplicazione dei pani e dei pesci, tanto che si lamentano con Gesù. Dopo, però, cambia tutto. Il punto allora non è quanti siamo, se siamo minoranza o maggioranza, ma che cosa ci facciamo coi cinque pani e due pesci che il Signore ci ha dato e se prendiamo sul serio il suo invito o lo facciamo cadere rimandando noi la folla, tenendoci stretto “il nostro”, sentendoci a posto perché li mandiamo via. Nel Vangelo cinque pani e due pesci sono abbastanza: non abbiamo giustificazioni e non dobbiamo affannarci a cercare mezzi a sufficienza per iniziare.
Che cosa si aspetta dal secondo anno del cammino sinodale?
Il primo anno è stato interessante, molti gruppi si sono messi in movimento. Nonostante la pandemia e qualche fatica, mi è sembrato di cogliere una bella partecipazione. Ora spero che sapremo rilanciare con più determinazione l’ascolto di tutto il popolo di Dio attraverso la proposta dei “Cantieri sinodali”. Abbiamo ascoltato ancora troppo poco, soprattutto i tanti compagni di viaggio che qualcuno avrebbe definito, ottanta anni or sono, lontani. Ci guida il magistero di papa Francesco, che aiuta a capire come l’orizzonte della missione non abbia confini. La Chiesa è nel mondo e parla con tutti: siamo chiamati a pensarci insieme come comunità umana, a lasciarci interrogare e anche ferire dalle domande di tanti, ad approfondire l’ascolto con più interiorità, più profondità, più passione.
Tra Sinodo e Concilio: il suo prozio era il cardinale Carlo Confalonieri, segretario particolare di papa Pio XI e poi padre conciliare. Ha mai parlato con lui proprio del Concilio?Molte volte. Mi aiutò a comprendere l’atmosfera di quegli anni, la novità che rappresentava. Il Concilio fu un cambiamento storico, che aprì con grande coraggio una stagione nuova. Senza il Concilio, a mio parere, la Chiesa sarebbe diventata rapidamente un museo, certamente bello, ma senza vita. Il cardinale Confalonieri visse quegli anni da uomo dell’istituzione: ogni forma di preferenza gli era del tutto aliena, aveva un senso totale della Chiesa nella sua unità. Di lui ricordo questa dedizione fortissima per la Chiesa. Oneri, non onori, era uno dei suoi motti.
Torniamo al Cammino sinodale italiano. Uno dei temi del secondo anno di ascolto sarà lo “snellimento” delle strutture per un annuncio più efficace del Vangelo.
La Chiesa è snella quando cammina, non si ingrassa di problemi interni e li piega ad andare incontro a tutti. È facile appesantirsi fisicamente, ma soprattutto spiritualmente. La Chiesa è snella se sente l’urgenza dell’annuncio e allora riduce al minimo le procedure e i problemi perché tutto ha senso per raggiungere i confini a cui il Signore ci invia. Una Chiesa snella è capace di assumersi delle responsabilità, e di trovare risposte alle domande in modo libero da logiche interne. Tutti i mezzi e le strutture della Chiesa servono per generare la presenza di Cristo e comunicare nel mondo la proposta del Vangelo. Se invece la Chiesa vive per se stessa, perde la finalità che Gesù le ha dato.
Qual è il contributo dei laici, e specificamente dei laici di Azione cattolica, nella Chiesa sinodale?
Non mi piace fare distinzioni, il punto è realizzare nelle comunità la conversione pastorale e missionaria e tutto il popolo di Dio è coinvolto in questo processo: nessuno – laico, religioso, consacrato – è esente. L’Azione cattolica, però, ha un ruolo molto importante perché è la realtà associativa più strutturalmente legata alla Chiesa. Il radicamento parrocchiale dell’associazione è prezioso perché la parrocchia rimane l’articolazione ordinaria, benché non l’unica, della vita ecclesiale. L’Ac, oggi, ha la responsabilità di aiutare le parrocchie a essere aperte, e per fare questo credo che debba farsi ispirare proprio dai due termini che ne compongono il nome: sia “Azione”, non staticità; e sia “cattolica”, cioè universale, per tutti. Con i suoi cammini formativi può contribuire a realizzare il messaggio di fraternità descritto in particolare nell’enciclica Fratelli Tutti.
Cardinale Zuppi, la guerra è tornata in Europa.
Un segno del tempo evidente, tragico, terribile. Nel nostro continente si ripropongono i nazionalismi e questo ci chiama a riflettere come cristiani: siamo uomini e donne che hanno una patria, ma che si sentono anche parte di un’umanità che supera i confini. Non possiamo abituarci, non possiamo continuare a essere quelli di prima: credo che dovremmo metterci seriamente a parlare di pace, ma soprattutto a capire cosa significa per ciascuno, e per tutti noi insieme, costruire la pace.
In uno scenario complesso, l’Italia si avvia verso le elezioni. Con quale spirito vivere questo passaggio democratico?
Con grande serietà, perché questo frangente è decisivo per il futuro dell’Europa. Per la prima volta da quando è stata fondata, l’Unione Europea si misura con un problema di violenza così grande da rimettere in discussione gli equilibri geopolitici in cui essa operava. E dal momento che non possiamo vivere senza equilibri, anche l’Italia è chiamata a cercare delle risposte adeguate alle sfide del nostro tempo.
Un cantautore di Bologna, Cesare Cremonini, apre il suo ultimo disco con una frase: «Ho bisogno di qualcuno che mi indichi la strada». La Chiesa italiana è pronta ad ascoltare le domande di senso che arrivano dalle persone?
Ho paura che ancora facciamo fatica: molti non ci chiedono nulla, a volte non riusciamo a intercettare le domande, altre volte semplicemente non ci facciamo avvicinare. Un altro cantante bolognese, Luca Carboni, diceva che «siamo sempre ad un incrocio»: e noi, come Chiesa, a questi incroci della vita ci dobbiamo stare.
Una Chiesa italiana “snella”, ma con un “fisico bestiale”?
Una Chiesa italiana formata da persone che sanno farsi riempire la vita dallo Spirito Santo. L’11 ottobre 2012, nei cinquant’anni dall’inizio del Concilio, Benedetto XVI ricordava l’entusiasmo di quel periodo e diceva: «Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile». Vorrei che questo anno pastorale iniziasse con la consapevolezza della «gioia più sobria» che portiamo nel cuore, e col desiderio di accompagnare «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» della gente. Così, e con l’aiuto del Signore, sapremo camminare nel Cammino sinodale insieme a tanti compagni di strada.